Inutilità del rendersi indipendenti dalla fortuna p. esser felici.
Uselessness of becoming independent of fortune in order to become happy.
536,3 1651,1 2800,1[536,3] È degna di esser veduta, consultata, e anche
537 tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia
c. 13. Nam quibusdam
*
etc. sino alla fine)
contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui
non possit animus, si tanquam parturiat unus pro
pluribus:
*
e quindi venivano a prescrivere il curam fugere,
*
e l'honestum rem actionemve, ne
sollicitus
sis, aut non suscipere, aut susceptam
deponere.
*
La qual filosofia, è presso a poco la
filosofia dell'{inazione e del} nulla, la filosofia
perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni. E quella disputazione
di Tullio si può avere per una
disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quę est enim ista securitas?
*
dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa
porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e
scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cic. chiama la
natura, optimam bene vivendi
ducem.
*
c. 5.): ma non ottiene neanche il suo
fine, ch'è la felicità dell'individuo
538 in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è
contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato
sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella
maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi?
Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che
vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, {e nella
società,} ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli
antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi,
attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non
curanza, ordine, pace, {inazione}, amore del nostro
bene, e non curanza {di quello} degli altri, o del
pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo? (21.
Gen. 1821.).
[1651,1] Qual cosa è più potente nell'uomo, la natura o la
ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo
riguarda, {nè vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri)} da
vero filosofo; nè il religioso da vero e perfetto religioso. Non v'è uomo così
certo della malizia delle donne ec. che non senta un'impressione dilettevole, e
una vana speranza all'aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza.
(Meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo
avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell'uomo di mondo, la cui anima
allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non
già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all'assuefazione la proprietà
d'illanguidire e anche distruggere le sensazioni. Massime se il filosofo non vi
sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a peccare o coll'opera o col
pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre {più o
meno} soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell'amore, ch'egli ha
conosciuto {e sperimentato} impossibile, immaginario,
vano. Non v'è uomo così profondamente persuaso della nullità delle
1652 cose, della certa e inevitabile miseria umana, il
cui cuore non si apra all'allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto
più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la
fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una
gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla
per far credere {immediatamente} al più profondo e
sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno
sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca
importanza faccia all'uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e
nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori.
Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e
sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. {+Lascio ancora le passioni, che se non altro, ne' loro accessi si ridono
del più lungo e profondo abito filosofico.} Un menomo bene
inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta
a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. V. Corinne t. 2. liv.
14. ch. 1. pag. ult. cioè 341. {+Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non
ostante che la religione, tenendo dell'illusione e quindi della natura,
abbia tanta più forza effettiva
nell'uomo.}
(8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)
[2800,1] È massima molto comune tra' filosofi, e lo fu
specialmente tra' filosofi antichi, che il sapiente non si debba curare, nè
considerar come beni {o mali,} nè riporre la sua
beatitudine nella {presenza o nell'assenza delle cose}
che dipendono dalla fortuna, quali ch'elle si sieno, {+o da veruna forza di fuori,} ma solo in quelle che
dipendono interamente e sempre dipenderanno da lui solo. Onde
2801 conchiudono che il sapiente, il quale suppongono dover essere in
questa tale disposizion d'animo, non è per veruna parte suddito della fortuna.
Ma questa medesima disposizione d'animo, supponendo ancora ch'ella sia più
radicata, più abituale, più continua, più intera, più perfetta, più reale
ch'ella non è mai stata effettivamente in alcun filosofo, questa medesima
disposizione, dico, già pienamente acquistata, ed anche, per lungo abito,
posseduta, non è ella sempre suddita della fortuna? Non si sono mai veduti de'
vecchi ritornar fanciulli {di mente,} per infermità o
per altre cagioni, l'effetto delle quali non fu in balia di coloro l'impedire o
l'evitare. La memoria, l'intelletto, tutte le facoltà dell'animo nostro non sono
in mano della fortuna, come ogni altra cosa che ci appartenga? Non è in sua mano
l'alterarle, l'indebolirle, lo stravolgerle, l'estinguerle? La nostra medesima
ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? Può nessuno assicurarsi o
vantarsi
2802 di non aver mai a perder l'uso della
ragione, o per sempre o temporaneamente; o per disorginazzazione[disorganizzazione] del cervello, o per accesso di sangue o
di umori al capo, o per gagliardia di febbre, o per ispossamento straordinario
di corpo che induca il delirio o passeggero o perpetuo? Non sono infiniti gli
accidenti esteriori imprevedibili o inevitabili che influiscono sulle facoltà
dell'animo nostro siccome su quelle del corpo? E di questi, altri che accadono
ed operano in un punto o in poco tempo, come una percossa al capo, un terrore
improvviso, una malattia acuta; altri appoco appoco e lentamente, come la
vecchiezza, l'indebolimento del corpo, e tutte le malattie lunghe e preparate o
incominciate già da gran tempo dalla natura ec. Perduta o indebolita la memoria
non è indebolita o perduta la scienza, e quindi l'uso e l'utilità di essa, e
quindi quella disposizion d'animo che n'è il frutto, e di cui ragionavamo? Ora
qual facoltà dell'animo umano è più labile,
2803 più
facile a logorarsi, anzi più sicura d'andar col tempo a indebolirsi od
estinguersi, anzi più continuamente inevitabilmente e visibilmente logorantesi
in ciascuno individuo, che la memoria? In somma se il nostro corpo è {tutto} in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte
all'azione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l'animo, il quale
è tutto e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose
esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale
lo volevano gli antichi, quale mai non esistette, quale non può essere se non
immaginario, tale ancora, sarebbe interamente suddito della fortuna, perchè in
mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione sulla quale egli
fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima. (21. Giugno
1823.).