[2982,1] Par che l'immaginazione al tempo di Omero fosse come quei campi fertilissimi
per natura, ma non mai lavorati, i quali, sottoposti che sono all'industria
umana, rendono ne' primi anni due e tre volte più, e producono messi molto più
rigogliose e vivide che non fanno negli anni susseguenti malgrado di
qualsivoglia studio, diligenza ed efficacia di coltura. O come quei cavalli
indomiti, lungamente ritenuti nelle stalle, che abbandonati al corso, si trovano
molto più freschi e gagliardi de' cavalli esercitati e addestrati, dopo aver
fatto un doppio spazio. Tanto che, considerando la freschezza dello stile, delle
immagini, della invenzione di Omero
nella fine della Iliade, par ch'ei non lasci di poetare
2983 e non chiuda il poema, se non perch'ei vuol così,
e per esser giunto alla meta ch'ei s'era prefisso, {+o perchè ogni opera umana dee pure aver qualche
fine,} ma che fuori di questo caso, egli avrebbe ancora e spirito e
lena per seguire, senza pur posarsi, a correre ancora non interrottamente
altrettanto e maggiore, anzi non determinabile spazio. E che l'opera sua riceva
il suo termine, ma la ricchezza e copia della sua immaginativa non sia di gran
lunga esaurita, anzi sia poco meno che intatta; e che il suo corso finisca, ma
non il suo impeto.