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[139,2]  Da queste considerazioni impara come tu debba regolarti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo male, se è vero. Non la persuaderesti, e l'abbatteresti davantaggio, privandola della compassione. Ella conosce bene il suo male, e tu confessandolo converrai con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una goccia d'illusione. I più disperati credi certo che la conservano, per benefizio costante della natura. Guarda di non seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell'attenuare il suo male e mostrarti poco compassionevole, che nell'accertarlo di quello  140 in cui la sua immaginazione contraddice ancora alla sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii certo che nell'intimo del suo cuore fa tutto l'opposto, dico nell'intimo, cioè in un fondo nascosto anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col suo cuore, e come secondando il suo cuore tu darai una certa realtà a quell'ombra d'illusione che gli resta, così nel caso contrario tu gli porterai un colpo estremo e mortale. La solitudine e il deserto l'avrebbero consolato meglio di te, perchè avrebbe avuto con se la natura sempre intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle calamità gravissime {e reali} che riducono alla disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti da grandi illusioni e passioni, dove l'uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto. (26. Giugno 1820.).