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11. Luglio 1823.

[2943,1]  Come gli antichi riponessero la consolazione, anche della morte, non in altro che nella vita, (del che ho detto altrove p. 79 p. 116), e giudicassero la morte una sventura appunto in quanto privazion della vita, e che il morto fosse avido della vita e dell'azione, e prendesse assai più parte, almeno col desiderio e coll'interesse, alle cose di questo mondo che di quello nel quale stimavano pure ch'egli abitasse e dovesse eternamente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per sempre un membro, si può vedere ancora in quell'antichissimo costume di onorar l'esequie {e gli anniversari ec.} di  2944 un morto coi giuochi funebri. I quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più energiche, più solenni, più giovanili, più vigorose, più vitali che si potessero fare. Quasi volessero intrattenere il morto collo spettacolo più energico della più energica e florida {e vivida} vita, e credessero che poich'egli non poteva più prender parte attiva in essa vita, si dilettasse e disannoiasse a contemplarne gli effetti {e l'esercizio} in altrui. (11. Luglio 1823.).