[12,1]
12 L'arte di Ovidio di metter le cose sotto gli occhi, non si chiama efficacia, ma
pertinacia. ec.
[21,2] In Ovidio si
vede in somma che vuol dipingere, e far quello che colle parole è così
difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante nò: pare che voglia raccontare e
far quello che colle parole è facile ed è l'uso ordinario delle parole, e
dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa
circostanziola e quell'altra, e alzava la mano e la
stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno i romantici
descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi, così anche
prose ec. tanto in voga ultimamente) insomma in lui c'è la negligenza, in Ovidio no.
[152,2] Altro è la forza altro la fecondità dell'immaginazione
e l'una può stare senza l'altra. Forte era l'immaginazione di Omero e di Dante, feconda quella di Ovidio e dell'Ariosto. Cosa
che bisogna ben distinguere quando si sente lodare un poeta o chicchessia per
l'immaginazione. Quella facilmente rende l'uomo infelice per la profondità delle
sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla varietà e colla facilità di
fermarsi sopra tutti gli oggetti e di abbandonarli, {e
conseguentemente colla copia delle distrazioni.} E ne seguono
diversissimi caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente (ai nostri
tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a
soffrir grandemente della vita. L'altro scherzevole, {leggiero,} vagabondo, incostante nell'amore, bello spirito, incapace
di forti e durevoli passioni e dolori d'animo, facile a consolarsi anche nelle
più grandi sventure ec. Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti
di Dante e di Ovidio, e vedete come la differenza della loro poesia
153 corrisponda appuntino alla differenza della
vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed Ovidio sentissero e
portassero il loro esilio. Così una stessa facoltà dell'animo umano è madre di
effetti contrarii, secondo le sue qualità che quasi la distinguono in due
facoltà diverse. L'immaginazione profonda non credo che sia molto adattata al
coraggio, rappresentando al vivo il pericolo, il dolore, ec. e tanto più al vivo
della riflessione, quanto questa racconta e quella dipinge. E io credo che
l'immaginazione degli uomini valorosi (che non debbono esserne privi, perchè
l'entusiasmo è sempre compagno dell'immaginazione e deriva da lei) appartenga
più all'altro genere. (5. Luglio. 1820.).
[725,1] La forza {creatrice}
dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli
antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto,
726 e così ha realizzata e confermata la sua
infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più
propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son
fuori del nostro caso. L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di
entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazione delle
immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la
rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex
instituto, ἐπιτηδές, per forza di volontà, non d'inclinazione, per
forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal
animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così
frequente) si rivolge all'affetto,
727 al sentimento,
alla malinconia, al dolore. Un Omero, un
Ariosto non sono per li nostri
tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde
proporzionatamente anche {ai} latini, eccetto Ovidio. E anche
l'italia ne' principii della sua poesia, cioè quando
ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio
alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e
non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è
questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando
noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una
728 facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a
creare? di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo,
ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli
esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è
impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche
l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e
immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e
natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che
così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi,
e vedo negli
729 altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come
in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa
italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e
spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non
quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da
sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
[1412,2] Per queste, e non per altre ragioni, la semplicità
forma parte essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne
possono allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale
nelle cose essenziali è immutabile. Perciò le poesie o scritture greche saranno
sempre belle, non riguardo al bello in se stesso, ma riguardo alla semplicità e
naturalezza loro. ec. E quei tempi e quei paesi {e quegli
uomini} che non le hanno apprezzate, o le hanno disprezzate, si
chiamano e furono di cattivo gusto,
1413 non perchè non
conoscessero ec. le leggi eterne e necessarie del bello (come si dice), le quali
non esistono, ma perchè, a forza di assuefazioni ec. corrotte, cioè non
naturali, e quindi non proprie, non convenienti all'uomo, si erano ridotti a non
conoscere o misconoscere, e non sentir la natura, che è veramente o può dirsi
eterna. E però ripugnavano al gusto che solo può durare, ed essere universale
negli uomini, perchè solo ha il suo fondamento nella realtà delle cose quali sono; e il loro gusto, non
potendo nè piacere a tutti, nè per lungo tempo, era falso in quanto a questo,
non in quanto a se. Così dico delle pitture, statue, architetture greche. Così
della letteratura italiana, la quale intanto è universalmente preferita,
malgrado le diversità de' gusti ec. in quanto, non il bello, ma la natura è
universale, e la letteratura italiana è la più conforme alla natura. E perciò, e
non riguardo al bello indipendente, si considerano e sono modelli di buon gusto
le letterature ec. antiche, siccome più
1414 prossime,
anche materialmente alla natura, e quindi più semplici. ec. {+Quell'inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i
sentimenti, {le passioni ec.} e far grandissimo
effetto quasi non volendo, è
bellezza eterna, perch'è naturale, ed è il solo vero modo d'imitar la
natura, giacchè si può male imitar la natura, anche imitandola
vivissimamente, e l'imitazione la più esatta può essere anzi è per lo più la
meno naturale, e quindi meno imitazione. V. il mio Discorso sui romantici dove si parla di
Ovidio. ec.}
[2041,1] La rapidità e la concisione dello stile, piace
perchè presenta all'anima una folla d'idee simultanee, o così rapidamente
succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l'anima in una tale
abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella o non è
capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare
in ozio, e priva di sensazioni.
2042 La forza dello
stile poetico, che in gran parte è tutt'uno colla rapidità, non è piacevole per
altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L'eccitamento d'idee
simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e
dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di
altre parole o frasi ec. Perchè è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia
un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo
cacciatore d'immagini? Perchè queste immagini risultano in lui da una copia di
parole e di versi, che non destano l'immagine senza lungo circuito, e così poco
o nulla v'ha di simultaneo, giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli
oggetti appoco appoco per le loro parti. Perchè lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per
questa parte il più bello e dilettevole possibile? Perchè ogni
2043 parola presso lui è un'immagine ec. ec. V. il mio discorso sui romantici. Qua
si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia
descrittiva, (assurda in stessa) e quell'antico precetto che il poeta (o lo
scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile
di Orazio (rapidissimo, e pieno
d'immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di
significato ec.), {V. p. 2049.} e quanto al pensiero, quella dello
stile di Tacito. ec.
(3. Nov. 1821.). {{V. p. 2239.}}
[2523,1]
Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non
solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di
pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le
proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di
S.
Pietro.).
[2599,1] L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è
noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche
l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho
detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di
tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa,
benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo
che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e
sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone
di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide
2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non
possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri
le
Metamorfosi, che {pur} paiono
scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è
sazietà, della cetra, del sonno
*
ec. La continuità
de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai
piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E
siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri
(qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e
distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità
degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la
continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie
volte}
pp.
172-77
pp. 2433-34 come la
Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in
quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i
mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale
essenza
2601 di beni nell'ordine generale della natura:
massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di
noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono
il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente
come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e
altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o
civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili
ai viventi, anche nello stato
primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e
l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo
modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla
predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e
perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma
perchè senza essi mali, i beni
2602 non sarebbero
neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del
piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto
1822.).
[3062,3]
Altri due italianismi veggansi in Fedro II. 5. v. 25., e 6. v. 4. -
Desbillons loc. cit. p. LXIV
e LXV.
E notinsi i luoghi di Varrone il quale parla del latino illustre.
{+Altro eziandio III. 6. v. 5. - Desbill. p. LXXI.} Ma Fedro seguiva o s'appressava in molte cose al latino
volgare. Quindi è ch'ha delle frasi tutte sue, cioè che non si trovano negli
altri autori latini, e che sono sembrate non latino. Vedi il Desbillons p. XXII-VI. e gli altri che trattano della sua
latinità. Niuno de' quali, io credo, ha osservato la vera cagione della
differenza di questa latinità dalla più nota. Tutti gli scrittori latini {(anche antichi e veri classici)} che hanno del familiare
nello stile, come, oltre i Comici, Celso (che s'accosta molto a Fedro quanto può un prosatore a un poeta, e che fu pur creduto non
appartenere al secolo d'oro) e
3063 lo stesso Cesare, inclinando per conseg. più degli
altri al {linguaggio} volgare, (benchè moderatamente e
con grazia, come molti degl'italiani, p. e. il Caro), si accostano eziandio più degli altri
all'andamento, sapore ec. {e alle frasi, voci o
significazioni ec.} dell'italiano. Così pure fa Ovidio fino a un certo segno, ma per altra ragione,
cioè per la negligenza e fretta che non gli permetteva di ripulire bastantemente
il suo linguaggio, di dargli dovunque il debito splendore, nobiltà ec.; di
tenersi sempre lontano dalla favella usuale: insomma perchè non sapeva o non
curava di scrivere perfettamente bene, e si lasciava trasportare dalla sua vena
e copia, con poco uso della lima, siccome per lo stile, così per la lingua.
(29. Luglio. 1823.)
[3479,1] Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che
quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo
sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s'e' non se ne
curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma
descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui
poco importanti che gli {scorrano} naturalmente dalla
peña[penna]; e, per dir così, descrivere e
introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di
compiacenza e di studio apposito, {+e di
pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi.} Così
fanno Omero e Virgilio e
3480
Dante, i quali pienissimi di vivissime
immagini e descrizioni, non mostrano pur d'accorgersene, ma fanno vista di avere
un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell'azioni
e l'evento o successo di esse. Al
contrario fa Ovidio, il quale non
dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, {confessa} quello che è; cioè a dir ch'ei non ha maggiore intento nè
più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare
immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20.
Sett. 1823.).
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Poesia descrittiva. (1827) (3)
Piacere (Teoria del). (1827) (2)
28. Immagine poetica. (varia_filosofia) (1)
Antichi. (1827) (1)
alla vivacità, alla vita. (1827) (1)
, e il suo libro (1827) (1)
. . (1827) (1)
Manuale di filosofia pratica. (pnr) (1)
Consolazione. (1827) (1)
Inconvenienti accidentali nella natura. (1827) (1)
Indifferenza. (1827) (1)
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17. Dell'arte idolopeica di . (varia_filosofia) (1)