«29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.30. Giugno. 1824. Anniversario del mio Battesimo.»
29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.
[4105,2] L'infelicità abituale, ed anche il solo essere
abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue
a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di
sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è
che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o
doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha
altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il
tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio,
perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma.
Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile.
Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non
s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può
interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e
di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della
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natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o
tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno
in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli
destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè
dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a
mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua
immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli
altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha
perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si
estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la
furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente
alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se
medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a
vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per
ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se
stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le
azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si
riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in
un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non
d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra
di se. Ora
4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè
rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è
insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a
soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea
di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un
piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è
noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima
la più grande e fertile per natura.
[4107,1] Questo medesimo effetto che produce la infelicità,
lo produce, come ho detto, l'abito di non provare o non vedersi d'innanzi alcuna
apparenza di felicità, alcun dolce futuro, alcun piacere grande o piccolo,
alcuna fortuna della giornata o durevole, alcuna carezza e lusinga degli uomini
o delle cose. L'amor proprio non mai lusingato, si distacca inevitabilmente
dalle cose e dagli uomini (fosse pur sommamente filantropo e tenero), e l'uomo
abituandosi a non veder nella vita e nel mondo nulla per se, si abitua a non
interessarvisi, e tutto divenendogli indifferente, il più gran genio diventa
sterile e incapace anche di quello di cui sono capacissimi gli animi per natura
più poveri, infecondi, secchi ed inetti. (29. Giugno. Festa di S. Pietro.
giorno mio natalizio. 1824.). Il che sempre più privandolo d'ogni
illusione e successo dell'amor proprio, sempre più conferma in lui l'abito di
noncuranza, e {d'}inettitudine e spiacevolezza. Trista
condizione del genio, tanto più facile a cadere in questo stato (che certo
4108 non è strettamente proprio se non di lui), quanto
da principio il suo amor proprio è più vivo, e quindi più avido e bisognoso di
lusinghe e piaceri e speranze, meno facile ad apprezzare e soddisfarsi di quelle
e quelli che agli altri bastano, e più sensibile alle offese e punture che i
volgari non sentono. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. dì mio natalizio.
1824.). {{V. p.
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