[316,2] Del rimanente mi pare che Teofrasto forse solo fra gli antichi o più di
qualunque altro, amando la gloria e gli studi, sentisse {peraltro} l'infelicità inevitabile della natura umana, l'inutilità
de' travagli, e soprattutto l'impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra
la virtù relativamente alla felicità dell'uomo e anche del saggio, al contrario
degli altri filosofi tanto
317 meno profondi, quanto più
superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice
per se, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità.
Laonde Teofrasto non ebbe giustizia
dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso
sentimento che lo faceva parlare. Vexatur Theophrastus et libris et scholis omnium philosophorum, quod
in Callisthene suo laudavit illam sententiam:
Vitam regit fortuna non sapientia.
*
Cic.
Tuscul.
{3. et 5. (vedilo perchè contiene qualche altra
cosa)}
Quod maxime efficit Theophrasti de beata vita
liber, in quo multum admodum fortunae datur.
*
Id. de Finibus l. 4. Neanche ha ottenuto
dai moderni quella stima che meritava, essendo smarrite quasi tutte le sue
moltissime opere, nè restando altro che alcune fisiche, eccetto i
caratteri; e io credo di essere il primo a notare che Teofrasto essendo filosofo e maestro di
scuola (e scuola eccessivamente numerosa), anteriore oltracciò ad Epicuro, e certamente non Epicureo nè
per vita nè per massime, si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione
di quelle triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte
e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a' dì
nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale. Ma così anche si vede
che Teofrasto conoscendo le illusioni,
non però
318 le fuggiva o le proscriveva come i nostri
pazzi filosofi, ma le cercava e le amava, anzi si faceva biasimare dagli {altri} antichi filosofi, appunto perchè onorava le
illusioni molto più di loro. Itaque miror quid in mentem Theophrasto in eo libro quem De
divitiis scripsit: in quo multa pręclare, illud absurde. Est
enim multus in laudanda magnificentia et apparatione popularium munerum,
taliumque sumtuum facultatem, fructum divitiarum putat.
*
Cic.
de offic.