[2552,1]
2552 Che poi l'uomo debba esser certo di non passar
giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata
in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e dolori accidentali che
intervengono inevitabilmente a tutti
gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che
l'uomo dev'esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocchè
l'assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come
a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura, per
essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere
il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un
patire (come ho dimostrato nella teoria del
piacere): perocchè l'uomo e
2553 il vivente
non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua
felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l'infelicità non
v'è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo di
tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell'animale. Non
ottenendolo, l'animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti, nei
quali desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre, non l'ottiene e n'è privo, come lo è sempre. E
però l'uomo dev'esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma
istante, senza patire. E tutta la vita è veramente, per {propria} natura immutabile, un tessuto di patimenti necessarii, e
ciascuno istante che la compone è un patimento.
Piacere (Teoria del).