23. Dic. 1820.
[453,2] Quale idea avessero gli antichi della felicità (e
quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue
imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,
454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane,
ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era
lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in
maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano
espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare
l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si
quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius
saevirent, quam in remp.
*
Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne
essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3
giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum.
V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione
di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri
p. 197. fine. Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della
nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili,
455 non
dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23.
Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso
1.}}