Febbraio o Marzo, 1818.
[15,1] Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore N. 91.
le
Osservaz. di Lod. di
Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo
chiamare, e perchè ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbrogliare e
inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose
credute indubitabili, però avendo nella mente le risposte che a quei
ragionamenti si possono e debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole lo
scrittore (come tutti i romantici) che la poesia moderna sia fondata sull'ideale
che egli chiama patetico e più comunemente si dice sentimentale, e distingue con
ragione il patetico dal malinconico, essendo il patetico, com'egli dice, quella
profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo
dell'impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p. e. la campana
del luogo natio, (così dic'egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una
torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia tra
la poesia moderna e l'antica, chè gli antichi non provavano questi sentimenti, o
molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in
questo superiori agli antichi, e siccome in
questo, secondo lui consiste veramente la poesia, {però} noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa è
la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per non parlare dei romantici,
che forse anche in qualche cosa differiscono ec. {E questo
patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo
chiamare sensitività.}) Or dunque bisogna eccitare questo patetico,
questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com'è naturale, consisterà la
somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec. ec.
scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli uomini? La
natura, purissima, tal qual'è, tal quale la vedevano gli antichi: le
circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta, ma venute
spontaneamente: quell'albero, quell'uccello, quel canto, quell'edifizio, quella
selva, quel monte,
16 tutto da per se, senz'artifizio, e
senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi
sentimenti, nè ch'altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun'arte ec.
ec. In somma questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza
insita in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi
sentimenti. Ora che faceano gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la
natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza
questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li
vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè, ci pare di vederli, per
quanto è possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei
sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano
egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro
vero lume, e coll'arte sua ci ha preparati a riceverne quell'impressione,
dovechè in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in
vederli spessissimo non ci si bada, (qui cade la gran facoltà delle arti
imitative di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti
comuni, vale a dire così imitati, che si considerino nella poesia, dovechè nella
realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni ec. ec. che
nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec. come il Gravina nella ragion
poet.) e bisogna poi perchè producano quei tali sentimenti
andarli a prendere pel loro verso: ed ecco ottenuto dagli antichi il
grand'effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono e
ci sublimano e c'immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e tutti i
secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro, ne sono
testimoni. Ma che? quando questi poeti, imitavano così la natura, e preparavano
questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano, o non
dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano quel che
vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato della
poesia antica, per cui, non è {più} poesia, e i moderni
vincono a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se
questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per
destarli bisogna imitare la nuda natura, e quei
semplici e innocenti oggetti, che per loro propria forza,
inconsapevoli producono nel nostro animo quegli effetti, {bisogna} trasportarli come sono nè più nè meno nella
poesia, e {che} così bene e divinamente imitati,
aggiuntaci la maraviglia e l'attenzione alle minute parti loro, che nella realtà
non si notavano, e nella imitazione si notano, è forza che destino in noi questi
stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro
non ci sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto più parla in
persona propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa già notata
da Aristotele, al quale volendo o non
volendo senz'avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è prodotto dal
sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la
natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata
gli antichi, onde una similitudine d'Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un'ode d'Anacreonte, vi destano una folla di
fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che cento mila
versi sentimentali; perchè quivi parla la natura, e qui parla il poeta: e non si
17 avvedono che appunto questo grand'ideale dei tempi
nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analizzarne,
prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest'arte
insomma psicologica, distrugge l'illusione senza cui non ci sarà poesia in
sempeterno[sempiterno], distrugge la
grandezza dell'animo e delle azioni; (v. quel che ho detto in altro pensiero
[[p. 14]]) e che mentre l'uomo (preso in
grande) si allontana da quella puerizia, in cui tutto è singolare e
maraviglioso, in cui l'immaginazione par che non abbia confini, da quella
puerizia che così era propria del mondo a tempo degli antichi, come è propria di
ciascun uomo {al suo tempo}, perde la capacità di esser
sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per una cosa che
conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche palpita (perchè il cuor nostro non è cangiato ma la mente
sola), questa benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo
palpito, e svanisce ogn'ispirazione, svanisce ogni poesia; e non si avvedono che
s'è perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro
che l'invecchiamento dell'animo nostro, e non ci permette più di parlare se non
con arte, e che quella santa semplicità, che dalla natura non può sparire perchè
la natura coll'uomo non invecchia, e la qual sola ci può destare quei veri e
dolci sentimenti che andiamo cercando, non è più propria di noi come era propria
degli antichi, e che però per parlare come questa semplicità parla, e come
insegna la natura, e destare quei sentimenti che la sola natura può destare, è
forza in questo tristissimo secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi
stessi, e vediamo come parlavano gli antichi che erano ancora fanciulli, e con
occhi non maliziosi nè curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa
natura e la dipingevano: e insomma non si avvedono che essi amici della natura
sola, vengono in effetto a predicar l'arte, e noi amici dell'arte veniamo
verissimamente a predicar la natura. Qui cadrebbe in acconcio il discorrere
dell'affettazione che è il vizio generale nelle arti {belle,} e abbraccia quasi tutti i vizi, e come il sentimentale sia
facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo invece di destare quei
sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel {tale} oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e
come questi sentimenti sieno d'infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che
fa il Breme la poesia moderna al solo
patetico (distinguetelo pur quanto volete dal malinconico come di sopra ho
detto), quasi che il sublime, l'impetuoso, l'esultante, il giubilante (so bene
che anche la gioja può esser patetica, ma non nei casi ch'io dico) il grazioso
disinvolto e insomma {quasi} tutta la poesia degli
antichi, l'epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di trionfo, le
descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non
paresse più tale, o almeno (non si sa poi perchè, quando non si ammettano le due
cose precedenti) dai moderni non dovesse più esser coltivata; come non deve
parere una pazzia difficile a credere che sia caduta in testa d'un uomo savio?
Dunque Virgilio non è poeta altro che
nel quarto dell'Eneide, e nell'episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? dunque
18 non ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in uno stesso
componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? {(E dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole
antiche.)} Ma che? abbiamo mutato natura affatto? non c'è più gioia se
non mezzo malinconica, non c'è più ira, non c'è più grandezza e altezza di
pensieri, senza quel condimento di patetico ec. ec.? {(E se
la poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, nè deve imitare una
cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran
caso della natura e del fine della poesia che consiste in dilettare col
mezzo della maraviglia prodotta dall'imitazione ec.)} Ma queste son
follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti
del Breme ci si
scopre una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale così del suo
sistema come del romantico. Da principio dice che gli antichi credevano tutto e
si persuadevano di mille pazzie, che l'ignoranza il timore i pregiudizi e
somministravano allora gran materia alla loro poesia, e non possono più
somministrarne ai tempi nostri; insomma evidentemente par che venga a
conchiudere, che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole, e in proporzione
coi lumi dell'età nostra, e in fatti dice che ce la debbono somministrare la
religione, la filosofia, le leggi di società ec. ec. E così dicono i romantici.
Ma se così è, ecco l'illusione sparita, e se il poeta non può illudere non è più
poeta, è una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole ec.
ec. E i romantici, non che facciano la poesia ragionevole, vanno in cerca di
mille superstizioni e delle più pazze cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l'immaginazione
anche al presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita ec.
e anche
sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose al tutto
arbitrarie nè lontane da quel vero ec. In queste
parole e specialmente in quell'anche e in quell'al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente
l'angustia del metafisico, che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e
piegare, cerca di rimediarci colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la
nostra immaginazione ha bisogno d'esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma
il Breme senza nessuna dubitazione in
parecchi altri luoghi) il vostro ragionamento va tutto a terra:
pchè[perchè] quando uno di noi si mette a
leggere una poesia sapendo di dover esser sedotto e desiderando di esserlo,
tanto crede al più falso quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto agli spettri del Bürger quanto all'inferno dell'Odissea e dell'Eneide; e quel dire
che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie
è una miseria, quasi che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di
tanto solo, e non più, e l'intelletto nostro nel mezzo della lettura {e dell'inganno della fantasia} non comprendesse
egualmente la falsità delle invenzioni del Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto
sta se l'immaginazione nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se
sì tutti i vostri ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta
deve pensare a sedurre come crede meglio, e s'egli non sa sedurre, la colpa è
sua, e non del genere che ha scelto. Un'altra svista del Breme (e probabilmente di tutti i suoi settari) è
dove parlando della mitologia greca, dice che la natura è vita, che la fantasia
umana e la poesia si compiace in immaginare che tutto viva, cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare
19 questa sorgente della poesia moderna che consiste
in non guardare nessuna cosa con noncuranza, in attribuir
senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le
possibili forme, in avvivare insomma la natura col mezzo d'idee poeticamente analoghe. ecc. ecc. Dunque non solo
concede che la natura si avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di
contrapporre questo sistema vitale al mitologico ec. e
per esempio di questo avvivamento diverso da quello che faceano i mitologi, si
serve di un passo di Lord Byron dove attribuisce sospiri fragranti alla rosa innamorata. Ma che? non
vuole che si avvivi la natura così individualmente, diremo, e mediatamente, come
i mitologi faceano, personificando affetti e numi e piante ec. ma la natura
immediatamente, senza convertirla in individui, e riconoscendo vita sotto tutte le forme e non esclusivamente
sotto l'umana, in somma che tutto sia animato
e sensitivo, non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il Breme, non si avvedono i romantici che
questi che debbono avvivare la natura, questi poeti, son uomini, e non possono
naturalmente e per intimo impulso concepir vita nelle cose, se non umana, e che
questo dare agli oggetti inanimati, agli Dei, e fino ai propri affetti, pensieri
e forme e affetti umani, è così naturale all'uomo che per levargli questo vizio
bisognerebbe rifarlo; non si avvede che il suppor vita nelle cose p. e.
inanimate diversa dalla nostra, ripugna di maniera al nostro istinto e alla
nostra natura, che appartiene appuntino a quello che si chiama cattivo gusto, al
gusto che si chiama gotico, che si chiama cinese; che il poeta non deve seguir
nè la ragione nè la metafisica (posto pur che la ragione ami meglio nelle cose
che non vivono, una vita diversa dalla nostra che
uguale, e così discorrete degli Dei ec.), ma la natura e l'istinto, e che per
quanto si può argomentare da questo istinto, il cavallo p. e. se avesse ragione
e immaginativa, attribuirebbe a Dio, (il cavallo sarebbe allora ragionevole,
onde nessuno si scandalizzi di quel che dirò) e alle cose inanimate ec. ec. la
figura e gli affetti e i pensieri del cavallo, e così gli altri animali; (e
questo pensiero non è mio ma dell'antico Senofane, perchè molte cose son vecchie che si credono nuove, e molta
sapienza è antica alla quale si crede che quei cervelli non arrivassero) non si
avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del poeta non
è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa rosa viva, e non
viva come noi, se è possibile al metafisico, e[è] impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono
mica i metafisici ma il volgo; e non si avvede che lo stesso lord Byron non ha saputo alla sua rosa e tutti i
romantici non sapranno in eterno a nessunissima cosa dare altri affetti o sensi
che umani, {perchè} diversi affetti o sensi appena ci
sappiamo persuadere che ci possano essere, non che possiamo immaginarci quali
siano. ec. ec. Quanto all'arte di poetare e di scrivere che il Breme pare che disprezzi per la
maggior parte, mi sbrigo in due parole. Questo imitar la natura questo destare i
sentimenti che voi altri volete, è facile o difficile? ognuno che li sente è
sicuro purchè si metta a scrivere di comunicarli subito agli altri, o no? Se sì,
me ne rallegro, e avrò piacere di vederne l'esperimento; se no, se questa cosa è
tra le difficili difficilissima,
20 se quand'uno ha
concepito, non ha fatto appena metà del cammino, se mille e centomila che
provando affetti e sentendo vivamente, hanno scritto, non sono riusciti a
muovere negli altri gli stessi affetti, e non si leggono da nessuno, se infiniti
esempi e ragioni provano quanta sia la forza dello stile, e come una stessa
immagine esposta da un poeta di vaglia faccia grand'effetto, e da un inferiore
nessuno, se Virgilio senz'arte non
sarebbe stato Virgilio, se in poesia un
bel corpo con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile {ordine, scelta ec.} non si soffrono e non si leggono e
sono condannati non mica dai pregiudizi ma dal tempo giudice incorrotto e
inappellabile, se colla proprietà eleganza nobiltà ec. ec. ec. delle parole e
della lingua e delle idee, colla scelta
coll'ordine colla collocazione ec. ec. infinite necessarissime doti si
procacciano alla poesia; c'è bisogno dell'arte, e di grandissimo studio
dell'arte, in questo nostro tempo massimamente, per le ragioni che più volte in
questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i grandi scrittori quelli che
tutto il mondo venera, quelli così infinitamente superiori ai pregiudizi, quelli
finalmente i quali se non sono veramente ed eternamente grandi, non c'è più cosa
grande nè speranza di diventar grande, noi vediamo che Cicerone (e l'eloquenza è cosa molto simile alla
poesia) studiò profondissimamente l'arte sua e la sua lingua e la gramatica e
gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto questo studio non
diventò già un uomo da nulla nè un pedante nè un imitatore e che so io, ma
diventò un Cicerone: e se Cicerone
{come scrittore e oratore,} o signor Breme, non vi quadra, come nè anche Pindaro nè Orazio, vi do subito la buona notte, e mi dispiace di
non averlo saputo prima. (E già di sopra s'è osservato che il primitivo bisogna
impararlo dagli antichi.)
[20,1] Non si ricorda il Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia, dico, che
i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano,
così nelle arti e nei mestieri come nelle cose usuali della vita, e così in
tutto. E così chi sente e vuol esprimere i moti del suo cuore ec. l'ultima cosa
a cui arriva è la semplicità, e la naturalezza, e la prima cosa è l'artifizio e
l'affettazione, e chi non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro
dicono è immune dai pregiudizi dell'arte, è innocente ec. non iscrive mica con
semplicità, ma tutto all'opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime
volte si mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza,
che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per
contrario non ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze
benchè grossolane, e quella semplicità che v'è, non è semplicità ma
fanciullaggine: così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per un certo
verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con quella di Anacreonte che pare il non plus ultra,
e vedete se vi pare che si possa pur chiamare semplicità. Onde il fine dell'arte
che costoro riprovano, non è mica l'arte, ma la natura, e il sommo dell'arte è
la naturalezza e il nasconder l'arte, che i principianti, o gl'ignoranti non
sanno nascondere, benchè n'hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e
tanto fa più stomaco quanto è più rozza: e i nove anni d'Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli
artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli
accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine
di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici,
contraddicendo a se stessi; che mentre
21 bestemmiano
l'arte e predicano la natura, non s'accorgono che la minor arte è minor
natura.
[21,1] Non solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a
perfezione la natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza {anzi non imita la nat.[natura] chi non la imita con naturalezza.} Però Ovidio che senza naturalezza la dipinge,
cioè va tanto dietro a quegli oggetti, che finalmente ce li presenta, e ce li fa
anche vedere e toccare e sentire, ma dopo infinito stento suo, (così che a lui
bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina) e con una più tosto pertinacia
ch'efficacia; presto sazia, e inoltre non è molto piacevole, perchè non sa
nasconder l'arte, e con quel tanto aggirarsi {intorno}
agli oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e incontentabilità, ma
anche perchè egli senza molti tratti non ci sa subito disegnar la figura, e se
non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la diligenza, e la diligenza
nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di
vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che
vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte,
questa è quella che vediamo nell'Ariosto, Petrarca ec. questa
è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni, questa
è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e nelle poesie {moderne} de' francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; chè
questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il
poeta che parla ec.
[21,2] In Ovidio si
vede in somma che vuol dipingere, e far quello che colle parole è così
difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante nò: pare che voglia raccontare e
far quello che colle parole è facile ed è l'uso ordinario delle parole, e
dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa
circostanziola e quell'altra, e alzava la mano e la
stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno i romantici
descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi, così anche
prose ec. tanto in voga ultimamente) insomma in lui c'è la negligenza, in Ovidio no.