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Editorial Annotations:

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Piacere (Teoria del).

leasure (its Theory).

Vedi polizzine a parte, intitolate Piacere, Teoria del piacere. See separate slips, entitled Pleasure, Theory of pleasure. 165,1 185,1 188,4 191,3 198,1 206,4 212,3 221,1 239,1 246,2 383-5 388,1 472,2 514,1 532,12 610,1 646,2 826,1 986,1 1017,1 1025,12 1028,1 1044,2 1382,1.2 1429,1 1430,1 1464,1 1472,2 1507,2 1534,1 1537,1 1554,2 1573,1 1580 1584,1.2 1628,1 1684,1 1716,2 1744,1 1777,2 1779,1 1789,1 1798,3.4 1825,2 1826,2 1827,2 1866,1 1915,1 1927,2 1930,1 1944 1953,1 1962,1 1967,1 1982,2 1987,1 1999,1 2017,3 2041,1 2053,1 2118,1 2153,2 2251,1 2257,2 2263,1 2336,1 2337,1 2350,1 2361,1 2410,1 2433,1 2468,1 2493,2 2495,1 2496,1 2499,1 2526,1 2549,1 2592,2 2599,1 2629,1.2.3 2645,2 2661,1 2673,3 2685,2 2736,1 2759,1 2861,1 2883,1 3191,12 3497,1 3509,1 3525,2 3553,12 3617,4 3622,1 3745,2 3764,2 3813,1 3822-3 3835,1 3842,2 3846,2 3854,2 3876,1 3879,1 3895,1 3909,12 3921,1 3952,1 4021,7 4043,2 4060,1 4103,6 4126,3 4127,9 4133,2 4185,2 4191,5 4228,1 4286,6 2293,2.4

Nel tempo del piacere, la noia è più viva che mai. Definizione del piacere, quale egli si trova realmente.

In time of pleasure, boredom is stronger than ever. Definition of pleasure, as it really is.

3876,1 4074,1

Dovunque non si cerca che piacere, ei non si trova mai: perciò i giovani non lo trovano ec.: necessario il cercare qualche altro fine.

Wherever pleasure alone is sought, it is never found, which is why the young never find it, etc.; it is necessary to seek some other objective.

4266,1

[165,1]   165 Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e {così} tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non {può essere} infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll'esistenza, e quindi l'uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch'è sostanziale in noi, non come desiderio di uno {o più} piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l'infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l'anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch'ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, {e come un tal piacere,} ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo,  166 trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell'anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che quella material cagione che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti sempre (p. e. tu hai desiderato la ricchezza, l'hai ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente, ma non più come cagione neppure di un tal piacere, perchè questa è un'altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni appoco a poco svaniscano, e che l'assuefazione, come toglie il dolore, così spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere provato una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l'animo sarebbe pago, perchè il suo desiderio è anche infinito per estensione, così che quel tal piacere quando uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo uguagliarne l'estensione, il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri sempre nuovi, come accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l'anima. Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l'estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma  167 inferiorità al desiderio {e oltracciò alla speranza.} E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l'anima nell'ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè un[una] infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.

[185,1]  Qualunque cosa ci richiama l'idea dell'infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro. Così un filare o un viale d'alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si può considerare come una grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più spazioso, più se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l'idea di una grandezza infinita che ci deve presentare deriva da quella {grandezza} che cade sotto i sensi, e non è opera {totalmente} dell'immaginazione, la quale come ho detto, p. 171 si compiace alcune volte del circoscritto, e di non vedere più che tanto per potere immaginare ec. (25. Luglio 1820.).

[188,4]  Perchè una cosa non piacevole per se stessa, tuttavia  189 piaccia quando riesce inaspettata, in somma da che derivi il piacere della sorpresa considerata puramente come sorpresa, si spiega colla teoria della noia esposta di sopra in questi pensieri. Perchè l'uomo prova piacere ogni volta ch'è mosso potentemente, purchè non dal timore o dal male. Perchè poi il piacere inaspettato riesca ordinariamente maggiore dell'aspettato, si spiega parte colla detta ragione, parte con quella che ho notata, p. 73. E v. se vuoi Montesquieu Essai sur le gout. Des plaisirs de la Surprise. Amsterdam 1781. p. 386. Du je ne sais quoi. p. 394. progression de la surprise p. 398.

[191,3]  Con quello che dice Montesquieu, Essai sur le Gout. Des diverses causes qui peuvent produire un sentiment. De la sensibilité. De la délicatesse p. 389-393. spiegate la cagione per cui c'interessino tanto le Storie romana e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec. composte  192 sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell'interesse non ci possa esser suscitato da nessun'altra storia, o poema sopra altri fatti ancorchè benissimo cantati, come dall'Ossian, o tragedia d'altri argomenti, quando anche appartengano alla nostra storia patria più immediata, come agli avvenimenti de' bassi tempi ec. e molto meno dalle poesie orientali, e da cento altre belle cose volute e messe in voga dai nostri romantici, che di vera psicologia non s'intendono un fico. Tutto proviene dalla moltiplicità delle cause che producono in noi un sentimento, e sono, rispetto alle dette cose, ricordanze della fanciullezza, abitudine presa, fama universale di quelle nazioni e di quei poeti, affezionamento ancorchè involontario, continuo uso di sentirne parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per quelli che ne hanno parlato, tutte ragioni la mancanza delle quali rende difficilissimo, e forse impossibile il fare ugualmente interessante un soggetto nuovo, massime in poesia, dove tutto il diletto proviene dall'interesse, e non può stare colla sola curiosità, o desiderio d'istruirsi ec. come nelle storie e simili. E v. il mio discorso sui romantici. Souvent notre ame se compose elle-même des raisons de plaisir, et elle y réussit surtout par les liaisons qu'elle met aux choses. * Questo e tutto l'altro che dice Montesquieu è notabilissimo, e applicabile a diversissimi casi e condizioni nelle quali ci riesce piacevole quello che ad altri non riesce, e a noi  193 stessi non riusciva in altre circostanze. P. e. fu un tempo non breve in cui la poesia classica non mi dava nessun piacere, e io non ci trovava nessuna bellezza. Fu un tempo in cui io non trovava altro studio piacevole che la pura {e secca} filologia, che ad altri par noiosissima. Fu un tempo in cui le scienze mi parevano studi intollerabili. E quanti nelle loro professioni trovano piaceri, che agli altri parranno maravigliosi, non potendo comprendere che diletto si trovi in quelle occupazioni! E nominatamente in quello che appartiene alle lettere e belle arti, chi non sa e non vede tuttogiorno che il letterato e l'artista trova piaceri incredibili {e sempre nuovi} nella lettura o nella contemplazione di questa o di quell'opera, che letta o contemplata dai volgari, non sanno comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto lo troveranno in cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate ancora la diversità de' gusti ne' diversi tempi, classi, nazioni, climi ec. (29. Luglio 1820.).

[198,1]  Montesquieu (Essai sur le Gout. Du je ne sais quoi) fa consistere la grazia {e il non so che,} principalmente nella sorpresa, nel dar più di quello che si prometta ec. In questa materia della grazia così astrusa nella teoria delle arti, come quella della grazia divina nella teologia, noterò 1. L'effetto della grazia non è di sublimar l'anima, o di riempierla, o di renderla attonita come fa la bellezza, ma di scuoterla, come il solletico scuote il corpo, e non già fortemente come la scintilla elettrica. Bensì appoco appoco può produrre nell'anima una commozione e un incendio vastissimo, ma non tutto a un colpo. Questo è piuttosto effetto della bellezza che si mostra tutta a un tratto, e non ha successione di parti. E forse anche per questo motivo accade quello che dice Montesquieu, che le grandi passioni di rado sono destate dalle grandi bellezze, ma ordinariamente dalla grazia, perchè l'effetto della bellezza si compie tutto in un attimo, e all'anima dopo che s'è appagata di quella vista non rimane altro da desiderare nè da sperare, se però la bellezza non è accompagnata da spirito, virtù ec. Al contrario la grazia ha successione di parti, anzi non si dà grazia senza successione. Quindi veduta una parte, resta desiderio e speranza delle altre. 2. Perciò la grazia ordinariamente consiste nel movimento: e diremo così, la bellezza è nell'istante, e la grazia nel tempo. Per movimento intendo anche tutto quello che spetta alla parola. 3. Veramente non è grazia  199 tutto quello ch'è sorpresa. Già si sa quante sorprese non abbiano che far colla grazia, ma anche in punto di donne, e di bello, la sorpresa non è sempre grazia. Ponete una bellissima donna mascherata, o col viso coperto, e supponete di non conoscerla, e ch'ella improvvisamente vi scopra il viso, e che quella bellezza vi giunga affatto inaspettata. Quest'è una bella e piacevole sorpresa, ma non è grazia. E per tener dietro precisamente a quello che dice Montesquieu, che la grazia deriva principalmente da questo {che} nous sommes touchés de ce qu'une personne nous plaît plus qu'elle ne nous a paru d'abord devoir nous plaire; et nous sommes agréablement surpris de ce qu'elle a su vaincre des défauts que nos yeux nous montrent et que le coeur ne croit plus, * supponete di vedere una donna o un giovane di persona disavvenente, e all'improvviso mirandolo in volto, trovarlo bellissimo; questa pure è sorpresa, ma non grazia. 4. Pare che la grazia consista in certo modo nella naturalezza, e non possa star senza questa. Tuttavia primieramente, siccome la natura, secondo che osserva anche Montesquieu, è ora più difficile a seguire, e più rara assai che l'arte, così notate che quelle grazie che consistono in pura naturalezza, non si danno ordinariamente senza sorpresa. Se tu senti {o vedi} un fanciullo che parla o vero opera, le sue parole e le sue azioni e movimenti, ti riescono sempre come straordinari, hanno un non so che di nuovo e d'inaspettato {che ti punge, e fa una certa maraviglia, e tocca la curiosità.} Così in qualunque altro soggetto di naïveté. In secondo luogo ci sono anche delle cose non naturali, che pur sono graziose; o vero naturali, ma graziose non per questo che sono naturali. P. e.  200 alcuni difettuzzi in un viso, piacciono assai, e paiono grazie a molti. Chi s'innamora di un naso rincagnato (come quel Sultano di Marmontel), chi di un occhio un po' falso ec. Un parlar bleso ec. a molti par grazia. E si vedono tuttogiorno, amori nati {appunto} da stranezze o difetti della persona amata. Così nello spirito e nel morale. Il primo amore dell'Alfieri fu per una giovane di una certa protervia che mi faceva, * dic'egli, moltissima forza * . E di questo genere si potrebbero annoverare infinite cose che paiono graziosissime e destano fiamma in questo o in quello, e ad altri parranno tutto il contrario. Così un viso di quel genere che chiamano piccante, vale a dire imperfetto, e irregolare, fa ordinariamente più fortuna di un viso regolare e perfetto. Par cosa riconosciuta che la grazia appartenga piuttosto al piccolo che al grande, e che se al grande conviene la maestà, la bellezza, la forza ec. la grazia e la vivacità non gli possa convenire. Questo in qualsivoglia cosa, e astrattamente parlando, uomini, statue, manifatture, poesie ec. ec. ec. Un piccolin si mette Di buona grazia in tutto * dice il Frugoni. Ed è cosa ordinaria di chiamar graziosa una persona piccola, e spesso in maniera come se piccolezza fosse sinonimo di grazia. 5. Da queste cose deducete che in somma la definizione della grazia non si può dare, e Montesquieu non l'ha data, benchè paia crederlo, e bisogna sempre ricorrere al non so che. Perchè I. se la sorpresa è spesso compagna della grazia, è certo che questa è ben diversa dalla sorpresa, cioè perchè una cosa sia graziosa, non basta che sorprenda, bisogna che sia di quel tal genere,  201 e questo genere che cos'è? II. non la sola naturalezza, come abbiamo veduto; non il perfetto, anzi spesso il difettoso, l'irregolare, e lo straordinario; non tutto l'imperfetto, l'irregolare, e lo straordinario, com'è manifesto: che cosa dunque? III. Concedo che spesso il sentimento della grazia contenga sorpresa, ma non è grazioso per questo che sorprende, altrimenti tutto il sorprendente sarebbe grazioso, ma perch'è un certo non so che. IV. Quel modo in cui Montesquieu spiega questo non so che nelle parole riportate di sopra non sussiste se non in alcuni casi. Un viso piccante ed irregolare nous plaît veramente d'abord e senz'altro, e qui non c'entra l'aver saputo vincere il difetto ec. Si vede ch'esso stesso contiene propriamente in se una qualità piacevole distinta da tutto il resto. È vero che un viso irregolare piace con una certa sorpresa, ma quel che piace non è {solamente nè principalmente} la sorpresa, altrimenti un viso mostruoso piacerebbe di più. Applicate queste considerazioni agli altri esempi riportati di sopra, in tutti i quali non ha che far niente il dare più di quello che si prometta, o non è la cagion principale ed intima di quel tal piacere, ma piuttosto estrinseca e accidentale. V. Il grazioso è relativo come il bello, cioè ad uno sì, a un altro no ec. L'esperienza lo mostra, che come non c'è tipo della bellezza, così neanche della grazia. E quantunque paia che l'idea della naturalezza debba essere universale, tuttavia non è, e presso noi passano per naturali infinite cose che sono tutt'altro, e ai villani parranno naturali e graziose cento maniere che a noi parranno grossolane ec. Così secondo le diverse nazioni costumi abitudini opinioni ec. Non che la natura non abbia le sue maniere  202 proprie, certe e determinate, ma succede qui come nel bello. Un cavallo scodato, un cane colle orecchie tagliate, è contro natura, una donna coi pendenti infilzati nelle orecchie, un uomo colla barba tagliata ec. eppur piacciono. Molto più discordano i gusti intorno alla grazia indipendente dalla naturalezza. VI. Quantunque questo non so che, non si possa definire, se ne possono notare alcune qualità 1.mo Spessissimo la semplicità è fonte, o proprietà della grazia. 2.do. Quantunque la grazia ordinarissimamente consista nell'azione, tuttavia può stare qualche volta anche senza questa, come appunto molte grazie derivanti dalla semplicità, p. e. nelle opere di belle arti, nell'abito di una pastorella, citato anche da Montesquieu come grazioso, insieme colle pitture di Raffaello e Correggio. Anche un viso piccante ma non bello, si può dire che contenga questo non so che, {e punga,} senza bisogno di azione, come p. e. veduto in un ritratto, quantunque d'ordinario prenda risalto dal movimento. 3.zo. La naturalezza non è la sola fonte della grazia, e pure non c'è grazia, dove c'è affettazione. Il fatto è che quantunque una cosa non sia graziosa per questo ch'è naturale, tuttavia non può esser graziosa se non è, o non par naturale, e il minimo segno di stento, o di volontà, ec. ec. basta per ispegnere ogni grazia. Dico, se non pare, perchè le grazie della poesia, del discorso, delle arti ec. per lo più paiono naturali e non sono. 4.to La piccolezza abbiamo veduto come abbia che far colla grazia. 5.to Lo svelto, il leggero, parimente ha che far colla grazia. E notate che i movimenti molli e leggeri di una persona di taglio svelto, sono graziosi senza sorpresa, giacchè non è strano che i moti di una {tal} persona sieno facili e leggeri. Bensì muovono una certa maraviglia o ammirazione  203 diversa dalla sorpresa, la quale nasce dall'inaspettato, o dall'aspettazione del contrario. Così la maraviglia prodotta dalle belle arti, con tutto che appartenga al bello, non ha che far colla grazia. 6.to L'effetto della grazia ordinariamente è quello che ho detto, di scuotere e solleticare e pungere, puntura che spesso arriva dirittamente al cuore, come se tu vedi due occhi furbi di una donna rivolti sopra di te, nel qual caso la scossa si può paragonare anche all'elettrica. Ma in quella grazia che spetta p. e. alla semplicità pare che se l'effetto è di solleticare, non sia di pungere, e forse si può fare su questa considerazione una distinzione di due grazie, l'una piccante, l'altra molle, insinuante, glissante dolcemente nell'anima. E forse la prima si chiama più propriamente il non so che. 7.mo La vivacità ha che far colla prima specie di grazia. Ma con tutto ciò la vivacità non è grazia. 8.vo Nei cibi parimente si dà una certa grazia, ora della prima, ora anche della seconda specie. Quelli che chiamano ragoûts appartengono alla prima. E qui pure discordano i gusti infinitamente.

[206,4]  La grazia propriamente non ha luogo se non nei piaceri che appartengono al bello. Una novità, un racconto curioso, una nuova piccante, tutto quello che punge o muove o solletica la curiosità, sono irritamenti piacevoli ma non hanno che far colla grazia. E quelli che appartengono ai cibi, o a qualunque altro piacere parimente, somigliano alla grazia, e possono esserne esempi, ma non confondersi con lei. Perciò la grazia va definita semplicemente, un irritamento nelle cose che appartengono al bello, tanto sensibile, quanto intellettuale, come il bello poetico ec.

[212,3]  L'irritamento della grazia è piacevole come un irritamento corporale nel gusto nel tatto, ec. E come una maggiore irritabilità e dilicatezza del palato, fibre  213 ec. rende più suscettibili e di più fino discernimento rispetto a questi irritamenti corporali, così nella grazia riguardo allo spirito. V. se vuoi Montesquieu libro più volte cit. De la délicatesse. Che se l'effetto rispettivo della grazia de' due sessi è molto maggiore di un irritamento, la cagione non è la sola grazia, come non la sola bellezza negli stessi casi. Ma la grazia irrita allora una parte sensibilissima dell'uomo, che è l'inclinazione scambievole all'uno de' due sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti che la grazia per se, ed in qualunque altro caso non produrrebbe, {quando anche fosse in molto maggior grado.} Così nella pittura farà molto più effetto la grazia di una donna ec. che di un uomo, la grazia anche di un uomo, che quella di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo ai nostri simili viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello che da questo oggetto. Lo stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo dipinto o scolpito, o di un edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce molto la considerazione in cui noi prendiamo quell'oggetto, cioè di opera umana, e perciò forse più efficace in noi. Del resto tutto il medesimo accade in materia del bello. (17. Agosto 1820.).

[221,1]  La vispezza e tutti i movimenti, e la struttura di quasi tutti gli uccelli, sono cose graziose. (21. Agosto 1820.). {{E però gli uccelli ordinariamente sono amabili.}}

[239,1]  Non per altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere avidamente il popolo agli spettacoli sanguinosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri, che non hanno niente di piacevole in se (come potevano averne quelli de' gladiatori e delle bestie nel circo, per la gara, l'apparato ec.) ma solamente in quanto fanno un vivo contrasto colla monotonia della vita. Così tutte le altre cose straordinarie, e perciò gradite, benchè non solo non piacevoli, ma dispiacevolissime in se.

[246,2]  Dalla teoria del piacere esposta in questi pensieri pp.165-83 si comprende facilmente quanto e perchè la matematica sia contraria al piacere, e siccome la matematica, così tutte le cose che le rassomigliano o appartengono, esattezza, secchezza, precisione, definizione, circoscrizione, sia che appartengano al carattere e allo spirito dell'individuo, sia a qualunque cosa corporale o spirituale. Perchè

[388,1]  Alla p. 384. Così il desiderio che ha l'uomo di amare, è infinito non per altro se non perchè l'uomo si ama di un amore senza limiti. E conseguentemente desidera di trovare  389 oggetti che gli piacciano, di trovare il buono (intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che affetta gradevolmente qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque di amare, ossia di determinarsi piacevolmente verso gli oggetti. E lo desidera senza confini, tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto rispetto alla misura della loro bontà, amabilità, piacevolezza. Questo è desiderio innato, inerente, indivisibile dalla natura non solo dell'uomo, ma di ogni altro vivente, perchè è necessaria conseguenza dell'amor proprio, il quale è necessaria conseguenza della vita. Ma non prova che la facoltà di amare sia infinita nell'uomo: e così il desiderio infinito di conoscere non prova che la sua facoltà di conoscere sia infinita: prova solamente che il suo amor proprio è illimitato o infinito. E infatti come si potrà dire che la facoltà nostra di conoscere o di amare sia infinita? - Ma noi possiamo conoscere un Bene infinito ed amarlo - Bisognerebbe che lo potessimo conoscere infinitamente ed amare infinitamente. Allora la conseguenza sarebbe in regola. Ma non lo possiamo nè conoscere nè amare, se non imperfettissimamente. Dunque la nostra cognizione e il nostro amore, benchè cadano sopra un Essere infinito, non sono infinite, nè possono mai  390 essere. {Dunque le nostre facoltà di conoscere e di amare {sono essenzialmente} ed effettivamente limitate come la facoltà di agire fisicamente, perchè non sono capaci nè di cognizione nè di amore infinito, nè in numero nè in misura, come non siamo capaci di azione infinita fisica.} (E se noi avessimo delle facoltà precisamente infinite, la nostra essenza si confonderebbe con quella di Dio). Dunque il nostro desiderio infinito di conoscere (cioè concepire), e di amare, non può esser mai soddisfatto dalla realtà, ossia da questo, che la nostra facoltà di conoscere e di amare possieda realmente un oggetto infinito in quanto è infinito, e in quanto si possa mai possedere (altrimenti la possessione non sarebbe infinita): ma solamente può esser soddisfatto dalle illusioni (o false concezioni, o false persuasioni di conoscenza e di amore, e di possesso e godimento) e dalle distrazioni {ovvero occupazioni (v. p. 168. 172. - 173. 175. ivi, fine - 176. principio}: due grandi istrumenti adoperati dalla natura per la nostra felicità. (8. Dicembre. 1820.).

[472,2]  Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l'immaginativa è capace dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità, e confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di {quella} sua  473 immaginazione, o concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole. (4. Gen. 1821.).

[514,1]  Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. {un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno,} ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, {ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione)} di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere {di quella sensazione} si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo  515 qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo,  516 quei luoghi, {spettacoli, incontri,} ec. nel ripensare ai[a] quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.

[532,2]  Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell'ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L'atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette  533 in migliori circostanze pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all'opinione e persuasone nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone. ec. Io provo un piacere: come? ciascuno individuale istante dell'atto del piacere, è relativo agl'istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl'istanti che seguono, vale a dire al futuro. In questo istante il piacere ch'io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il mio desiderio, così non è {ancora} piacere, ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto. Andiamo più avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo è il discorso, il cammino, l'occupazione, l'operazione, e la sensazione dell'animo nell'atto di qualunque siasi piacere. Giunto l'ultimo istante, e terminato l'atto del piacere, l'uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva,  534 di averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di quello che ha sentito, e provando così un'altro[un altro] piacere, il di cui oggetto è bensì passato, ma non il piacere (perchè come può esser passato quello che non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l'atto di questo nuovo piacere è composto di una successione d'istanti della stessa natura che l'altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi {più} agl'istanti successivi di quell'atto, ch'è già finito, si riferisce ad altri atti; l'idea del così detto piacere provato, gli dà un'idea di quelli ch'egli crede di poter provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così prova un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro. Così p. e. se tu sei stato lodato, o ti sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec. L'atto di quel piacere è stato quale l'ho descritto: ma finito l'atto, lo vai ruminando {a parte a parte,} e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato o sul semplice gusto della  535 ricordanza, o sulla relazione che quel preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi dunque o devi provare, coll'idea che ti dà della futura vita, coi disegni, coll'idea di te stesso, delle tue forze ec. colle speranze o reali, o rispetto all'opinione e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo all'atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere. Così il piacere non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; {+(e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente)} e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il piacer possibile. Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro. (20. Gen. 1821.). {{V. p. 612. capoverso 1.}}

[610,1]  Neanche l'amor proprio è infinito, ma solamente indefinito. Non è infinito, dico io non già secondo l'origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l'infinità. Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l'amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, contuttociò l'animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell'infinito, e in questo senso dico io che l'amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l'animo nostro abbia niente d'infinito, non più che quello di qualsivoglia animale. E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata  611 infinità dell'amor proprio. Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor proprio infinito, o senza limiti nè misura. (4. Feb. 1821.).

[646,2]  La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell'animo nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla  647 misura dell'amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell'atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell'animale all'indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva dall'indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l'indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l'animale fosse pago, cioè felice, cioè l'amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa  648 contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter esser soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt'uno coll'amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell'ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente. Dunque ogni vivente, perciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio {suo} non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue. {{Le  649 présent n'est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet:}} ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, * dice {Pascal}. Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura. Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, {o fine,} e soprattutto mortificato e dissipato dall'azione continua, da' presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice. Quindi l'attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile. Oltre l'attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p. e. (ed è uno de' principali) lo stupore 1. di carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, * dice la natura agli uomini grandi, {detto di D'Alembert, Éloges de l'Académie Françoise (così, Françoise)} agli uomini sensibili, passionati ec: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio  650 bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente. 2. derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via dell'oppio, o proveniente da lassezza ec. ec. 3. derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4. dalla immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec. e v. la teoria del piacere. Notate che l'immaginazione {la vivacità,} la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell'attività. E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l'attività è il mezzo {di distrazione il} più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1821.).

[826,1]  An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? sed, nescio quomodo, animus erigens se, posteritatem semper {ita} prospiciebat, quasi, cum excessisset e vita, tum denique victurus esset; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitem[immortalitatem] gloriae niteretur. * Catone maggiore appresso Cic. Cato maior seu de Senect. c. ult. 23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente, come ho detto in altri pensieri pp. 532-35 p. 648. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta  827 nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec. di coloro che verranno dopo di noi. L'uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a' contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai presente); allora l'animo suo erigens se quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo  828 più luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a' confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne' posteri, sperando {l'uomo} da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce l'uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d'altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità. Illusione appunto più comune negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell'attuale e vero piacere in questa vita, e d'altronde  829 bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell'esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo {allora} tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico un piacere attuale e presente. (20. Marzo 1821.). {Applicate questi pensieri alla speranza di felicità futura in un altro mondo.}

[986,1]  Come non si dà mai l'atto nè il possesso del diletto, così neanche dell'utilità, giacchè utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non è riposta in altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato. (25. Aprile 1821.).

[1017,1]   1017 Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò {e non per altro,} la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che {la realtà} non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell'amore, dove la passione e la vita e l'azione dell'anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive[vivi] e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir meno di qualunque  1018 altra idea ec. Per l'altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri che l'uomo possa provare. (6. Maggio 1821.).

[1025,2]  Sebben l'uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni  1026 più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l'infinità, o l'indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell'animo nostro finisce assolutamente sull'ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia. (9. Maggio 1821.).

[1028,1]   1028 La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole. (10. Maggio 1821.).

[1044,2]  La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento. (13. Maggio 1821.).

[1429,1]  L'antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica ec. ec. o solamente spirituali ed interiori. Perchè ciò? per la tendenza dell'uomo all'infinito. L'antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l'anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno. Non così nelle cose moderne, perch'ella non vi si può perdere, e vede chiaramente tutta la stesa del tempo, e giunge subito all'epoca, al termine ec. Anzi è notabile che l'anima in una delle  1430 {{dette}} estasi, vedendo p. es. una torre moderna, ma che non sappia quando fabbricata, e un'altra antica della quale sappia l'epoca precisa, tuttavia è molto più commossa da questa che da quella. Perchè l'indefinito di quella è troppo piccolo, e lo spazio, benchè i confini {{non}} si discernano, è tanto angusto, che l'anima arriva a comprenderlo tutto. Ma nell'altro caso, sebbene i confini si vedano, e quanto ad essi non vi sia indefinito, v'è però in questo, che lo spazio è così ampio che l'anima non l'abbraccia, e vi si perde; e sebbene distingue gli estremi, non distingue però se non se confusamente lo spazio che corre tra loro. Come allorchè vediamo una vasta campagna, di cui {pur} da tutte le parti si scuopra l'orizzonte. (1. Agosto. 1821.).

[1430,1]  Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull'infinito, e richiamar l'idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d'alberi, la cui fine si perda di  1431 vista, o per la lunghezza del filare, o perch'esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l'indefinito ec. ec. ec. (1. Agosto 1821.).

[1464,1]   1464 Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove pp. 1341-42 che il primo principio delle cose è il nulla. (7. Agos. 1821.).

[1472,2]  Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita metodica, senza varietà, senza  1473 commozioni, senza troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono ben difendersi, e v'è tanto da dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto {degli educatori} è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l'età de' loro allievi, e la loro, o {non} volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere; di credere che la gioventù de' loro allievi debba o possa riuscire essenzialmente, e {quasi} spontaneamente diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all'esperienza ec. (9. Agos. 1821.).

[1507,2]  La brevità non piace per altro, se non perchè nulla piace. Anche i maggiori piaceri  1508 si bramano, e denno esser brevi, e lasciar desiderio, altrimenti lasciano sazietà. Ma non v'è mezzo fra questi due estremi? non possono lasciar paghi? No. Se l'uomo potesse appagarsi di un piacere nè la brevità nè la varietà (che deriva dalla brevità, e l'include ed importa, ed è quasi tutt'uno con lei) non sarebbero piacevoli per se stesse, nè amate dall'uomo. Ora siccome l'uomo non può restar pago, e la sua peggior condizione è la sazietà, perciò una principalissima qualità de' piaceri e delle sensazioni interiori o esteriori che servono alla felicità, si è che lascino desiderio, si è la brevità, e varietà loro, e la varietà della vita. (17. Agos. 1821.)

[1534,1]  Le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole (se l'uomo non vi si avvezza troppo), perchè destano un'idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta. (20. Agos. 1821.).

[1537,1]  Gli odori sono quasi un'immagine de' piaceri umani. Un'[un] odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu'altra sensazione. Voglio dire che l'odorato non resta mai soddisfatto neppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche un'immagine delle speranze. Quelle cose molto odorifere che son buone anche a mangiare, per lo più vincono coll'odore il sapore, e questo non corrisponde mai all'aspettativa di quel gusto, che dall'odore se n'era conceputa. E se voi osserverete vedrete che odorando queste tali cose, vi viene quel desiderio che tante volte ci avviene nella vita, d'immedesimarci in certo modo con quel piacere, il che ci spinge a porcelo in bocca: e fattolo restiamo mal paghi. Nè solo nelle cose buone a mangiare, ma anche negli altri odori ci sopravviene lo stesso desiderio; e  1538 fiutando p. e. con gran diletto un'acqua odorifera, e non potendoci mai appagare di quella sensazione, ci vien voglia di berla. (21. Agos. 1821.).

[1554,2]  In questo presente stato di cose, non abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali, ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita  1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità. V. la mia teoria del piacere, applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).

[1573,1]  Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente loro semper divinum aliquid atque infinitum desiderat, * a cui le forze dell'eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al gusto.

[1580,1]  Dalla mia teoria del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l'animo riposato e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec. Questo stato non curante de' piaceri nè de' dolori, è forse uno de' maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma per se stesso.

[1628,1]  La disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto languore e insensibilità di speranza, è un piacere per se, e perchè l'uomo non sentendo la speranza, appena sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una specie di torpore, benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in tal circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere. (4. Sett. 1821.).

[1684,1]  Piace naturalmente ed universalmente (anche a' vecchi) la vivacità della fisonomia, moti, espressioni, stile, costumi, maniere ec. ec. Che vuol dir ciò? Viene in parte dallo straordinario, ma nella parte principale questo piacere è indipendente dal bello: egli viene in ultima analisi da una inclinazione (innata) della natura  1685 alla vita, ed odio della morte, e quindi della noia, dell'inattività, e di ciò che l'esprime, come la melensaggine. Inclinazione ed odio che si manifesta in mille altre parti della vita umana, anzi in tutto l'uomo, anzi in tutta la natura. Bensì ella {pur} varia nelle proporzioni, secondo i temperamenti, le circostanze, {ec.} e sarà piacevole, e (come dicono) bella per costui una vivacità che sarà brutta per colui, bella oggi, brutta domani, bella per una nazione, brutta per un'altra ec. ec. ec. (12. Sett. 1821.).

[1716,2]  Lo svelto non è che vivacità. Ella piace (e il perchè, v. p. 1684. fine); dunque anche la sveltezza. Così che il piacere che l'uomo prova ordinariamente alla vista degli uccelli (esempi di sveltezza e vispezza), massime se li contempla da vicino, tiene alle più intime inclinazioni  1717 e qualità della natura umana, cioè l'inclinazione alla vita. (16. Sett. 1821.). {{V. p. 1725.}}

[1744,1]  Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite pp. 170-72, si spiega perchè piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano {e non si scopra la sorgente della luce;} un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; {+la detta luce veduta in luogo {oggetto ec.} dov'ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov'ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec.} quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell'ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce p. e. un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti in somma che per diverse  1745 materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o {fuor dell'}ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari. ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov'ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell'astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l'incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll'immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari,  1746 i pagliai, le ineguaglianze del suolo {ec.} nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, nè ostacolo; dove l'occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l'idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell'incertezza prevale a quello dell'apparente infinità, {e dell'immensa uniformità.} E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.) Infatti, ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza {e relazione} colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista.

[1777,2]  Quello che ci desta una folla di rimembranze dove il pensiero si confonda, è sempre piacevole. Ciò fanno le immagini de' poeti, le parole dette poetiche ec. fra le quali cose, è notabile che le immagini della vita domestica nella poesia, ne' romanzi, {+pitture ec. ec.} ec. riescono sempre piacevolissime, gratissime amenissime elegantissime e danno qualche bellezza, e ci riconciliano talvolta alle più sciocche composizioni, ed agli scrittori i più incapaci di ben presentarle. Così quelle della vita rustica  1778 ec. il cui grand'effetto deriva in gran parte dalla folla delle rimembranze o delle idee che producono, perocch'elle son cose comuni, a tutti note, ed appartenenti.

[1779,1]  Un certo torpore dell'animo e del corpo che è cagionato talvolta dall'avvicinamento del sonno, è piacevolissimo. Il sonno stesso non è piacevole se non in quanto è torpore, dimenticanza, riposo dai desiderii, dai timori, dalle speranze, e dalle passioni d'ogni sorta. Le lodi che dà Orazio all'ubbriachezza versano per lo più sulla dimenticanza, e quindi sul torpore ch'ella cagiona. Per causa della dimenticanza è pur piacevole un'allegria viva, dove l'anima rinunzia come a se stessa, e intorpidisce affatto per una parte, mentre si ravviva per l'altra. La dimenticanza insomma e la quiete totale delle passioni è sempre piacevole, da qualunque cagione prodotta, siccome per lo contrario è piacevole la vita delle passioni. (24. Sett. 1821.).

[1789,1]  Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse. Così in quella divina stanza dell'Ariosto (1. 65.)
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch'è passato il fulmine, si leva
Di là dove l'altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l'aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva;
Tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso. *

Dove l'effetto delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed idee; l'effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l'una delle delle due. (25. Sett. 1821.).

[1825,2]  Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. Come nel Petr.  1826
Te solo aspetto, e quel che tanto amasti
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo. *

[1826,2]  Finora s'è applicata alla politica piuttosto la cognizione degli uomini che quella dell'uomo, piuttosto la scienza delle nazioni che degl'individui di cui le nazioni si compongono, e che sono altrettante fedeli immagini delle nazioni. (3. Ott. 1821.).

[1827,2]  A quello che altrove ho detto pp. 1744-46 dell'effetto che fa nell'uomo la vista del cielo, si può aggiungere e paragonare quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d'ogni sorta d'immagine presa dalla navigazione ec. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo motivo, ma non durevolmente, perchè mancano di due qualità, la varietà, e l'esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana, agli oggetti che ci circondano, alle nostre assuefazioni rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio ec. di professione) ed anche alle nostri[nostre] cognizioni pratiche; giacchè la cognizione pratica,  1828 almeno in grosso, l'uso, l'esperienza, una tal quale familiarità con ciò che il poeta ha per le mani, è necessaria all'effetto delle immagini e sentimenti poetici ec.; ed è per questo che piace soprattutto nella poesia ciò che spetta al cuore umano (che è la cosa della quale abbiamo più cognizione pratica), siccome nella pittura, scultura ec. l'imitazione dell'uomo, delle sue passioni ec. (3. Ott. 1821.).

[1866,1]  Possiamo dire che ogni qualunque sensazione affatto nuova, se non è precisamente di dolore, è piacevole per ciò solo ch'è nuova, quantunque non solo non abbia in se nessun genere di piacevole, ma abbia anche del dispiacevole. (8. Ott. 1821.).

[1915,1]   1915 Una cagione del piacere che produce la semplicità nelle opere d'arte, o di scrittura, o in tutto ciò che spetta al bello; cagione universale, e indipendente dall'assuefazione quanto al totale dell'effetto, ed inerente alla natura del bello semplice; si è il contrasto fra l'artefatto e l'inartefatto, o la perfetta apparenza dell'inartefatto. Contrasto il quale può essere 1. tra le altre bellezze e qualità dell'opera, che stante la loro perfezione, non paiono poter essere inartefatte, e la semplicità o naturalezza che tutte le veste e le comprende, la quale è, o pare del tutto inartefatta: 2. fra la stessa natura della semplicità e naturalezza che per se stessa par che includa lo spontaneo e non artefatto, e il sapere o accorgersi bene (com'è naturale) ch'essa, malgrado questa perfetta apparenza, è non per tanto artefatta, e deriva dallo studio. Contrasto il quale produce la meraviglia che sempre deriva dallo straordinario,  1916 e dall'unione di cose o qualità che paiono incompatibili ec. Siccom'è il ricercato colla sembianza del non ricercato. Sottilissime, minutissime, sfuggevolissime sono le cause e la natura de' più grandi piaceri umani. E la maggior parte di essi si trova in ultima analisi derivare da quello che non è ordinario, e da ciò appunto, ch'esso non è ordinario. ec. (14. Ott. 1821.). {+La maraviglia principal fonte di piacere nelle arti belle, poesia, ec. da che cosa deriva, ed a qual teoria spetta, se non a quella dello straordinario?}

[1927,2]  Quello che altrove ho detto pp. 1744-47 sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all'idea dell'infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che  1928 spetta all'udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un'idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi, {o che paia lontano senza esserlo,} o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; {+o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l'orecchio e l'idea quasi lo perda nella vastità degli spazi;} un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s'ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. {Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perchè nè l'udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze.} È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, come {in} taluno dei detti casi, massime se non si vede l'oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand'è più sordo, quando è udito  1929 in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocchè oltre la vastità, e l'incertezza e confusione del suono, non si vede l'oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. E[È] piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de' piedi, o la voce ec. Perocchè l'eco non si vede ec. E tanto più quanto il luogo e l'eco e[è] più vasto, quanto più l'eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l'oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar  1930 l'intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d'ignorare l'effetto e le immagini che son per produrre, e di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e indole dell'argomento ec. V. in questo proposito Virg. Eneide 7. v. 8. seqq. La notte, o l'immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l'ha adoperata. (16. Ott. 1821.).

[1930,1]  Posteri, posterità, (e questo più perchè più generale) futuro, passato, eterno, lungo in fatto di tempo, morte, mortale, immortale, e cento simili, son parole di senso o di significazione quanto indefinita, tanto poetica e nobile, e perciò cagione di nobiltà, di bellezza ec. a tutti gli stili. (16. Ott. 1821.).

[1943,1]  La causa di questa differenza, non è altra che la mancanza di assuefazioni determinanti e creanti l'armonia o disarmonia de' colori puri. E la causa di questa (se non totale, quasi totale) mancanza (che rende ridicolo il tentativo fatto di una musica a colori), non può esser altra, secondo me, che la stessa immensità delle assuefazioni,  1944 sensazioni, esercizi, occupazioni variatissime della vista, applicandola sempre agli oggetti, la distrae dal considerare le loro qualità visibili indipendentemente da essi, in modo bastante a formarsi di esse sole assuefazioni bastanti a rendere armonica o disarmonica la loro pura composizione. La vista è il più materiale di tutti i sensi, e il meno atto a tutto ciò che sa di astratto. Perciò la vista e i suoi piaceri sono le predilette sensazioni dell'uomo naturale. ec. ... ec. ... ec. V. Costa, dell'Elocuzione.

[1953,1]  Tutte le sensazioni di vigore (se questo non è eccessivo rispettivamente alla specie e all'individuo) sono piacevoli. Consultate i medici. Dal che apparisce che il vigore essendo piacevole per se stesso, egli è destinato precisamente dalla natura agli animali, e forma parte essenziale del loro ben essere, e questo non può star senza quello. (20. Ott. 1821.).

[1962,1]  Un des grands avantages des dialectes germaniques en poésie, c'est la variété et la beauté de leurs épithètes. L'allemand sous ce rapport aussi, peut se comparer au grec; l'on sent dans un seul  1963 mot plusieurs images, comme, dans la note fondamentale d'un accord, on entend les autres sons dont il est composé, ou comme de certains couleurs réveillent en nous la sensations de celles qui en dépendent. L'on ne dit en français que ce qu'on veut dire, et l'on ne voit point errer autour des paroles ces nuages à mille formes, qui entourent la poésie des langues du nord, et réveillent une foule de souvenirs. A la liberté de former une seule épithète de deux ou trois, se joint celle d'animer le langage en faisant avec les verbes des noms: * (proprietà egualmente del greco, dell'italiano, e dello spagnuolo) le vivre, le vouloir, le sentir, sont des expressions moins abstraites que la vie, la volonté, le sentiment; et tout ce qui tend à changer la pensée en action donne toujour plus de mouvement au style. La facilité de renverser à son gré la construction  1964 de la phrase * (ho detto altrove pp. 109-11 pp. 950-52 pp. 1226-28 che come le parole, così le frasi e costruzioni ec. possono esser termini, e che quella lingua che più abbonda di termini, {in pregiudizio delle parole,} suole per analogia esser matematica nella frase ec., e che la francese è tutta un gran termine) est aussi très-favorable à la poésie, et permet d'exciter, par les moyens variés de la versification, des impressions analogues à celles de la peinture et de la musique * . (impressioni vaghe.) Enfin l'esprit général des dialectes teutoniques, c'est l'indépendance: les écrivains cherchent avant tout à transmettre ce qu'il sentent; ils diroient volontiers à la poésie comme Héloïse à son amant: S'il y a un mot plus vrai, plus tendre, plus profond encore pour exprimer ce que j'éprouve, c'est celui-là que je veux choisir. Le souvenir des convenances de société poursuit en France le talent *  1965 jusques dans ses émotions les plus intimes; et la crainte du ridicule est l'épée de Damoclès, qu'aucune fête de l'imagination ne peut faire oublier. * De l'Allemagne, tome 1. 2.de part. ch. 9. vers la fin. (21. Ott. 1821.).

[1967,1]  Il detto amusement ha un gruppo di cagioni, tutte insieme e concordemente efficienti, benchè diversissime e anche contrarie. Quanti effetti, {quanti piaceri ec.} derivano individualmente e in un medesimo caso e punto da cagioni contrarie! {+e non sarebbero quali sono in mancanza di una di tali cagioni, o della loro contrarietà!} (21. Ott. 1821.).

[1982,2]  Quello che ho detto altrove pp. 1744-47 pp. 1927-30 degli effetti della luce, del suono, e d'altre tali sensazioni circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica, dalla poesia  1983 ec. Il bello delle quali arti, in grandissima parte, e più di quello che si crede o si osserva, consiste nella scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare.

[1987,1]  Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri  1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).

[1999,1]  La velocità p. es. de' cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (v. in tal proposito l'Alfieri nella sua Vita, sui principii) è piacevolissima per se sola, cioè per la vivacità, l'energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell'infinito, sublima l'anima, la fortifica, la mette in una indeterminata azione, o stato di attività più o meno passeggero. E tutto ciò tanto più quanto la velocità è maggiore. In questi effetti avrà parte anche lo straordinario. (27. Ott. 1821.)

[2017,3]  Il fare un atto di vigore, o il servirsi del vigore passivamente o attivamente, {+(come fare un veloce cammino, o de' movimenti forti ed energici ec.)} quando {e finchè} ciò non superi le forze dell'individuo, è piacevole per ciò solo, quando anche sia per se stesso incomodo, (come l'esporsi a un gran freddo ec.) quando anche sia senza spettatori, e prescindendo pure dall'ambizione e dall'interna soddisfazione e  2018 compiacenza di se stesso, che vi si prova. {+Nè solo il fare tali atti, ma anche il vederli, l'essere spettatore di cose attive, energiche, rapide, movimenti ec. vivaci, forti, difficili ec. ec. azioni ec. piace, perchè mette l'anima in una certa azione, e le comunica una certa attività interiore, la rompe ec. l'esercita da lontano ec. e par ch'ella {ne} ritorni più forte, ed esercitata ec.}

[2041,1]  La rapidità e la concisione dello stile, piace perchè presenta all'anima una folla d'idee simultanee, o così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l'anima in una tale abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni.  2042 La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt'uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L'eccitamento d'idee simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi ec. Perchè è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo cacciatore d'immagini? Perchè queste immagini risultano in lui da una copia di parole e di versi, che non destano l'immagine senza lungo circuito, e così poco o nulla v'ha di simultaneo, giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli oggetti appoco appoco per le loro parti. Perchè lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile? Perchè ogni  2043 parola presso lui è un'immagine ec. ec. V. il mio discorso sui romantici. Qua si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia descrittiva, (assurda in stessa) e quell'antico precetto che il poeta (o lo scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile di Orazio (rapidissimo, e pieno d'immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di significato ec.), {V. p. 2049.} e quanto al pensiero, quella dello stile di Tacito. ec. (3. Nov. 1821.). {{V. p. 2239.}}

[2053,1]   2053 La sola vastità desta nell'anima un senso di piacere, da qualunque sensazione fisica o morale, ella provenga, e per mezzo di qualunque de' cinque sensi. Un salone ampio e disteso, alle cui estremità appena giunge la vista, piace sempre; e massime se se ne nota bene la vastità, per non essere interrotta da colonne, p. e. o altri oggetti, che sminuzzino la sensazione. Piace la vastità, in quanto vastità, anche nelle sensazioni assolutamente dispiacevoli, sebbene il dispiacere essendo vasto, paia che debba essere, e sia per una parte maggiore.

[2118,1]  Piace l'essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell'uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino, al quale un fiume vicino soleva recare grandi danni, dire che nondimeno era un piacere la vista della piena, quando s'avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini, benchè brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella pittura, nell'eloquenza ec. (18. Nov. 1821.).

[2153,2]  Non solo l'egoismo o l'amor proprio si trova in qualunque azione, affetto ec. possibile all'uomo, ancorchè paia il più lontano, e il più contrario all'amor di se stesso, ma in questi medesimi atti, affetti ec. l'amor proprio, v'ha tanta parte, vi si trova in misura e grado e forza tale, l'uomo  2154 o il vivente vi mira tanto a se stesso, quanto nell'azione o nell'affetto che deriva dal più sublimato, dal più schietto, infame, manifesto egoismo.

[2251,1]  Alla p. 2243. Tutto ciò che è finito, tutto ciò che è ultimo, desta sempre naturalmente nell'uomo un sentimento di dolore, e di malinconia. Nel tempo stesso eccita un sentimento piacevole, e piacevole nel medesimo dolore, e ciò a causa dell'infinità dell'idea che si contiene in queste parole finito, ultimo ec. (le quali però sono di lor natura, e saranno sempre poeticissime, per usuali e volgari che sieno, in qualunque lingua e stile. E tali son pure  2252 in qualsivoglia lingua ec. quelle altre parole e idee, che ho notate in vari luoghi p. 1534 p. 1789 pp. 1825-26 pp. 1927-30, come poetiche per se, e per l'infinità che essenzialmente contengono.) (13. Dic. 1821.). {{V. p. 2451.}}

[2257,2]  L'altezza di un edifizio o di una fabbrica qualunque sì di fuori che di dentro, di un monte ec. è piacevole sempre a vedere, tanto che si perdona in favor suo anche la sproporzione. Come in una guglia altissima e sottilissima. Anzi quella stessa sproporzione piace, perchè dà risalto all'altezza, e ne accresce l'apparenza e l'impressione e la percezione e il sentimento e il concetto. Ad uno il quale udiva che l'altezza straordinaria di un certo tempio era ripresa come sproporzionata alla grandezza ec. sentii dire che se questo era un difetto, era bel difetto, ed appagava e ricreava  2258 l'animo dello spettatore. La causa naturale ed intrinseca {e metafisica} di questi effetti l'intendi già bene. (16. Dic. 1821.).

[2263,1]  Antichi, antico, antichità; posteri, posterità sono parole poeticissime ec. perchè contengono un'idea 1. vasta, 2. indefinita ed incerta, massime posterità della quale non sappiamo nulla, ed antichità similmente è cosa oscurissima per noi. Del resto tutte le parole che esprimono generalità, o una cosa in generale, appartengono a queste considerazioni. (20. Dic. 1821.).

[2336,1]  Ho parlato altrove pp. 1684-85 pp. 1716-17 pp. 1780-81 p. 1999 pp. 2049-50 p. 2239 del perchè la sveltezza debba piacere, e com'ell'abbia che fare colla velocità, colla prontezza ec. Ho notato che questa sveltezza piacevole, non è solo nella figura o delle persone, o degli oggetti visibili, nè nei movimenti ec. ma in ogni altro genere di cose, e qualità di esse. P. e. ho fatto osservare come la sveltezza, la pieghevolezza, la rapidità della voce, de' passaggi ec. sia una delle principali sorgenti di piacere nella musica, massimamente moderna. Or aggiungo. Piace la sveltezza e la rapidità anche nel discorso, nella pronunzia, ec. Le donne Veneziane piacciono molto a sentirle parlare anche per la rapidità materiale del loro discorso, per la copia inesauribile che hanno di parole, perchè la rapidità non le conduce a verun intoppo ec., cioè non ostante la velocità della pronunzia e del discorso, non intoppano ec. Anche  2337 a rapidità, la concisione ec. dello stile, e il piacere che ne ridonda, possono e debbono in parte ridursi sotto queste considerazioni. (8. Gen. 1822.).

[2337,1]  La sveltezza o veduta o concepita, per mezzo di qualunque senso, o comunque, (v. il pensiero precedente) comunica all'anima un'attività, una mobilità, la trasporta qua e là, l'agita, l'esercita ec. Ed ecco ch'ella per necessità dev'esser piacevole, perchè l'animo nostro trova sempre qualche piacere (maggiore o minore, ma sempre qualche piacere) nell'azione, sinch'ella non è o non diviene fatica, e non produce stanchezza. (8. Gen. 1822.

[2350,1]   2350 Alto, altezza e simili sono parole e idee poetiche ec. per le ragioni accennate altrove, {(p. 2257.)} e così le immagini che spettano a questa qualità. (14. Gen. 1822.)

[2361,1]  Che vuol dire che l'uomo ama tanto l'imitazione e l'espressione ec. delle passioni? e più delle più vive? e più l'imitazione la più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, {ec.} per bella, efficace, elegante, e pienissimamente imitativa ch'ella sia, se non esprime passione, {+se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente qualcuna troppo poco viva)} è sempre posposta a quelle che l'esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione  2362 contraria. Che vuol dir ciò? non è dunque la sola verità dell'imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l'uomo desidera, ma la forza, l'energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L'uomo odia l'inattività, e di questa vuol esser liberato dalle arti belle. {{Però le pitture di paesi, gl'idilli ec. ec. saranno sempre d'assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica. (26. Gen. 1822.).}}

[2410,1]  Dalla mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose, quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività interna dell'amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la vita, o il  2411 sentimento vitale in ciascun essere; e specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l'attività dell'anima, cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son quasi una cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza propria (ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente, nè questo esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente misurare coll'altro. E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi o riferiti o prodotti ec. dall'amor proprio: il quale è il sentimento universale che abbraccia tutta l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve n'ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte essenziale del medesimo.

[2433,1]  Amando il vivente {quasi} sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice Cic. in Lael.). Ed in tanto non l'odia sempre sopra ogni cosa, in quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; p. e. quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel dolore. Vale a  2434 dire quando l'amor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla morte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perchè gli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsi dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramente dalla speranza.

[2468,1]  Nelle annotazioni alle mie Canzoni (Canzone 6. stanza 3. verso 1) ho detto e mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica l'idea rappresentata dal vocabolo. Questa è una delle principali cagioni per cui la metafora è una figura così bella, così poetica, e annoverata da tutti i maestri fra le parti e gl'istrumenti principalissimi dello stile poetico, o anche prosaico ornato e sublime ec. Voglio dire ch'ella è così piacevole perchè rappresenta più idee in un tempo stesso (al contrario dei termini). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno notabilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica, e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore. Perchè grandissima, anzi infinita parte del nostro discorso è metaforica, e non perciò quelle metafore di cui ordinariamente si compone risvegliano più d'una semplice idea.  2469 Giacchè l'idea primitiva significata propriamente da quei vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal significato metaforico il quale solo rimane, come ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa parola non abbia perduto affatto, anzi punto, il suo suo significato proprio, ma lo conservi e lo porti a suo tempo. P. e. accendere ha tuttavia la forza sua propria. Ma s'io dico accender l'animo, l'ira ec. che sono metafore, l'idea che risvegliano è una, cioè la metaforica, perchè il lungo uso ha fatto che in queste tali metafore non si senta più il significato proprio di accendere, ma solo il traslato. E così queste tali voci vengono ad aver più significazioni quasi al tutto separate l'una dall'altra, quasi affatto semplici, e che tutte si possono {omai} chiamare ugualmente proprie. Il che non può accadere nelle metafore nuove, nelle quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente tutto il diletto della metafora: massime s'ell'è ardita, cioè se non è presa sì da vicino che le idee, benchè diverse,  2470 pur quasi si confondano insieme, e la mente del lettore o uditore non sia obbligata a nessun'azione ed energia più che ordinaria per trovare e vedere in un tratto la relazione il legame l'affinità la corrispondenza d'esse idee, e per correr velocemente e come in un punto solo dall'una all'altra; in che consiste il piacere della loro moltiplicità. Siccome per lo contrario le metafore troppo lontane stancano, o il lettore non arriva ad abbracciare lo spazio che è tra l'una e l'altra idea rappresentata dalla metafora; o non ci arriva in un punto, ma dopo un certo tempo; e così la moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il piacere, non ha più luogo. (10. Giugno 1822.). {{V. p. 2663.}}

[2493,2]  L'amor proprio, il quale, come ho dimostrato pp. 646-48 p. 1382 pp. 2410. sgg. p. 2490 più volte, è necessaria o quasi necessaria sorgente d'infelicità, era però (oltre l'essere una essenziale conseguenza e parte  2494 dell'esistenza sentita e conosciuta dall'esistente) necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può dare amor della felicità senz'amor di se stesso? anzi questi due amori sono precisamente una cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar felicità senza amor di felicità? Giacchè l'animale non può godere e compiacersi di quel che non ama. Dunque non amando la felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene. Dunque quella non sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque l'animale, se non amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe essenzialmente incapace della felicità, e in disposizione contraddittoria colla natura di essa. Quindi si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene l'amor proprio produce necessariamente l'infelicità (maggiore o minore), la natura non ha però sbagliato nell'ingenerarlo ai viventi, essendo necessario alla felicità, e però il suddetto  2495 inconveniente era inevitabile come tanti altri, e derivato come tanti altri da una cosa ch'è un bene, e fatta per bene. (24. Giugno. 1822.).

[2495,1]  Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti, non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato, con  2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.; in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti; contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più bell'aspetto possibile, {+e di più essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura, vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24. Giugno. 1822.). {{V. p. 2528.}}

[2496,1]  Quindi osservate che tutto quanto si dice dell'amor proprio si deve anche intendere  2497 dell'amor della felicità ch'è tutt'uno (v. p. 2494.). E però la misura, la forza, l'estensione, le vicende, gl'incrementi, gli scemamenti, tanto individuali che generali, dell'uno di questi amori, son comuni all'altro nè più nè meno. (24. Giugno. 1822.

[2499,1]   2499 Ho assegnato altrove pp. 2017-18 pp. 2410-12 pp. 2433-34 come principio d'infinite e variatissime qualità dell'animo umano (p. e. l'amor delle sensazioni vivaci) l'amor della vita. Questo amore però è non solo necessaria conseguenza, ma parte, ovvero operazione naturale dell'amor proprio, il quale non può non essere amore della propria esistenza, se non quando quest'esistenza è divenuta una pena. Ma ciò non in quanto esistenza, chè l'esistenza in quanto esistenza, è per natura eternamente amata sopra ogni cosa dall'esistente. Perocchè tanto è amar la propria esistenza in quanto esistenza, quanto è amar se stesso. E sarebbe una contraddizione quasi impossibile a concepirsi, che l'esistenza non fosse amata dall'esistente; e quindi che in certo modo l'esistenza fosse odiata dall'esistenza, e combattuta dall'esistenza, e contraria all'esistenza, o anche semplicemente non cara e non gradita a se stessa, nemmeno inquanto se stessa. (26. Giugno. 1822.).

[2526,1]  Τοὺς δὲ * (χώρους) μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν * (agros qui incrementum nullum haberent, cioè così {ben} coltivati già quando si comprano, che non si  2527 possano far migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ὁμοίας ἐνόμιζε παρέχειν∙ ἀλλὰ πᾶν κτῆμα καὶ ϑρέμμα τὸ ἐπὶ {τὸ} βέλτιον ἰόν, τοῦτο καὶ εὐϕραίνειν μάλιστα ᾤετο * . Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice a Socrate presso Senofonte Del governo della casa, cap. 20. §. 23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza e nell'aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato che non si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per se, è sempre infelicissimo, come fu presso a poco quello d'Augusto {divenuto} padrone di tutto il mondo, e malcontento com'egli s'espresse. (29. Giugno 1822.).

[2549,1]  La quistione se il suicidio giovi o non giovi all'uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa,  2550 immutabile e perpetua che l'uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove pp. 532-35 pp. 646-50, il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev'essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev'esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors'anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, {+(giacchè la natura e l'amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c'è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere)} ma il godere essendo impossibile all'uomo, resta escluso necessariamente e per natura  2551 da tutta la quistione. E si conchiude ch'essendo all'uomo più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l'assoluto non essere giova e conviene all'uomo più dell'essere. E che l'essere nuoce precisamente all'uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl'istanti della nostra vita, in ciascuno de' quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll'intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell'amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch'egli fa considerandole sotto l'aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze.

[2592,2]  Le stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men belle, secondo che sono più o meno lucide. Così il sole e la luna secondo che son chiari e nitidi. Questa così detta bellezza non appartiene alla speculazione del bello, e vuol dir solamente che il lucido, per natura, è dilettevole all'occhio nostro, e rallegra l'animo ec. ec. (3. Agosto. 1822.).

[2599,1]  L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa, benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide  2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che {pur} paiono scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno * ec. La continuità de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie volte} pp. 172-77 pp. 2433-34 come la Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza  2601 di beni nell'ordine generale della natura: massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni  2602 non sarebbero neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto 1822.).

[2645,2]  La storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza  2646 massimente[massimamente], delle cognizioni, de' pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di tragedia, ec.  2647 e all'interesse dei detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o} dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell'essere le medesime familiari  2648 a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).

[2661,1]  Et quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet sensum, * (mallem sensus 2do casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna revocatur. * Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic. antivigilia di Natale 1822.)

[2673,3]  Dei beni umani il più supremo colmo È sentir meno il duolo. * Sentenza che racchiude la somma di tutta la filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra. (19. Feb. 1823.).

[2685,2]  A noi pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi o con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacere non può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch'esso non può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi dire ch'esso può piuttosto esser passato che presente. (Roma. 12. Aprile 1823.).

[2736,1]  È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè ne' giovani è  2737 più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome  2738 sono, massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.

[2759,1]   2759 Io udii un uomo di campagna, avvezzo per la sua professione a considerare i rovesci degli elementi come sciagure e calamità, raccontando gli effetti d'una inondazione da lui poco innanzi veduta, e raccontandoli come dannosissimi, e compiangendoli, soggiungere che nondimeno ella era stata una cosa bella e piacevole a vedere e udire, per l'impeto e il rombo, la grandezza e la potenza della piena. Tanto è vero che l'uomo è inclinato per natura alla vita, e che tutte le sensazioni forti e vive, quand'elle non recano dolore al corpo, e non sono accompagnate col danno o col presente pericolo di chi le prova, sono per la loro stessa forza e vivezza, piacevoli, ancorchè per tutte le altre loro qualità ed effetti siano dispiacevoli o terribili ancora. (10. Giugno 1823.).

[2861,1]  In ciascun punto della vita, anche nell'atto del maggior piacere, anche nei sogni, l'uomo {+o il vivente} è in istato di desiderio, e quindi non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell'esercizio de' sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l'individuo non sia in istato di pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior sensibilità {ed esercizio della vita,} e viceversa. (30. Giugno 1823.). {{V. p. 3550.}}

[2883,1]  Io provo {presentemente} un piacere, io vorrei che la condizione di tutta la mia vita, di tutta l'eternità, fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un solo momento, neppure nell'atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perchè il fine dell'uomo è il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui {quel} momento, e di più desiderare di viver sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che  2884 nessun uomo ha concepito nè formato mai questo desiderio nemmeno nel punto più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo che non ha concepito nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante neppur l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in quel punto niuno mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò nè sospese {{punto}} il desiderio nè anche {la speranza di} un maggiore ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal punto l'uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma egli ha il torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo ec. (3. Luglio 1823.).

[3191,2]  All'amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a loro una idea vivace, o per la vivacità dell'azione o del soggetto qualunque ch'elle significano (come spaccare), o perchè vivamente rappresentano all'immaginativa questa  3192 medesima azione o soggetto, qualunque siasi la cagione perch'esse vivamente lo rappresentino (come spaccare più vivamente rappresenta l'azione significata, e desta un'idea più viva che fendere per varie ragioni che ora non accade specificare, e lungo sarebbe il farlo), o perchè di un'azione o di un soggetto non vivace, ne destano però una viva e presente idea. (18. Agosto. 1823.).

[3497,1]  Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La {promessa e l'aspettativa} {di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale  3498 espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,  3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza. Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè  3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg. pp. 179-81 pp. 3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o positivo, nel conseguimento  3501 del quale o di più d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso, poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,  3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro. Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre, e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può vedere come sia per esser bene, {e} come possa piacergli;  3503 a chi è misero in questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale, s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni, non può per modo alcuno  3504 consolarlo realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere, ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, {+e le sue qualità e condizioni e circostanze,} anticipando ed {anzi} assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione, quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte? Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo} dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente  3505 quello a cui nè l'immaginazione nè l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra natura?

[3509,1]  Niente d'assoluto. - Veggasi il pensiero antecedente, {#1. in particolare p. 3498-9. margine.} nel quale si dimostra che {} l'uomo nè alcun vivente non desidera neppur la felicità assolutamente, ma relativamente, e solo s'ella conviene alla di lui propria natura, ed è richiesta dal di lui modo {particolare} di essere ec. e in quanto ella sia tale. ec. Nè perchè una cosa sia felicità, per questo solo ei la desidera, nè si compiace nello sperarla, quando ella non convenga al suo modo di essere ec. - {Si può però dire per un lato, che l'uomo desidera la felicità assolutamente. Veggasi la p. 3506. Ei non desidera tale o tale felicità, s'a lui non conviene: e dovendo desiderare una tale felicità, ei non può desiderar se non la conforme e propria al suo modo di essere. Ma la felicità assolutamente e indeterminatamente considerata, e s'ei così la considera, ei non può non bramarla, cioè in quanto felicità semplicemente.} Di qual cosa par che si possa ragionare più assolutamente che della lunghezza o estensione di una data porzione di tempo? la quale si misura {esattamente} coll'oriuolo, e si divide  3510 perfettamente in parti anche minutissime, non col pensiero solo, ma con gl'istrumenti da ciò, e come fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e si raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza che dà l'aritmetica. Ora egli è certissimo che la lunghezza di una medesima quantità di tempo ad altri è {veramente} maggiore ad altri minore, e ad un medesimo individuo può essere, ed è, quando maggiore quando minore. Onde può dirsi con verità che una medesima data porzione di tempo or dura più or meno ad un medesimo individuo, ed a chi più a chi meno. Lasciamo stare che il tempo disoccupato, annoiato, {incomodato,} addolorato e simili, riesce e si sente esser più lungo che quel medesimo o altrettanto spazio di tempo, occupato, dilettevole, passato in distrazione e simili; {#1. Nella rimembranza è molte volte il contrario, che più corto pare il tempo passato senza occupazione e uniformemente, perchè allora nella memoria l'una ora l'un dì si confonde e quasi sovrappone coll'altro, in modo che molti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro, nè moltitudine di azioni o passioni che si possa numerare, l'idea della qual moltitudine si è quella che produce l'idea della lunghezza del tempo, massime passato ec. Ma di questo pensiero {+altrove s'è scritto} pp.368-69} e ciò ad un medesimo individuo, o a diversi individui d'una sola specie in un tempo medesimo, o in tempi di versi[diversi.] Lasciando questo, si osservi che agli animali i quali vivono meno dell'uomo per lor natura, a quelli che vivono al più trent'anni, venti, dieci, cinqu'anni,  3511 un anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni soltanto (chè egli v'ha {effettivamente} animali {{che rispondano}} a tutte queste differenze di durata, e a cento e mill'altre intermedie); a questi animali, dico, una data porzione di tempo è veramente più lunga e dura più che all'uomo, e tanto più quanto la lor vita naturale è più corta; e l'idea che ciascun d'essi si forma ed acquista naturalmente della durata {e quantità} di una tal porzione qualunque di tempo, è assolutamente maggiore di quella che l'uomo concepisce; {{e maggiore}} in ragione esattamente inversa della lunghezza ordinaria del viver loro. E s'egli è vero {+come dicono,} che nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia degli animaletti, tra i quali, quei, i quali essendo nati il mattino, muojono la sera, sono i più vecchi, e muojono carichi di figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo * (Genovesi, Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla Morale. Meditaz. 1. Piacere dell'esistenza. § o articolo 12. Bassano, Remondini 1783. p. 26. Vedilo dall'articolo 11. al fine della Meditazione);  3512 se questo, dico, è vero (che ben può essere, {#1. Se non è, può essere, e al nostro caso tanto è il poter essere quanto l'essere in fatto. Immaginiamo, se non è, che sia, e come di un'ipotesi discorriamo di quello che necessariamente seguirebbe se così fosse. Essendo l'ipotesi possibilissima e similissima al vero, l'argomento avrà la medesima forza, e tanto nel caso presente varrà e proverà l'immaginazione e la supposizione, quanto la verità, tanto il supposto e l'immaginato quanto il vero ed effettivo.} e se non d'essi animaletti, d'altri, visibili o invisibili; e se no, discorrasi proporzionatamente di quelli che, come di certo si sa, vivono pochissimi giorni), egli è certissimo che l'idea che questi animali si formano e naturalmente acquistano della durata e quantità p. e. di una mezz'ora di tempo, è tanto maggiore della nostra idea, che noi non possiamo pur concepire il quanto. E veramente una mezz'ora dùra per essi indefinibilmente più che per noi, stante la rapidità delle loro azioni, {sensazioni,} passioni ed eventi; il velocissimo succedersi di questi, gli uni agli altri; la inconcepibile prontezza del loro sviluppo; la rapidità, per così dire, della lor vita ed esistenza; e stante ch'essi in una mezz'ora, in un minuto, vivono ed esistono, si può ben dire, assai più che noi nè gli altri più macrobii animali, in quel medesimo spazio, non fanno; e la loro esistenza in un minuto è veramente di quantità e d'intensità ec. maggiore che la nostra non è, in altrettanto spazio, e che noi non possiamo pure immaginare. In contrario senso ragionisi dell'idea che dovettero aver gli uomini naturalmente della durata e quantità di una data porzione di tempo, quando la  3513 la lor vita naturale era strabocchevolmente più lunga della presente; e proporzionatamente dell'idea che debbono averne le nazioni (se ve n'ha) che vivono ordinariamente più di noi (siccome v'ha certo di quelle che vivono meno, e prestissimo giungono alla maturità, e ciò ne' climi caldi, come nell'America meridionale, ove le donne si maritano di 10 o 12 anni, e tra gli orientali ec. {V. p. 3898.} e vedi a questo proposito l'Indica di Arriano, c. 9. sect. 1-8. e Plinio se ha nulla ec.); e dell'idea che n'hanno gli animali più longevi dell'uomo, come l'elefante, il cervo, la cornice, la tartaruga, alla quale pigrissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico, non lunghissima vita, perch'ella stante la tardità de' suoi movimenti ed azioni, alla quale corrisponde quella del suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la sua natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo assai meno che l'uomo in altrettanto spazio non fa. E così proporzionatamente gli altri animali più longevi di noi. E dalle suddette osservazioni si raccoglie che la somma {e quantità} della vita, e però la  3514 durata e lunghezza della medesima, è generalmente e appresso a poco altrettanta in effetto negli animali ed esseri brachibiotati, che ne' macrobiotati e negl'intermedii, e niente {minore,} e così viceversa. Onde la durata di un medesimo spazio di tempo è naturalmente e generalmente {e costantemente} {+salve le varie circostanze della vita di una stessa specie e individuo, accennate di sopra, come la noia, il piacere ec. che variano l'idea e 'l sentimento della durata ec. sempre però dentro i limiti e la proporzione e in rispetto dell'idea d'essa durata, propria particolarmente della specie per sua natura ec.} per gli uni maggiore per gli altri minore ec. e non si può determinare ec. nè giudicarne assolutamente come noi facciamo ec. (24. Sett. 1823.).

[3525,2]  Tutti hanno provato il piacere, o lo proveranno, ma niuno lo prova. {#1. Tutti hanno goduto o godranno, ma niuno gode. Questo pensiero spetta a quelli sopra il non darsi piacere se non futuro o passato pp. 532-35 pp. 646-50 pp. 826-29 p. 2685} (26. Sett. 1823.)

[3553,2]  Ho notato altrove p. 108 che la debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:  3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea {+(come ne' fanciulli e nelle donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone, naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da esso riceve diletto. {La debolezza ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in parte.} Senza ciò i fanciulli,  3555 massime dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi} un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri). Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi  3556 delle donne, nelle quali indipendentemente dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini, gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p. 200 pp. 1880-81 {#1. nè la sola sveltezza che in questi piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec. secondo il detto altrove p. 221 pp. 1716-17 p. 1999 pp. 2336-37 da me sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la  3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30. Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}

[3617,4]  Il Tasso, descrivendo i momenti che precedono una battaglia campale, e i due campi ordinati in battaglia (Gerus. Liber. c. 20. stanza 30.): Bello in sì bella vista anco è l'orrore, E di mezzo la tema esce il diletto. * Tant'è: ogni sensazion viva è gradevole perciocchè viva, benchè d'altronde, e pure per se, dolorosa o paurosa ec. Fuor di quelle che son dolorose al corpo. All'animo, eziandio dolorose, {+o altramente spiacevoli,} sono sempre in qualche parte piacevoli. (6. Ott. 1823.).

[3622,1]   3622 Sempre che l'uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e' non s'accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente che l'uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia. Ed essendo la noia, pena e dispiacere, segue che l'uomo, quanto ei sente la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. {#1. Massime quando l'uomo non ha distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi chiamiamo particolarmente di noia. V. p. 3713.} (7. Ott. 1823.)

[3745,2]  Il piacere è sempre passato o futuro, e non mai presente, nel modo stesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, o sempre condizionata e non mai assoluta: e così è impossibile che altri dica con {pieno} sentimento di  3746 vero dire, e con piena sincerità e persuasione, io provo un piacere, ancorchè menomo, quantunque tutti dicono io n'ho provato e proverò; quanto è impossibile che alcun dica di cuore io son felice, o Beato me, quando però tutti dicono beato il tale o il tal altro, {e} io sarei felice se mi trovassi tale o tale, e beato me se ottenessi tale o tal cosa, e se fosse questo o questo. E le cagioni per cui sono impossibili parimente le due cose sopraddette, sono appresso a poco le stesse. E come il non esser niuno che dica me beato, dimostra che tutti s'ingannano quelli che dicono beato te o lui, e io sarei beato in tale o tal caso (e tutti gli uomini così parlano e parleranno sempre {+e di cuore}); così il non esser chi dica di vero animo io provo piacere presentemente, dimostra che niuno provò nè proverà mai piacere alcuno, benchè tutti si pensino e {moltissimi affermino} con sentimento di verità, di averne provato e di averne a provare. (21. Ott. 1823.).

[3764,2]  Gli spettacoli gladiatorii, così sanguinarii ec. appartengono a quel diletto delle sensazioni vive, di cui dico in tanti luoghi p.1953 pp. 2017-18 p. 2759. (23. Ott. 1823.). {{Così le cacce di tori ec. ec.}}

[3813,1]  L'amor della vita, il piacere delle sensazioni vive, dell'aspetto della vita ec. {+delle quali cose altrove} pp. 2107-108 p. 2499 pp. 1988-90 pp. 2017-18 p. 2415 pp. 2433-34 è ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch'ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S'ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro se stessa. S'ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s'ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785. principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), nè amerebbe il suo maggior  3814 possibile bene, e non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come negl'individui e nelle specie ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l'esistenza, l'essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa {nè fine} più naturale, nè più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l'esistenza e la vita, la quale è quasi tutt'uno colla stessa natura, nè amore più naturale, nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione {il compimento} e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne' diversi generi di cose esistenti. Quindi ell'è in certo modo la vita o l'esistenza stessa, siccome l'infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch'è vita, è anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente e[è] tutt'uno colla natura, la vita divisa ne' particolari è tutt'uno co' rispettivi subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L'essere esistente non può amar la morte, {#1. (in quanto la morte abbia rispetto a lui)} veramente parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch'ei possa, in veruno istante dell'esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può  3815 odiar se stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch'ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch'egli possa onninamente amare. Sicchè l'uomo, l'animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch'egli ama se stesso. (31. Ott. 1823.).

[3821,1]   3821 Diminutivi positivati. Orbiculatus, orbiculatim, reticulatus, vermiculatus ec. (3. Nov. 1823.) {se già non sono frequentativi di significato come altrove generalmente ho avvertito pp. 1240-42.}

[3835,1]  L'esaltamento di forze proveniente da' liquori o da' cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l'effetto essenziale di essa, ch'è il desiderio del piacere, perocchè coll'intensità della vita cresce {quella del}l'amor proprio, e l'amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere {#1. V. p. 3905.} {Puoi vedere la p. 3842. seg..} Quindi l'uomo in quello stato è oltre modo, e più ch'ei non suole, avido {e famelico} di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza ultima della felicità, ch'è il piacere, poco, {o men del suo solito,} curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii {e per felicità}; perch'essi stessi tendono essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al piacere. In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello che sono {sempre} i più forti rispetto agli altri, cioè più sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii, cioè dal desiderio della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del piacere  3836 (al quale tutti tendono e sempre, ma i più forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più ordinariamente degli altri), perocch'essi sono {abitualmente} più vivi degli altri.

[3842,2]  Sempre che l'uomo pensa, ei desidera, perchè tanto quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a proporzione che la sua facoltà di pensare è più libera ed intera e {con minore} impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente la esercita, il suo desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di assopimento, di letargo, di {certe} ebbrietà, {#1. V. la pag. 3835. seg. e 3846. fine-8.} nell'accesso e recesso del sonno, e in simili stati in cui la proporzione, la somma, la forza del pensare, l'esercizio del pensiero, la libertà e la facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita, scarsa ec. l'uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la forza, {la} somma di questo, è minore; e perciò l'uomo è proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell'azione della mente ch'è inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata  3843 al grado di questo sentimento, tanto, e sempre proporzionato al di lei grado, si stende il desiderio dell'uomo e del vivente, e l'azione del desiderare. Ogni atto {libero} della mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo un desiderio {attuale,} perchè tutti cotali atti e pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall'uomo in quel punto è desiderato in proporzione dell'intensità ec. di quell'atto o pensiero, e tutti cotali fini spettano alla felicità che l'uomo {e il vivente} per sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera e non può non desiderare. (6. Nov. 1823.).

[3846,2]  Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, {Puoi vedere p. 3835. seg.; p. 3842. seg.} e sempre attualmente,  3847 cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi, quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in ciascuno istante ch'egli ama {attualmente} se stesso, egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale, ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come s'è spiegato altrove pp. 165. sgg. pp. 1017-18, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli è {necessariamente} infelice, perciò appunto ch'ei desidera inutilmente, esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un desiderio non soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E tanto più infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d'infelicità; non è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva altrimenti che non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente di esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch'ei sente di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, {+e a questa conclusione.} Una specie di  3848 viventi rispetto all'altra {o all'altre generalmente ec.,} è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno dell'altra ella sente l'esistenza, cioè quanto men vive {e più si accosta ai generi non animali.} (Dunque la specie de' polipi, {+zoofiti ec.} è la più felice delle viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi la più felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, {debolezza non penosa,} ec. negl'istanti che precedono il sonno o il risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser felice; meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice. Quindi l'uomo {e il vivente} è anche tanto meno infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove pp. 172-73 pp. 1584-86. O distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai aver gli animali. (7. Nov. 1823.).

[3854,2]  Quello che noi chiamiamo spirito nei caratteri, nelle maniere, ne' moti ed atti, nelle parole, ne' motti, ne' discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili ec. ci piace, e ciò a tutti, perch'egli è vita, e desta sensazioni vive sotto qualche rispetto, {+o desta sensazioni {qualunque,} e molte, e spesse, il che è cosa viva, perchè il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama anche vivacità ec. o semplicemente, o vivacità di spirito, di carattere, stile, modi ec. ec..} Il suo contrario in certo modo è morte, e non desta sensazioni, o poche, leggere,  3855 non rapide, non varie, non rapidamente succedentisi e variantisi, il che è cosa morta. Noi lo chiamiamo spirito perchè siamo soliti di considerar la vita come cosa immateriale, e appartenente a cose non materiali, e di chiamare spirito ciò ch'è vivo e vive e cagiona la vita ec.; e la materia siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva per se, nè capace di vita ec. (10. Nov. ottava del dì de' Morti. 1823.).

[3876,1]  Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}} quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo  3877 della indifferenza e quiete {e ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, {+e fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione  3878 piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.} rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle {universali e grandi} verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.).

[3879,1]  Alla p. 3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l'avvicinano all'infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli  3880 alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso, è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione, {#1. Se non {in} quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentemente che agli altri per molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.} più viva d'essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell'altre età, è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto p. 3835.-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia per sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.).

[3895,1]  Il sonno e tutto quello che induce il sonno, {ec.} è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec pp. 172-73. Non c'è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che il non sentirla. (20. Nov. 1823.).

[3909,2]  Alla p. 3310. Quanto influisca sempre l'immaginazione, l'opinione, la prevenzione ec. sull'amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare ha forza sull'amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale verso gl'individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a rendere poco noto all'amante l'oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò moltissimo contribuisce all'amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che ha relazione ai pregi {+o alle qualità comunque amabili} dell'animo nell'oggetto amabile, e in particolare un certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l'animo e le sue qualità, e massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all'altre persone, e dan luogo in queste all'immaginare, ai concetti vaghi e indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al natural desiderio che porta l'individuo dell'un sesso verso quello dell'altro, danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente  3910 il piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all'animo dell'oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito, e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell'incerto, e che promettano o dimostrino {+altre lor parti o} altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico, congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale dell'oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.

[3921,1]   3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382 pp. 2410-14 pp. 2736-39 pp. 3291. sgg. pp. 3835-36 p. 3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione {o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e di poter fortemente divertire l'operazione {interna} dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre  3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole. Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere; o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.

[3952,1]   3952 Dal detto altrove pp. 109-11 pp. 1234-36 pp. 1701-706 circa le idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell'effetto, massimamente poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico, infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova. Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici {ec.} di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose, variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle parole e dello stile che n'è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze ec. e questa similitudine è molto a proposito.

[4021,7]  Piacere della vita. Una statua, una pittura ec. con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchè non bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi {a se,} ancorchè in un[una] galleria d'altre mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che tutte queste altre, s'elle sono di atto riposato ec., sieno pure perfettissime. E in parità di perfezione, quella, anche in seguito, ci diletta più di queste.  4022 Così non la pensa la Staël nella Corinna dove pretende che sia debito e proprio della pittura e scultura il riposo delle figure, ma s'inganna, testimonio l'esperienza. ec. ec. (24. Gen. 1824.).

[4043,2]  Nè la occupazione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l'uomo occupato o divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento e nel piacere, ch'è l'unico bene dell'uomo? Ciò vuol dire che la vita è per se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male particolare. Il sentir meno la vita, e l'abbreviarne l'apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d'infelicità, che l'uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l'annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare, (anzi l'idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all'individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec. (8. Marzo. 1824.). {{V. p. 4074.}}

[4060,1]  L'uomo (per l'amor della vita) ama naturalmente e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purchè sia vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere senza positivo diletto, nè sensazione indifferente  4061 veramente). {} Ιl sentire dispiacevolmente {come} il non sentire sono cose assolutamente penose per lui. E talora è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazion di sensazioni. Se l'uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in se) è piacevole all'uomo per se stesso e qualunque ei sia. Dunque l'uomo proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella sensazione, benchè d'altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito, quindi perfetto, quindi l'uomo ne saria pago, quindi felice.

[4103,6]  Il est aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque * (celle du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts; et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité contre elle - même. * Thomas Essai sur les Femmes. Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4. p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista. 1824.).

[4126,3]  Dalla mia teoria del piacere séguita che l'uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente maggior piacere, perocchè egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere infinito. E che l'uomo in ciascuno istante della sua vita pensante e sentita desidera infinitamente di più {o di meglio} di ciò ch'egli ha. (12. Marzo. 1825.).

[4127,9]  D. Le plaisir est-il l'objet principal et immédiate[immédiat] de notre existence, comme l'ont dit quelques philosophes? R. Non: il ne l'est pas plus que la douleur; le plaisir est un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement à mourir. D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits palpables: l'un, que le plaisir, s'il est pris au-delà du besoin, conduit à la destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de manger ou de boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L'autre,  4128 que la douleur conduit quelquefois à la conservation: par exemple un homme qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la douleur, et c'est afin de ne pas périr tout entier. * Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen français, chap. 3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou Méditation sur les Révolutions des Empires, par le même auteur, 4.me édition. Paris 1808. p. 359-360. Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell'esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine naturale dell'uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare l'esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell'esistenza generale, e di quell'ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi, non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione  4129 la somma e intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell'ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse. Un'altra contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e per natura universale, infelici (essere - infelicità, cose contraddittorie), si è da me dichiarata altrove pp. 4099-4100.

[4133,2]  Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che l'essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta, e l'ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l'ordine {eterno} del loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrant dello universo. Poichè essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all'ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa loro necessità è un'imperfezione della natura, e dell'ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d'una menoma parte della  4134 natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamato[chiamata] un'imperfezione. Almeno ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura {universale} nell'ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perchè grande per valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all'andamento del mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, {+e tanto più sempre, quanto più sensibili.} Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà {e dignità} nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose. (9. Aprile. Sabato in Albis. 1825.). {{V. p. 4137.}}

[4185,2]  Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività, l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l'una  4186 che l'altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl'individui {animali} meno sensibili, {men vivi} per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le nazioni d'europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio e[è] impossibile. Intanto dallo  4187 sviluppo e dalla vita del loro animo, segue {una} maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l'uomo è incivilito. - Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P. e. il più felice italiano è quello che per natura {e per abito} è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all'attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di europa, {+agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini {sempre} più attivi e più occupati,} gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività {+e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi}), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile  4188 per la felicità umana. (Bologna 13. Luglio 1826.).

[4191,5]  Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso {stato si} sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa  4192 sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci {d'altronde} di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perchè il suo amor proprio non cesserà, e perchè quel bene, {per grande che sia,} sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, (30. Agosto. 1826. Bologna.) {{nè in questo mondo, nè in un altro.}}

[4228,1]   4228 Molto impropriamente la questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell'uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se medesimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto. Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè poi non si possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere perfetto, niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual natura sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la voluttà del corpo, o altre cose tali, possano proccurare all'uomo il piacere perfetto; o qual di loro più; o in somma donde possa o debba l'uomo conseguire il piacer perfetto che egli desidera, e che è il suo fine, questo può ben cadere e cade in questione; ma tal questione è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il mezzo s'ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci possa o debba dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è un'immaginazione, come lo è questo piacer perfetto esso stesso, quanto alla sua natura; e che infine l'uomo sa e saprà ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioè che mezzo che cosa possa soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioè che cosa sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua felicità. (Recanati. 28. Nov. 1826.).

[4286,6]  Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava  4287 sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). {{Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.}}

[3876,1]  Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}} quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo  3877 della indifferenza e quiete {e ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, {+e fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione  3878 piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.} rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle {universali e grandi} verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.).

[4074,1]   4074 {Alla p. 4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente} priva del suo sommo e naturale  4075 bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}

[4266,1]  In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi. {+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata  4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a disperare {omai} del piacere. (30. Marzo. 1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei.}}

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Suicidio. (danno) (1)
Suicidio. (1827) (1)
Quello stato che non si può migliorare, ancorchè fortunatissimo, è infelicissimo. Detto di . (danno) (1)
necessaria a goder della vita. (1827) (1)
Mali. Utilità e ragione dei mali in natura. (1827) (2)
Stile. Può esso solo costituir poesia; e per avere semplicemente stile poetico, bisogna essere vero poeta. (1827) (4)
Metafore. (1827) (1)
Uomo, se sia la più perfetta creatura terrestre. (1827) (3)
Uomini di gran talento. (1827) (1)
Perfettibilità o Perfezione umana. (1827) (2)
Lirica. (1827) (1)
Imitazion della passione e dell'azione nelle arti belle. (1827) (1)
Idilli. (1827) (1)
Precisione e Chiarezza e Proprietà nelle parole. (1827) (1)
Frequentativi e diminutivi ec. latini. (1827) (1)
Sventure. (1827) (1)
Cristianesimo, ha peggiorato i costumi. (1827) (2)
Diminutivi usati come positivi. (1827) (1)
Osservazioni metafisiche sull'essenza e sull'amor della vita. (1827) (1)
Giuochi greci e Giuochi romani. (1827) (1)
Felicità, è sempre altrui, e non mai di nessuno. (1827) (1)
non dispiacevole ne' deboli. (1827) (1)
Egoismo. (1827) (2)
Donne. (1827) (1)
Rendono la felicità più dolce. (1827) (1)
Delicatezza delle forme. (1827) (1)
Compassione. (1827) (1)
La somma della vita è uguale ne' μακροβιότατοι e ne' βραχυβιότατοι degli animali. (1827) (1)
Idea della durazione del tempo, quanto relativa e varia. (1827) (1)
Tempo. Uso del tempo. (1827) (1)
Armonie della Natura. (1827) (2)
Felicità che l'uomo desidera, qual sia. (1827) (2)
Come stabilito: suo carattere, suoi effetti ec. ec. (1827) (2)
Compassione verso le bestie. (1827) (1)
non si può ottenere, specialmente dalle persone d'immaginazione, se non colla occupazione esteriore: più la vita è tranquilla materialmente, più è inquieta moralmente. (1827) (1)