Sequence
p752,p753,p754,p755,p756,p757

[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la
grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che
vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si
può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere
le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle
primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata
coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva
ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe
dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua;
e
747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo
proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini
non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze
vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e
formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute
intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i
latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze,
arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle
discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non
latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo
stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche
s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come
potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale
benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle
cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali,
se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e
confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando
materie {si può dir} greche popolò il latino di parole
greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua
greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e
quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come
oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e
simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado
di discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi
si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla
grecia in Roma, immediatamente
e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata
ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di
poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole
tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e
così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e
si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte
perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar
dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi
s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole,
751 davan sacco alla lingua greca che
l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua,
ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e
mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella
gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche
la moda. Orazio già avea dato poco buon
esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto
l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto
seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re}. Non è maraviglia se la lingua
romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e
famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo
costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque
coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se,
giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti
paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte,
felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua
morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e
dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi
l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara
le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei
Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio)
restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante
all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori
del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un
parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare
la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare,
l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in
dispetto della natura {e del
vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati,
e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la
modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare}
che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo {di tempo ed
altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la
lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e
variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere,
la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano,
che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è
impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e
le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche
ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E
perchè Cic. non iscrisse come il vecchio
Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino, e
{limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio Andronico,
ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però
ch'io renda giustizia a Frontone, perchè
se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione
giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende
assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua
veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non
però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti,
col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se
la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi
cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. {
Frontone
non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in
tratto.} Il che
757 fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser
buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come
capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non
sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e
scarsezza di mezzi, {e decisa
insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni
italiani: e Frontone del resto non fu
niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come
modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e
che lo stesso Lucrezio (che tanto
l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio;
all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della
lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e
consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro
attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per
l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia
detto in trascorso e per digressione.

[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la
grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che
vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si
può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere
le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle
primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata
coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva
ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe
dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua;
e
747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo
proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini
non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze
vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e
formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute
intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i
latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze,
arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle
discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non
latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo
stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche
s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come
potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale
benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle
cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali,
se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e
confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando
materie {si può dir} greche popolò il latino di parole
greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua
greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e
quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come
oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e
simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado
di discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi
si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla
grecia in Roma, immediatamente
e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata
ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di
poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole
tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e
così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e
si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte
perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar
dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi
s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole,
751 davan sacco alla lingua greca che
l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua,
ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e
mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella
gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche
la moda. Orazio già avea dato poco buon
esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto
l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto
seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re}. Non è maraviglia se la lingua
romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e
famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo
costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque
coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se,
giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti
paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte,
felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua
morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e
dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi
l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara
le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei
Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio)
restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante
all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori
del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un
parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare
la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare,
l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in
dispetto della natura {e del
vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati,
e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la
modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare}
che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo {di tempo ed
altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la
lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e
variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere,
la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano,
che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è
impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e
le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche
ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E
perchè Cic. non iscrisse come il vecchio
Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino, e
{limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio Andronico,
ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però
ch'io renda giustizia a Frontone, perchè
se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione
giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende
assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua
veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non
però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti,
col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se
la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi
cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. {
Frontone
non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in
tratto.} Il che
757 fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser
buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come
capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non
sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e
scarsezza di mezzi, {e decisa
insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni
italiani: e Frontone del resto non fu
niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come
modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e
che lo stesso Lucrezio (che tanto
l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio;
all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della
lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e
consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro
attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per
l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia
detto in trascorso e per digressione.

[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la
grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che
vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si
può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere
le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle
primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata
coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva
ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe
dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua;
e
747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo
proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini
non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze
vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e
formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute
intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i
latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze,
arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle
discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non
latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo
stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche
s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come
potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale
benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle
cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali,
se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e
confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando
materie {si può dir} greche popolò il latino di parole
greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua
greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e
quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come
oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e
simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado
di discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi
si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla
grecia in Roma, immediatamente
e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata
ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di
poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole
tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e
così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e
si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte
perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar
dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi
s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole,
751 davan sacco alla lingua greca che
l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua,
ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e
mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella
gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche
la moda. Orazio già avea dato poco buon
esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto
l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto
seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re}. Non è maraviglia se la lingua
romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e
famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo
costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque
coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se,
giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti
paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte,
felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua
morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e
dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi
l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara
le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei
Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio)
restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante
all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori
del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un
parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare
la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare,
l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in
dispetto della natura {e del
vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati,
e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la
modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare}
che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo {di tempo ed
altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la
lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e
variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere,
la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano,
che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è
impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e
le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche
ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E
perchè Cic. non iscrisse come il vecchio
Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino, e
{limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio Andronico,
ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però
ch'io renda giustizia a Frontone, perchè
se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione
giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende
assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua
veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non
però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti,
col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se
la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi
cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. {
Frontone
non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in
tratto.} Il che
757 fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser
buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come
capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non
sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e
scarsezza di mezzi, {e decisa
insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni
italiani: e Frontone del resto non fu
niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come
modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e
che lo stesso Lucrezio (che tanto
l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio;
all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della
lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e
consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro
attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per
l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia
detto in trascorso e per digressione.

[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la
grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che
vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si
può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere
le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle
primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata
coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva
ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe
dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua;
e
747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo
proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini
non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze
vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e
formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute
intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i
latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze,
arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle
discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non
latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo
stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche
s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come
potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale
benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle
cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali,
se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e
confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando
materie {si può dir} greche popolò il latino di parole
greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua
greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e
quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come
oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e
simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado
di discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi
si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla
grecia in Roma, immediatamente
e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata
ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di
poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole
tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e
così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e
si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte
perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar
dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi
s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole,
751 davan sacco alla lingua greca che
l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua,
ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e
mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella
gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche
la moda. Orazio già avea dato poco buon
esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto
l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto
seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re}. Non è maraviglia se la lingua
romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e
famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo
costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque
coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se,
giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti
paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte,
felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua
morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e
dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi
l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara
le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei
Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio)
restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante
all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori
del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un
parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare
la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare,
l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in
dispetto della natura {e del
vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati,
e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la
modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare}
che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo {di tempo ed
altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la
lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e
variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere,
la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano,
che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è
impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e
le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche
ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E
perchè Cic. non iscrisse come il vecchio
Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino, e
{limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio Andronico,
ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però
ch'io renda giustizia a Frontone, perchè
se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione
giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende
assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua
veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non
però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti,
col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se
la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi
cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. {
Frontone
non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in
tratto.} Il che
757 fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser
buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come
capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non
sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e
scarsezza di mezzi, {e decisa
insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni
italiani: e Frontone del resto non fu
niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come
modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e
che lo stesso Lucrezio (che tanto
l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio;
all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della
lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e
consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro
attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per
l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia
detto in trascorso e per digressione.

[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la
grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che
vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si
può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere
le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle
primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata
coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva
ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe
dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua;
e
747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo
proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini
non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze
vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e
formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute
intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i
latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze,
arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle
discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non
latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo
stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche
s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come
potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale
benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle
cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali,
se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e
confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando
materie {si può dir} greche popolò il latino di parole
greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua
greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e
quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come
oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e
simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado
di discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi
si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla
grecia in Roma, immediatamente
e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata
ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di
poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole
tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e
così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e
si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte
perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar
dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi
s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole,
751 davan sacco alla lingua greca che
l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua,
ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e
mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella
gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche
la moda. Orazio già avea dato poco buon
esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto
l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto
seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re}. Non è maraviglia se la lingua
romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e
famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo
costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque
coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se,
giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti
paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte,
felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua
morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e
dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi
l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara
le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei
Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio)
restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante
all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori
del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un
parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare
la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare,
l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in
dispetto della natura {e del
vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati,
e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la
modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare}
che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo {di tempo ed
altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la
lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e
variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere,
la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano,
che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è
impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e
le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche
ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E
perchè Cic. non iscrisse come il vecchio
Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino, e
{limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio Andronico,
ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però
ch'io renda giustizia a Frontone, perchè
se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione
giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende
assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua
veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non
però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti,
col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se
la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi
cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. {
Frontone
non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in
tratto.} Il che
757 fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser
buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come
capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non
sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e
scarsezza di mezzi, {e decisa
insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni
italiani: e Frontone del resto non fu
niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come
modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e
che lo stesso Lucrezio (che tanto
l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio;
all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della
lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e
consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro
attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per
l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia
detto in trascorso e per digressione.

[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la
grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che
vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si
può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere
le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle
primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata
coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva
ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe
dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua;
e
747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo
proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini
non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze
vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e
formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute
intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i
latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze,
arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle
discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non
latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo
stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche
s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come
potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale
benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle
cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali,
se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e
confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando
materie {si può dir} greche popolò il latino di parole
greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua
greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e
quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come
oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e
simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado
di discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi
si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla
grecia in Roma, immediatamente
e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata
ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di
poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole
tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e
così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e
si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte
perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar
dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi
s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole,
751 davan sacco alla lingua greca che
l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua,
ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e
mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella
gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche
la moda. Orazio già avea dato poco buon
esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto
l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto
seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re}. Non è maraviglia se la lingua
romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e
famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo
costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque
coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se,
giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti
paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte,
felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua
morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e
dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi
l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara
le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei
Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio)
restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante
all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori
del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un
parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare
la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare,
l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in
dispetto della natura {e del
vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati,
e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la
modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare}
che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo {di tempo ed
altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la
lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e
variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere,
la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano,
che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è
impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e
le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche
ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E
perchè Cic. non iscrisse come il vecchio
Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino, e
{limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio Andronico,
ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però
ch'io renda giustizia a Frontone, perchè
se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione
giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende
assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua
veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non
però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti,
col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se
la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi
cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. {
Frontone
non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in
tratto.} Il che
757 fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser
buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come
capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non
sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e
scarsezza di mezzi, {e decisa
insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni
italiani: e Frontone del resto non fu
niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come
modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e
che lo stesso Lucrezio (che tanto
l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio;
all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della
lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e
consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro
attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per
l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia
detto in trascorso e per digressione.