Firenze. Domenica. 21. Sett. 1828.
[4382,2]
Ivi, §. 201. Ma quale si fosse il tenore della lingua e della
verseggiatura di Dante, non è da
trovarlo in codice veruno; e in ciò la Volgata
con la dottrina e la pratica dell'Accademia predomina sempre in
qualunque edizione ed emendazione. Avvedendosi "Che per difetto comune di
quell'età"
*
- e chi mai non se ne avvedrebbe quand'è più
o meno difetto delle altre? - "l'ortografia era dura,
manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante, e finalmente
senza molta ragione"
*
(Salviati, Avvertim. vol.
I. lib. 3. cap. 4.
*
Nota) - anzi
4383 vedendola migliore di poco nel
miracoloso fra' testi del
Decamerone ricopiato dal Mannelli (Discorso sul Testo del
Decam. p. ΧI. seg. pag. CVI.
*
Nota) -
parve agli Accademici di recare tutte le regole in
una, ed è: - "che la scrittura segua la pronunzia, e che da
essa non s'allontani un minimo che"
*
*
.
(Prefazione al Vocabolario, sez. VIII. Nota). Guardando ora agli avanzi della Volgata Omerica di Aristarco, parrebbe che gli
Accademici de' Tolomei fossero
di poco più savj, o meno boriosi de' nostri. La prosodia d'Omero, per l'amore di tutte le
lingue primitive alla melodia, gode di protrarre le modulazioni delle
vocali. L'orecchio Ateniese, come avviene ne' progressi d'ogni poesia,
faceva più conto dell'armonia, e la congegnava nelle articolazioni delle
consonanti; e tanto era il fastidio delle troppe modulazioni, chiamate
iati dagli intendenti, che ne vennero intarsiate fra parole e parole le
particelle che hanno suoni senza pensiero. Quindi gli Alessandrini alle
strette fra Omero e gli Attici,
e non s'attentando di svilupparsene, emendarono l'Iliade così che ne nasceva
lingua e verseggiatura la quale non è di poesia nè primitiva, nè
raffinata. I Greci ad ogni modo s'ajutavano tanto quanto come i Francesi
e gl'Inglesi; ed elidendo uno o più segni alfabetici nel pronunziare,
non li sottraevano dalla scrittura; così le apparenze rimanevano quasi
le stesse. Ma che non pronunziassero come scrivevano, n'è prova
evidentissima che ogni metro ne' poeti più tardi, e peggio negli
Ateniesi, ridonderebbe; nè sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse
le vocali quanto il
4384 metro desidera ne'
libri Omerici: e l'esametro dell'Iliade s'accorcerebbe di
più d'uno de' suoi tempi musicali, se avesse da leggersi al modo de'
Bisantini, snaturando vocali, o costringendole a far da dittonghi. Però
i Greci d'oggi a' quali la pronunzia letteraria venne da
Costantinopoli, e serbasi nel canto della
loro Chiesa, porgono le consonanti armoniosissime; ma non versi, poichè
secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti aspri, e soavi -
come che non ne aspirino mai veruno - ed apostrofi ed espedienti
parecchi moltiplicatisi da que' semidigammi ideati in
Alessandria, talor utili in quanto provvedono
alla etimologia e alle altre faccende della grammatica. Non però è da
tenerne conto in poesia, dove la guida vera alla prosodia deriva dal
metro; e il metro dipendeva egli fuorchè dalla pronunzia nell'età de'
poeti? Ad ogni modo i grammatici Greci sottosopra lasciarono stare i
vocaboli come ve gli avevano trovati, sì che ogni lettore li proferisse
o peggio o meglio a sua posta. Ma i Fiorentini non ricordevoli di
passati o di posteri, uscirono fuor delle strette medesime con la regola
universale - Che la scrittura non s'allontani dalla
pronunzia un minimo che; e non trapelando lume, nè cenno di
pronunzia certa dalle scritture, pigliarono quella che udivano. Però
mozzando vocali, e raddoppiando consonanti, e ajutandosi d'accenti e
d'apostrofi, stabilirono un'ortografia, la quale facesse suonare
all'orecchio non Io, nè
lo Imperio, o lo Inferno; ma I', lo 'Mpero, lo 'Nferno: e con mille altre delle
sconciature
4385 del dialetto Fiorentino de'
loro giorni, acconciarono versi scritti tre secoli
addietro.
*
[4385,1]
§. 202. Queste loro squisitezze erano favorite dalla dottrina, che la lingua
letteraria d'Italia fioriva tutta quanta nella
loro città. Lasciamo che ove fosse vera s'oppone di tanto alle dottrine
di Dante, che non sarebbe mai da
applicarla ad alcuna delle opere sue. Ma avrebb'essa potuto applicarsi
se non da critici ch'avessero udito recitare i versi di Dante a' suoi giorni. L'occhio
umano, paziente, fedelissimo organo, è agente più libero e più
intelligente degli altri, perchè vive più aderente alla memoria; ma non
per tanto non può fare che passino cent'anni e che le penne tutte quante
non si divezzino dalle forme correnti dell'alfabeto. Così ogni età n'usa
di distinte e sue proprie; onde per chiunque ne faccia pratica bastano
ad accertarlo del secolo d'ogni scrittura. Ma sono divarj permanenti
nelle carte; arrivano a' posteri; e si lasciano raffrontare dall'occhio.
Non così l'orecchio; capricciosissimo, perchè raccoglie involontario,
istantaneo e di necessità tutti i suoni; e gli organi della voce gli
sono connessi, cooperanti passivi, e meccanici imitatori; e però niun
uomo cresce muto se non perchè nasce sordissimo. Di quanto dunque più
preste e più varie e più impercettibili che la scrittura non saranno le
alterazioni della pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non
pure le forme delineate, come ne' vocaboli scritti, ma nè una lontana
reminiscenza. Or chi mai fra' posteri potrà rintracciarle se non con
l'orecchio? e dove le troverà egli?
4386
Ridomandandole all'aria, che se le porta? o al tempo che torna a
ingombrare l'orecchio di nuovi suoni? Allagheri, com'ei scrivevalo, e poscia Aligieri, Alleghieri, Allighieri, era lungo o breve nella penultima?
or è Alighieri; ma in
Verona s'è fatto sdrucciolo, Aligeri. Certo se gli arcavoli risuscitassero
in qualunque città penerebbero ad intendere i loro
nepoti.
*
[4386,1]
§. 203. ed ult. Ma perciò che i Fiorentini di padre in figlio continuarono
a ingoiare vocali o rincalzarle raddoppiando consonanti, l'Accademia
ideò che quel vezzo fosse nato a un parto co' loro vocaboli. (Avvertim.
della Lingua, vol. 2. p. 129 - 160. ed.
Mil. de' Classici.
*
Nota.)
Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune ed
inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l'andare degli
anni per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè
sono molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e
spedite. De' Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono gli
Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di
consonanti: ma chi ne' loro poeti antichi leggesse all'uso moderno, non
troverebbe versi nè rime. Nè credo che altri possa additare poesia di
gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati
di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si
diminuissero digradando. Anche nella prosodia latina, che era meno
primitiva e tolta di pianta da' Greci, e in idioma più forte di
consonanti finali, regge l'osservazione; ed anche nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute
de' ventiquattro tempi dell'esametro
4387 su le
vocali per via d'iato sono moltissime; e spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più di sette, che io me ne
ricordi, in Virgilio; e una sola
in Orazio, nè forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna
è da trovarne in Lucano e gli
altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo
strepitosissimo Claudiano? Ben
diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a
vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de'
versi, avveniva più presto in Italia che altrove;
perchè il Petrarca aveva
temprato l'orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche
più che la Siciliana che a Dante
veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que' suoi fondatori fu
scritta, nè mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle
successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare
obbedientissimi all'occhio. Il danno della parola dissonante dalla
scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo
*
(cioè
la francese l'inglese ec.), è minore della sciagura che
toccò alla Italiana, destinata anzi all'arte degli scrittori, che alla
mente della nazione
*
(vuol dire, scritta e non parlata, nè
scritta pel popolo). A questo i tempi, quando mai la
facciano parlata da un popolo, provvederanno. Per ora il potersi
scrivere così che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del
senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le
altre sino da' giorni di Dante.
Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie
primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non
parlate,
4388 si rimane letteraria, permanente
nelle apparenze, e svincolata de' suoni accidentali e mutabili d'età in
età nelle lingue popolari
*
(francese inglese ec.), e ne' dialetti municipali. Forse così la lezione della
divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta e
Italiana.
*
Fine del Discorso.
(Firenze. Domenica. 21. Sett.
1828.). {{V. p. 4487.}}