Para
Key


[3846,2] Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e
tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, {Puoi vedere p.
3835. seg.; p. 3842.
seg.} e sempre attualmente,
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cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi,
quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in
ciascuno istante ch'egli ama {attualmente} se stesso,
egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua
di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale,
ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non
può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come
s'è spiegato altrove [
pp.165.sgg.]
[
pp.1017-18],
e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può essere. Dunque il vivente
non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del suo desiderio. Sempre
pertanto ch'ei desidera, egli è necessariamente infelice, perciò appunto ch'ei
desidera inutilmente, esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un
desiderio non soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E
tanto più infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente
altra felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza
d'infelicità; non è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva
altrimenti che non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di
non bramar la felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei
sente di esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più
ch'ei sente di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della
felicità umana e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini,
{+e a questa conclusione}. Una
specie di
3848 viventi rispetto all'altra {o all'altre generalmente ec.,} è tanto più felice, cioè
tanto meno infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno
dell'altra ella sente l'esistenza, cioè quanto men vive {e
più si accosta ai generi non animali}. (Dunque la specie de'
polipi,{+zoofiti ec.} è la più
felice delle viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri.
(Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de'
Lapponi la più felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso
allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una
ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, {debolezza non penosa,} ec. negl'istanti che precedono il
sonno o il risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può
essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità
positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo,
svenimento totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo
esser di vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità
veruna, nè di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive;
allora solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser
felice; meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto
infelice. Quindi l'uomo {e il vivente} è anche tanto
meno infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità,
mediante l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato
altrove [
pp.172-73]
[
pp.1584-86]. O distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità
che hanno e possono mai aver gli animali. (7. Nov. 1823.)