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[121,2]  Le cagioni di quello che nota Montesquieu ch. 14. fine, e se ne maraviglia, sono 1. che ciascuno è tanto infelice quanto esso crede, e i poveri e ignoranti si credono assai meno infelici di quello che fanno i ricchi e istruiti, non già che quelli non si credano molto più sventurati di questi, ma misurando e ragguagliando l'opinione  122 della propria infelicità quale ambedue la concepiscono si trova molto maggiore in questi che in quelli. 2. che di un popolo mezzo barbaro è tutto proprio il timore. 3. che per disprezzar la vita e le sventure non basta essere infelici, ma si richiede magnanimità e profondità di sentimenti, e forza d'animo, cose ignote alla plebe, altrimenti prevale il desiderio naturale e cieco della propria conservazione. 4. che la prosperità dà confidenza, ma le continue sventure {primieramente} in luogo di far l'uomo generoso, l'avviliscono col sentimento della propria debolezza, e gli levano il coraggio, {massime se egli non è magnanimo per natura o per coltura;} poi la trista esperienza rende l'uomo tremebondo a causa del nessuno sperare, e dell'aspettar sempre male. 5. finalmente che chi ha pochissimo, teme più per quel poco, perchè non è avvezzo a confidare, nè a immaginar nessuna risorsa, avendone sempre mancato, quando sia un popolo vissuto sempre nella inazione come i moderni, e non avvezzo a continue imprese e vicissitudini di fortuna, come gli antichi romani ancorchè poveri.