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4. Maggio 1820.

[1012,2]  Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'  1013 una volgare, e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l. c. p. 256. nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, * un sermo barbarus, pedestris, militaris, * (Spettatore di Milano, quaderno 97. p. 242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l. c.) {Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito.} Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua, come ho detto altrove pp. 321-22, è la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec. (4. Maggio 1821). {{V. p. 1020. capoverso 1.}}