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17. Gen. 1821.

[516,2]  Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p. e. un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.  517 E simili. Questo dei mali non ancora accaduti. Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell'atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate, o negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, {utile, e} che so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d'impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa  518 non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi. Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi. Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà. La radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio. Par che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi pp. 108-109. {v. la p. seguente [p. 519,1].} L'orrore della distruzione (il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che  519 abbia parte in questo, almeno principalmente. Noi vediamo perire {tuttogiorno} senza ripugnanza, o cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto. (17. Gen. 1821.)