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5. Luglio 1822.

[2549,1]  La quistione se il suicidio giovi o non giovi all'uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa,  2550 immutabile e perpetua che l'uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove [pp. 532-35] [pp. 646-50], il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev'essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev'esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors'anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, {+(giacchè la natura e l'amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c'è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere)} ma il godere essendo impossibile all'uomo, resta escluso necessariamente e per natura  2551 da tutta la quistione. E si conchiude ch'essendo all'uomo più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l'assoluto non essere giova e conviene all'uomo più dell'essere. E che l'essere nuoce precisamente all'uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl'istanti della nostra vita, in ciascuno de' quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll'intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell'amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch'egli fa considerandole sotto l'aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze.
[2552,1]   2552 Che poi l'uomo debba esser certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e dolori accidentali che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l'uomo dev'esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocchè l'assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella teoria del piacere): perocchè l'uomo e  2553 il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l'infelicità non v'è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell'animale. Non ottenendolo, l'animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti, nei quali desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre, non l'ottiene e n'è privo, come lo è sempre. E però l'uomo dev'esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E tutta la vita è veramente, per {propria} natura immutabile, un tessuto di patimenti necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento.
[2553,1]  Di più l'uomo dev'esser certo di provare in vita sua più o meno, maggiori  2554 o minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si chiamano mali, dolori, sventure, o che provengono dai vari desiderii dell'uomo ec. E quando anche questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma parte della sua vita, (com'è certo che ne comporranno la massima), essendo egli d'altra parte certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione ritorna a' suoi primi termini, cioè se essendo meglio il non patire che il patire, e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non vivere. Un solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita, non avendo per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che l'essere noccia all'esistente, e che il non essere sia preferibile all'essere.
[2554,1]  Tutto questo essendo applicabile ad  2555 ogni genere di viventi in qualunque loro condizione (niuno de' quali può esser felice, e quindi non essere infelice, e non patire) e d'altronde {+posando sopra principii {e fondamenti} quanto profondi altrettanto certissimi, e immobili, ed} essendo esattissimamente ragionato {e dedotto,} e strettamente conseguente, serva a far conoscere la distruttiva natura della semplice ragione, {della metafisica,} e della dialettica, in virtù delle quali tutto il mondo vivente, dovrebb'esser perito, per volontà e per opera propria, poco dopo il suo nascere. (5. Luglio 1822.)