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12. Gen. 1821.

[490,1]  Σὺ γάρ, ὦ Θαλῆ, τὰ ἐν ποσὶν οὐ δυνάμενος ἰδεῖν, τὰ ἐπὶ τοῦ οὐρανοῦ οἴει γνώσεσϑαι * ; disse quella vecchia fantesca a Talete caduto in una fossa mentre andava contemplando le stelle. (Laerz. I. 34. in Thalete.)  491 Ὥσπερ καὶ Θαλῆν ἀστρονομοῦντα, ὦ Θεόδωρε * (dum coelum suspiceret. Ficin.), καὶ ἄνω βλέποντα, πεσόντα εἰς ϕρέαρ * (in foveam. id.) Θρᾷττά τις ἐμμελὴς καὶ χαρίεσσα ϑεραπαινὶς * (Thracia quaedam eius ancilla concinna et lepida. id.) ἀποσκῶψαι λέγεται, ὡς τὰ μὲν ἐν οὐρανῷ προϑυμοῖτο εἰδέναι * , (pervidere contenderet. id.) τὰ δ᾽ ἔμποσϑεν αὐτοῦ καὶ παρὰ πόδας, λανϑάνοι αὐτόν. Ταὐτὸν δὲ ἀρκεῖ * , (obiici potest. id. aptius, cadit, convenit) σκῶμμα ἐπὶ πάντας ὅσοι ἐν ϕιλοσοϕίᾳ διάγουσι * (in philosophia versantur. id.) Platone nel Teeteto, ἢ περὶ ἐπιστήμης alquanto prima della metà. (p. 127. f. Lugduni 1590.) {E v. il Menag. ad Laert. I. 34.} E Diogene Cinico si maravigliava ἐϑαύμαζε... τοὺς μαϑηματικοὺς * (cioè gli astronomi) ἀποβλέπειν μὲν πρὸς τὸν ἤλιον καὶ τὴν σελήνην, τὰ δ᾽ ἐν ποσὶ πράγματα παρορᾶν. * (Laerz. VI. 28. in Diogene Cynico.)
[491,1]  Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l'impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il  492 curarsi delle cose poste fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria, l'inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono veramente ἔμπροσθεν ἡμῶν καὶ παρὰ πόδας, e finalmente la sommità, l'ultimo grado del sapere, consiste in conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra' piedi, l'avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci stavano tra' piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità. Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri  493 scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline inventate, quanti[quante] istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec. per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l'ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l'ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi, quello ch'esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz'avvedercene, e senza pensare o credere di sapere. Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch'eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza,  494 separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali. Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s'è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch'ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla. (12. Gen. 1821.).