[307,2]
Omero che scriveva innanzi ad ogni
regola, non si sognava certo d'esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata,
definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e
impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E si può
ben dire che l'originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama,
(giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma
308 e di modello) impedisce l'originalità de'
successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali
dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di
sillabe comuni ec. o almeno avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemente, non sapendo il gran
feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a
suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta
{lunga,} e un'altra breve.
[1158,1] E siccome la prosodia greca era già formata ai tempi
d'Omero, (sia ch'egli la trovasse, o
la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia
dell'una e dell'altra lingua si osserva una notabile differenza in questo
proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che nella poesia
latina se una parola finita per vocale è seguita da un'altra che incominci per
vocale, l'ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si
perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All'opposto nella poesia greca
non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come
fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto,
surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente
elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.