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1. Giugno. Domenica. 1823.

[2736,1]  È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè ne' giovani è  2737 più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome  2738 sono, massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[2738,1]  Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le ragioni sopraddette. Ora esso è l'effetto proprio del moderno modo di vivere, e il carattere che lo distingue dall'antico, e quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo di carattere essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da concepirsi agli  2739 antichi, gl'ispirò il René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la moderna è più conducente alla felicità, ovvero qual delle due sia meno conducente all'infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare intorno a questa religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova ad ogni passo che le sue {+più fine, profonde, {nuove} {e vere}} osservazioni e i suoi argomenti intorno al Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al carattere e spirito dell'uomo Cristiano, o moderno e civile, provano dirittamente il contrario di quello ch'egli si propone. {+E può dirsi che ogni volta ch'egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la fortificano, e somministra {nuove} armi ai suoi propri avversari, credendosi di combatterli.} (1. Giugno. Domenica. 1823.). {{V. p. 2752.}}