[137,1] Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo
affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non
poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m'avea sempre confortato a
sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e
gran fama, ch'io diverrei grande, e glorioso all'italia,
nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure,
(Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte
l'accettassi come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore
che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente
dalla vita, mi riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io
pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio
amico, che ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di quella
grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi,
e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le belle viste e
le occupazioni dell'adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch'io non
sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava? non già come
morte, ma come annullatrice di tutta la bella aspettativa passata. E pure quella
lettera non mi avea detto nulla ch'io non
138 mi dicessi
già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla mia opinione. Io trovo le
seguenti ragioni di queto[questo] effetto. 1.
che le cose che da lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella
lettera e quell'augurio mi metteva come in una specie di superstizione, come se
le cose si stringessero, e la morte veramente si avvicinasse, e quella che da
lontano m'era parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da
vicino mi pareva dolorosissima e formidabile.