4. Giugno 1823.
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Alla p. 2739.
fine. In primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore,
o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione
{e torpore} di esso sentimento cagionato dal
freddo, e del contrasto fra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e
l'abitudine contratta nell'inverno. Questo accrescimento di vita
2753 (chiamiamolo così) è comune in quella stagione,
come alle piante e agli animali, così agli uomini, e massime agli individui
giovani, sì delle predette specie, come dell'umana. Ora indubitatamente non è
alcuno, se non altro de' giovani, che in quella stagione non sia più malcontento
del suo stato {e di se,} che negli altri tempi
dell'anno (parlando astrattamente e generalmente, senza relazione alle
circostanze particolari, o vogliamo dire, in parità di circostanze). Tanto è
vero che il sentimento dell'infelicità si accresce o si scema in proporzione
diretta del sentimento della vita, e che l'aumento di questo è inseparabile
dall'aumento di quello. (4. Giugno 1823.). {+V. p. 2926.
fine.} Così una sventura particolare opera maggior
effetto e più dolorosa impressione in un temperamento forte e vivo, e lo abbatte
di più che non un temperamento debole, contro quello che parrebbe dovesse
essere, {+e che il volgo crede e
dice.} E la causa di ciò, non è, come si suol dire, la
maggior resistenza che un temperamento
2754 forte
oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior grado di vita, e quindi la
maggiore intensità di amor proprio e {il maggior}
desiderio di felicità, che nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la
rassegnazione, o piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore. Se il
dolore faceva quasi una strage nell'uomo antico, siccome fa nel selvaggio; se
gli antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura fino alle smanie
e al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al deliquio, al totale
spossamento di forze, al deperimento della salute, all'infermità, alla morte o
volontaria o naturale, ciò non proveniva, come si dice, dal non essere
assuefatti al dolore. Qual è l'uomo vivo che non sia accostumato a soffrire? Ma
proveniva dal maggior vigore di corpo ch'era negli antichi ed è ne' selvaggi, a
paragone de' moderni e civili. E forse questa, più che la minore assuefazione, è
la causa che i giovani siano più sensibili
2755 alle
sventure e più suscettibili di dolore che i vecchi; o certo questa n'è in
grandissima parte la causa. Massimamente osservando che questa differenza si
trova anche fra giovani assuefatissimi[assuefattissimi] alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di
quanto convenga patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto
ogni cosa a lor modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia la
più felice abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini (4.
Giugno 1823.).