Manuale di filosofia pratica.
Handbook of practical philosophy.
65,1 76,1.3 172,1 248,1 255,1 255,2 268,1 298-9 302,4 112,3 303,1 304,1 304,2 345,1 351,2 369,1 460,1 461,1 324,4 496,2 532,1 191,3 614,1.2 618,1.2 633,1 636,1 V. Esercizi del corpo, Vigore corporale, Vino ec. See Body Exercises, Bodily Vigor, Wine 666,2 678,3 684,2 717,3 1075,2 43,2 1085,1 1328,1 1400,1 V. Consolazione ec. See Consolation, etc. 1464,1 1573,1 1580,1 1583,2 1651,1 1653,1 1655,1 1792,1 1862,1 1866,2 1988,3 1998,1 2017,3 V. Rassegnazione, Disperazione. See Resignation, Desperation 2451,1 2493,1 2495,1 2526,1 2599,1 2661,1 2673,3 2683,3 2702,1 4041,7 4160,10 4167,12 4185,2 4188,8 4190,3 4194,1 4201,10 4239,5 4243,8 4249,5 4254,4 4259,5 4266,1 4274,2 4281,3 4286,6[65,1] Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una
cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere, non piangere che a ogni modo ce l'avrei
gittata io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l'avrebbe
perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a
quell'altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci
persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè quel male di
schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati,
quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. {{v. p.
188.}}
{{v. a questo proposito il Manuale di Epitteto.}}
[172,1] Da questa teoria del
piacere deducete che la grandezza anche delle cose non piacevoli per
se stesse, diviene un piacere per questo solo ch'è grandezza. E non attribuite
questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura. Posta la detta
teoria, si viene a conoscere (quello ch'è veramente) che il desiderio del
piacere diviene una pena, e una specie {di travaglio}
abituale dell'anima. Quindi 1. un assopimento dell'anima è piacevole. I turchi
se lo proccurano coll'oppio, ed è grato all'anima perchè in quei momenti non è
affannata dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e
impossibile a soddisfar pienamente; {un intervallo come il
sonno nel quale se ben l'anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se
n'avvede.} 2. la vita continuamente occupata è la più felice, quando
anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L'animo occupato è
distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a
quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro {il
provvedere ai suoi bisogni ordinari ec.} ec. ec.) giacchè li considera
allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l'anima desidera), e
conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e
non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza
di quei
173 piccoli fini, e i {piccoli} disegni sulle occupazioni {avvenire} o sulle speranze di un esito {generale} lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e a trattenerlo
nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè sottentri la noia;
oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se. Questa dovea esser la vita
dell'uomo, ed era quella dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, {degli agricoltori ec.} e gli animali non per altra
cagione se non per questa principalmente, vivono felici. Ed osservate come lo
spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica, sembri anche oggidì, a chi
vive nel mondo, lo spettacolo della felicità, anche per la mancanza dei dolori,
e delle cure e afflizioni reali. 3. il maraviglioso, lo straordinario è
piacevole, quantunque la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe
delle cose piacevoli. L'anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non
sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere {rispetto a lei} assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere,
perchè una tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore
cagionato dall'oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi),
così quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità.
Quando anche la maraviglia non sia tanta che riempia l'anima, se non altro
l'occupa sempre fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la
natura aveva voluto che la maraviglia {1.} fosse cosa
ordinarissima all'uomo, 2. fosse {spessissimo} intera,
cioè capace di riempier tutta l'anima. Così accade ne' fanciulli, e accadeva ne'
primitivi, e ora negl'ignoranti, ma non può accadere senza l'ignoranza, e
l'ignoranza d'oggi non può mai esser come quella dell'uomo che non vive in
società, perchè vivendo in società,
174 l'esperienza de'
passati e de' presenti l'istruisce, più o meno, ma sempre l'istruisce, e la
novità diventa rara. 4. anche l'immagine del dolore e delle cose terribili ec. è
piacevole, come ne' drammi e poesie d'ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l'uomo
non tema o non si dolga per se, la forza della distrazione gli è sempre
piacevole. Non è bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in
questo caso cadrebbero sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine
del dolore ec. è sufficiente a riempier l'animo e distrarlo. 5. la grandezza di
ogni qualsivoglia genere (eccetto del proprio {male}) è
piacevole. Naturalmente il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la
piccolezza è straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria.
Questo ch'io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla
inclinazione dell'uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si
potrebbe forse dir lo stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal bello ch'è
piacevole all'uomo per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza
del piacere che è l'elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga
dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell'uomo al piacere sotto
qualunque forma, la noia, quest'affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto
abborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l'uomo dovrebbe sentirsi
male, quando non ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna
occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor
positivo, o annoiato
175 dalla uniformità di una cosa
non penosa nè dispiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo quest'uomo
deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque
travaglio a quello stato. (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici
consultati dal duca di Brancas, se la
noia potesse uccidere: Lady Morgan
France l. 8. notes) Non per altro se non per un
desiderio ingenito e compagno inseparabile dell'esistenza, che in quel tempo non
è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato. E la natura è
certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male, all'orrore e
ripugnanza del quale nell'uomo, si può paragonare quell'orrore del vuoto che gli
antichi fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali.
Ha provveduto col dare all'uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno
(come della fame e della sete, {freddo, caldo ec.})
porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, {colla immaginazione che l'occupa anche del nulla,} ed
anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo anch'esso
dell'amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura in
genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo o
quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e
sciolgono la noia, {colle turbazioni degli elementi,}
coi dolori e coi mali istessi, perchè è più dolce il guarir dai mali, che il
vivere senza mali; {+e con tali altri
disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti della natura,
scusandola col definirli per accidenti fuori dell'ordine; ma che forse
essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch'essi
al gran sistema universale.} In somma il sistema della natura rispetto
all'uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della
noia, che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente all'uomo moderno, è
quasi sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate come i
fanciulli {anche} in una quasi perfetta inazione, pur
di rado o {non} mai sentano
176
il vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli
tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad
ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se stessi
una sorgente inesauribile di occupazioni {e} sempre
varie. Questo senza cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz'aver veduto
udito ec. in un mondo ristrettissimo {e uniforme.} E
laddove parrebbe che quanto più questo mondo e questo campo si accresce {e diversifica,} tanto più {ampio e
vario per} l'uomo dovesse essere il fondo delle occupazioni interne
come son quelle dei fanciulli, {e la noia tanto più
rara,} nondimeno vediamo accadere tutto il contrario. Gran lezione per
chi non vuol riconoscere la natura come sorgente quasi unica di felicità, e
l'alterazione di lei, come certa cagione d'infelicità. Del resto che la forza e
fecondità dell'immaginazione 1. come rende facilissima l'azione, così
spessissimo renda facile l'inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità
della mente, la quale per lo contrario conduce all'infelicità, è manifesto per
l'esempio de' popoli meridionali, segnatamente degl'italiani, rispetto ai
settentrionali. Giacchè gl'italiani {1.} come una volta
per il loro entusiasmo figlio di un'immaginazione viva e più ricca che profonda,
erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o {almeno} non si disperano affatto di una vita sempre
uniforme, e di una perfetta inazione, è la stessa immaginazione ugualmente ricca
e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl'immerge
senza che se n'avvedano in una specie di rêve, come i
fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente inculcata dalla Staël, {laddove i
settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a
consolarli, per necessità ricorrono all'esterna, e divengono
attivissimi.} 2. la profondità della mente,
177 e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell'astratto ec.
quantunque non sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, {prontezza e penetrazione, (che rende loro più facile il
concepimento e la scoperta del vero, laddove agli altri bisogna più fatica,
e perciò spesso sbagliano con tutta la profondità)} contuttociò non è
il loro forte, e per lo contrario forma tutta l'occupazione e quindi
l'infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de' suicidi
in inghilterra) i quali non hanno cosa che li distragga
dalla considerazione del vero. E quantunque paia che l'immaginazione anche
appresso loro sia caldissima originalissima ec. tuttavia quella è piuttosto
filosofia e profondità, che immaginazione, e la loro poesia piuttosto metafisica
che poesia, venendo più dal pensiero che dalle illusioni. {E
il loro sentimentale è piuttosto disperazione che consolazione.} E la
poesia antica perciò appunto non è stata mai fatta per loro; perciò appunto
hanno gusti tutti differenti, e si compiacciono degli {enti} allegorici, delle astrazioni ec. (V. p. 154.) perciò appunto sarà sempre vero che la
nostra è propriamente la patria della poesia, e la loro quella del pensiero.
(v. p. 143-144.)
[248,1] L'occupazione {della
società,} come quella che offre la società francese, riempie veramente
la vita, la riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell'animo
come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch'era quella
dell'uomo primitivo. E la sera, l'uomo che ha passata la giornata tutta intera
nel mondo il più vivo, vario, e pieno, {e ne' divertimenti
anche meno noiosi, e che si trova anche senza cure e dispiaceri,}
ripensando alla giornata passata, e considerando la futura, non si trova di gran
lunga così contento e pieno, come colui che considera i bisogni ai quali ha
provveduto, e fa i suoi disegni sopra quelli a' quali provvederà l'indomani.
Qualche cosa di serio è necessario che formi la base della nostra occupazione
per condurci ad una certa felicità (più o meno serio, secondo gl'individui), e
se bene tutte le cose sono ugualmente importanti per se stesse, e il nostro fine
sia sempre il piacere, nondimeno il puro spasso non è mai capace di soddisfarci.
La cagione è che ci bisogna un fine dell'occupazione, uno scopo al quale mirare,
acciocchè al piacere dell'occupazione si aggiunga quello della speranza, che
bene spesso forma essa sola il piacere dell'occupazione V. gli altri miei
pensieri in questo proposito pp. 172-73.
[255,1] L'allegria bene spesso è madre di benignità e
d'indulgenza, al contrario delle cure e dei mali umori. Questa è cosa nota e
osservata, sicchè non mi fermerò a cercarne la ragione, ch'è facile a trovare.
Ma solamente considererò l'armonia della natura, la quale mirando sempre alla
felicità degli esseri, e per conseguenza l'allegria nel sistema naturale dovendo
essere la condizione più frequente della vita, ha voluto che fosse compagna
della piacevolezza verso i suoi simili, virtù somma nella società, e per
conseguenza che l'allegria fosse utile non solo all'individuo, ma anche agli
altri, e servisse alla società, e rendesse l'uomo verso altrui, tale quale
dev'essere.
[255,2] L'uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza
del mondo, si può dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare
piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè
256 mentre egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi,
i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia
genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se
stesso, com'è costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa.
Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze,
malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei
piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla
speranza dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini
e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non
istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le
concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali ch'egli
stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la {misura
della} stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch'egli
stimava, perchè sono molte più quelle cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza
vicine, di quelle che da principio noncurava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. 7.bre 1820.).
[268,1] Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in
nessuna operazione. Eccetto quelle che sono piacevoli per se stesse, e
nell'atto, (e sono ben poche, e il piacere che danno è sommamente inferiore
all'aspettazione) tutte le altre non sono dilettevoli se non fatte con uno scopo
e una speranza, e un'aspettativa
269 di cosa non
presente e che debba seguirne. Se bene molte di queste, o perchè lo scopo si
venga conseguendo a ogni tratto, come nello studio, o perchè lo scopo sia tanto
inerente e immedesimato con lei, che appena si lasci distinguere, sogliono esser
confuse colle azioni dilettevoli per se stesse, quando non dilettano se non in
quanto sono indirizzate a quel fine, e a quella speranza, tolte le quali cose
restano indifferenti o noiose, come si può vedere considerando la stessa azione
in due diversi individui.
[294,1] Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor
della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile,
e che la morte può
295 privarci di minore spazio di
tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso
ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le
vere: v. lo Spettatore di
Milano), sono, oltre quella che ho recata,
mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre.
1. Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue o
scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno gagliarda,
l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la
perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle
battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto
per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell'animo, quanto
perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione, quel movimento,
quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi.
2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente
spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille
difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano pareano
facili ad abbandonare
296 per forza di ardore di
entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono
infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano
quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della
vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero
cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor
perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio
crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di
cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano
quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si
corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era
maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in
qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero
possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la
felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno. Il vecchio per
l'assuefazione è meno suscettibile
297 di mali, e meno
sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e
dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo
nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a
desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del
vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo
la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è
penosa ma piacevole, quando s'accordi col metodo, calma, e inattività
dell'individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione
ch'egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima
o impossibile a conseguire. Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il
vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e
a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo
lo soffre con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può
non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta
delle passioni, dalla
298 dalla quale il vecchio è
libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli
stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla
sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e
che l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma
{e all'inazione}
continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la
vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale,
ma naturale. Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita
rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella par
loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale
quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei
selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della
fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura
inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe
299 penosissima. Si vedono bene spesso de' carcerati
ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione
di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l'imminenza del male,
accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata
da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di
gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male
imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e
non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri
pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non
ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima.
Anzi forse questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della
risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi.
V. p. 121. pensiero 3. e
confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23. 8.bre 1820.).
[302,4]
Une
résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame)
contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les à
la patience: c'est à elle seule à les adoucir.
*
303
La même, ibid. p. 88.
(5 Nov. 1820.)
[112,3] La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perchè
non ha nessuna apparenza d'eroico.
[303,1]
Bione Boristenite
ἐρωτηϑείς ποτε τίς
μᾶλλον ἀγωνιᾷ
*
(anxietate maiore detineatur), ἔϕη, ὁ τὰ μέγιστα βουλόμενος εὐημερεῖν
*
colui che cerca le supreme felicità. (Laerz. in Bione, l. 4. segm. 48.) Chi sa pascersi delle piccole
felicità, raccogliere nell'animo suo i piccoli piaceri che ha provato nella
giornata, dar peso presso se medesimo alle piccole fortune, facilmente passa la
vita, e se non è felice, può crederlo, e non accorgersi del contrario. Ma chi
non dà mente se non alle grandi felicità, non considera come guadagno, e non
proccura di pascersi e ruminare seco stesso i piccoli accidenti piacevoli, le
piccole riuscite, soddisfazioni, conseguimenti ec. e tiene tutto per nulla, se
non ottiene quel grande e difficile scopo che si propone; vivrà sempre
cruccioso, ansioso, senza godimenti, e in vece della gran felicità, ritroverà
una continua infelicità. Massimamente che, conseguito ancora quel grande scopo,
lo troverà molto inferiore alla speranza, come sempre accade nelle cose
lungamente desiderate e cercate. (6. Nov. 1820.). {{V. [poco sotto.]}}
[304,1]
Il faut s'arrêter et
séjourner sur les {goûts et sur les} plaisirs,
pour en jouir: il faut de repos pour le bonheur. Il n'y a point de
présent pour une âme agitée: la soif des richesses ne laisse jamais
assez de calme pour sentir ce que l'on possède.
*
(lo stesso dite
di qualunque altro desiderio difficile a conseguire, e vivissimo
tuttavia)... Ils passent leur vie en désirs et en
espérances: ainsi, ils ne vivent pas, mais ils espèrent de
vivre.
*
M.me de Lambert, Réflexions sur les richesses.
Paris 1808. à la suite des Avis d'une mère
à son fils. p. 153. 154.
[304,2] Quel detto scherzevole di un francese
Glissez, mortels, n'appuyez
pas
*
a me pare che contenga tutta la sapienza
umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della più sublime e profonda
e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla
natura, e non al nostro intelletto nè alla ragione, ma all'istinto ingenito ed
intimo, e tutti noi l'avevamo messo in pratica da
305
fanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche,
esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che
da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza
di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed
eseguivano senza sognarsi d'esser filosofi, e senza stenti nè fatiche nè
ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè la natura ci aveva già fatto
saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo; anzi
tanto più, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi
operavamo per istinto e disposizione ch'era dentro di noi, ed immedesimata colla
nostra natura, e però più certamente e immancabilmente e continuamente efficace.
Così l'apice del sapere {umano} e della filosofia
consiste a conoscere la di lei propria inutilità {se l'uomo
fosse ancora qual era da principio,} consiste a correggere i danni
ch'essa medesima ha fatti, a rimetter l'uomo in quella condizione in cui sarebbe
sempre stato, s'ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della
filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia. (7. Nov.
1820.)
[345,1] Tutte le cose vengono a noia colla durata, anche i
diletti più grandi: lo dice Omero, lo vediamo tuttogiorno. La monotonia è
insoffribile. Ma un grande e forse sommo rimedio di questo male, è lo scopo.
Quando l'uomo si
346 propone uno scopo o dell'azione, o
anche dell'inazione, trova diletto anche nelle cose non dilettevoli, anche nelle
spiacevoli, quasi anche nella stessa monotonia; e quanto alle cose dilettevoli,
l'uniformità e durata loro non nuoce al piacere di chi le dirigge a un fine. Io
non credo che per altra più capitale, universale ed intima ragione, gli studi
sieno agli studiosi come un'eccezione dalla regola generale, cioè la
continuazione di essi non pregiudichi quasi mai al piacere. Vedete tutto giorno
delle persone che non leggono per altro fine che di passare il tempo, trovar
gran diletto nelle prime pagine di un libro, e non poterne arrivare al fine
senza noia, quando anche quel libro abbia per se stesso tutti i mezzi per
dilettare in seguito come nel principio. Ma l'uniformità del diletto, senza uno
scopo, produce inevitabilmente la noia, e perciò queste tali persone che leggono
per solo divertimento, si stancano così presto, che non sanno concepire come
nella lettura si trovi tanto divertimento, e cercano del continuo di variare e
passare nauseosamente da un libro a un altro, senza trovar mai diletto in
veruno, se non lieve e passeggero. Al contrario lo studioso che della lettura si
prefigge sempre uno scopo, quando anche leggesse per ozio e passatempo. E così
tutte le altre occupazioni
347 a cui l'uomo si
affeziona, applicandoci un interesse, e uno scopo più o meno determinato, e più
o meno grave e importante; dove la continuazione, la lunghezza e la monotonia
non arrivano mai ad annoiare. (22. Nov. 1820.). {{V. p. 359. capoverso 1.}}
[351,2] In somma conviene che il filosofo si ponga bene in
mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e
felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e
infelicemente. E perciò non riponga l'utilità in quelle cose che semplicemente
aiutano, conservano ec. la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa,
ma in quelle che la rendono
352 un bene, cioè felice da
vero. Ma felice da vero non la rende altro che il falso, ed ogni felicità
fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e
vana, quando l'oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e
verità.
[369,1] Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e
l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di
ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi.
Non {già} solamente perchè l'incertezza, obbliga
all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine
incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior
cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una
grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal
bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per
questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di
liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che
tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non
poterlo conseguire. Anche materialmente m'{è} accaduto
più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere
un fine che
370 mi premeva, e perciò raddoppiarli
impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare {perchè la dilazione non faceva alcun danno.} Ma io non poteva
sostere[sostenere] l'incertezza di una cosa
che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di
aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine,
togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi
compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi,
l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da
vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine
prefisso. (1. Dec. 1820.). {{V. p. 712.
capoverso 2.
}}
[460,1] Quelle rare volte ch'io ho incontrato qualche piccola
fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava
naturalmente alla malinconia, quanto all'esterno, sebbene l'interno fosse
contento. Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo,
guastarlo, e perderlo
461 col dargli vento. E dava il
mio contento in custodia alla malinconia. (27. Dic. 1820.).
[461,1]
Alla p. 8. capoverso
1 e p. 10.
fine. Non solamente nelle azioni naturali, o manuali, insomma
materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l'abbandono e la
confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura,
attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca. Se tu non hai nulla
da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo. E acquisterai facilmente
il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare: o in
proporzione. E viceversa. Che se ti troverai in un luogo, occasione ec. dove ti
prema {assai} di figurare, probabilmente sfigurerai. E
se parlando con una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo
il non perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di
conservarla. La qual cosa succede massimamente nell'amore, o anche nella
galanteria, che cercando di conservare, si perde quella stima {e quell'amore} di una persona che si è guadagnato senza
cercarlo. Così discorrete di cento altri generi di cose. La natura insomma è la
sola potente, e l'arte non solo non l'aiuta, ma spesso la lega; e lasciando
462 fare si ottiene quello che non si può ottenere
volendo fare. La noncuranza dell'esito, e la sicurezza di riuscire è il più
sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa cura, e il troppo timore di non
riuscire, è cagione del contrario. Nè si può nelle cose umane acquistar
facilmente questa sicurezza, e schivar questo timore, senza una certa
noncuranza, o senza esser preparato in alterutram
partem. E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e
niente da perdere nè da conservare, riescono meglio degli altri nella vita. Nè
c'è un disperato così povero e impotente che non sia buono a qualche cosa nel
mondo, da che è disperato. E questo è il motivo per cui naturalmente, e non a
caso, audaces fortuna iuvat.
(28. Dic. 1820.).
[324,4] Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più
efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura.
[496,2] Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne
quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi
coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare
nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura. Voltaire consiglia
scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall'
497 amore. Ou bien
buvez: c'est un parti fort sage.
*
Non so quanto
bene. Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove p.
109
p.
324, ed è vero, sebbene inclini all'allegrezza, e sopisca i dolori
dell'animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di
ciascheduno. Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o
disperato in amore. {{V. p. 501 capoverso
1.}}
[532,1]
Quid dulcius, quam
habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus
fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse,
gauderet?
*
Cic.
{Lael. sive} de
Amicitia. Cap. 6. (20. Gen. 1821.).
[191,3] Con quello che dice Montesquieu,
Essai sur le Gout. Des diverses
causes qui peuvent produire un sentiment. De la sensibilité. De la
délicatesse p. 389-393. spiegate la cagione per cui c'interessino
tanto le Storie romana e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec. composte
192
sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell'interesse non ci possa esser
suscitato da nessun'altra storia, o poema sopra altri fatti ancorchè benissimo
cantati, come dall'Ossian, o
tragedia d'altri argomenti, quando anche appartengano alla nostra storia patria
più immediata, come agli avvenimenti de' bassi tempi ec. e molto meno dalle
poesie orientali, e da cento altre belle cose volute e messe in voga dai nostri
romantici, che di vera psicologia non s'intendono un fico. Tutto proviene dalla
moltiplicità delle cause che producono in noi un sentimento, e sono, rispetto
alle dette cose, ricordanze della fanciullezza, abitudine presa, fama universale
di quelle nazioni e di quei poeti, affezionamento ancorchè involontario,
continuo uso di sentirne parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per
quelli che ne hanno parlato, tutte ragioni la mancanza delle quali rende
difficilissimo, e forse impossibile il fare ugualmente interessante un soggetto
nuovo, massime in poesia, dove tutto il diletto proviene dall'interesse, e non
può stare colla sola curiosità, o desiderio d'istruirsi ec. come nelle storie e
simili. E v. il mio discorso sui romantici.
Souvent notre ame se compose elle-même des raisons de plaisir, et
elle y réussit surtout par les liaisons qu'elle met aux
choses.
*
Questo e tutto l'altro che dice Montesquieu è notabilissimo, e
applicabile a diversissimi casi e condizioni nelle quali ci riesce piacevole
quello che ad altri non riesce, e a noi
193 stessi non
riusciva in altre circostanze. P. e. fu un tempo non breve in cui la poesia
classica non mi dava nessun piacere, e io non ci trovava nessuna bellezza. Fu un
tempo in cui io non trovava altro studio piacevole che la pura {e secca} filologia, che ad altri par noiosissima. Fu un
tempo in cui le scienze mi parevano studi intollerabili. E quanti nelle loro
professioni trovano piaceri, che agli altri parranno maravigliosi, non potendo
comprendere che diletto si trovi in quelle occupazioni! E nominatamente in
quello che appartiene alle lettere e belle arti, chi non sa e non vede
tuttogiorno che il letterato e l'artista trova piaceri incredibili {e sempre nuovi} nella lettura o nella contemplazione di
questa o di quell'opera, che letta o contemplata dai volgari, non sanno
comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto lo troveranno in
cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate ancora la diversità
de' gusti ne' diversi tempi, classi, nazioni, climi ec. (29. Luglio
1820.).
[633,1]
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans
l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une
place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même
dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous
que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous
revenons à nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous
consulter et à nous croire.
*
M.me la Marquise de Lambert,
Traité de la
Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes,
Paris 1808. 1.re édit. complète. p. 150. Il vient un temps dans la vie qui est
consacré à la vérité, qui est destiné à connoître les choses selon
leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors
nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter
634 et à nous croire sur notre
bonheur.
*
Ib. p. 153. Queste riflessioni sono osservabili. Non
solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza
speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a
contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno
consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o
agli affari del mondo. Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o
disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e
cerca il bene e il piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può, cerca
la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società,
e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente
l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della
sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e
indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e
dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o
sperare. Forse per questo, o anche
635 per questo, si è
detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L'anima, i
desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori,
e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del
pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo
piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in
relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle
riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo
sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e
cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il
vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni,
forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano
a quelle relative alla società. E questo è in somma quello che si chiama
contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita
ducere,
*
con che Cicerone (Lael. sive de Amicit.
c. 2.) definisce la sapienza. Un sistema, un complesso, un ordine, una
vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro. (9. Feb.
1821.).
[636,1]
636
"La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie
des ames".
*
Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 153.
fine.
[666,2]
Elle
*
(l'imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui
ne font rire que l'esprit.
*
(cioè, il bello spirito, il
bell'umore). Mme de Lambert, Réflexions nouvelles sur les
667 femmes, dans ses oeuvres
complètes citées ci-dessus (p. 633.), p. 166.
(16. Feb. 1821.).
[678,3]
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de
sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le
sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs
et plus forts dans la retraite?
*
Mme. de Lambert, lieu cité
ci-derrière (p. 677. fine) p.
188.
679 La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o
piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è
maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella
solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli
uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il
nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un
conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la
cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè
oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben
lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità
della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario
questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava
primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita
occupata o da continua
680 sebben solitaria azione, o da
continua attività {interna} e successione d'immagini
{disegni ec.} ec. e come questo accada parimente
ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì,
eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto
sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le
nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si
racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la
vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di
reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o
sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque
torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello
ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine:
tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì
è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni,
681 laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la
solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente
le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di
educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le
illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe:
e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto
alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco,
esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifa,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni
modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come
questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e
vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a
passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare
682 e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere,
e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
[684,2]
*
*
Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4. Scena 3.
(23. Feb. 1821.).
Δι. {#* Δίκαιος. Dabbene,
uomo probo} ᾽Εκεῖνο δ᾽ οὐ βούλοι᾽ ἄν, ἡσυχίαν ἔχων
Ζῇν[ζῆν] ἀργός;
Συ. {#+ Συκοϕάντης.
Calunniatore, delatore, spione. Non sono nomi propri.}
᾽Αλλὰ προβατίου βίον λέγεις, Εί μὴ ϕανεῖται διαριβή τις τῷ
βιῳ.
[717,3]
Nunquam minus solus quam cum solus.
*
Ottimamente
vero: ma (contro quello che si usa
718 credere e dire)
perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in
compagnia del vero (cioè del nulla, e quindi non c'è maggior solitudine); chi
lontano dagli uomini, in compagnia del falso. Laonde questo detto sebbene antico
e riferito al sapiente, conviene molto più a' nostri secoli, e non al sapiente
solo, ma alla universalità degli uomini, {e massime agli
sventurati.}
(4. Marzo 1821.).
[1075,2] Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per
conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono {ordinariamente} i più difficili a trovare il tempo per
una
1076 occupazione, ancorchè di loro premura, a
ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata
data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la
giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione
è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi
(22. Maggio 1821.). {+E
lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i
diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e
negligenza.}
[43,2] Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si
dispera d'averne che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n'avanzi.
[1085,1] Parecchi filosofi hanno acquistato l'
1086 abito di guardare come dall'alto il mondo, e le
cose altrui, ma pochissimi quello di guardare effettivamente e perpetuamente
dall'alto le cose proprie. Nel che si può dire che sia riposta la sommità
pratica, e l'ultimo frutto della sapienza. (25. Maggio 1821.).
[1328,1] L'azione viva e straordinaria, è sempre, o bene
spesso, cagione d'allegria, purchè non abbatta il corpo. (15. Luglio
1821.).
[1400,1] Il pentimento il quale in altri pensieri ho detto
p.
188
p.
466 che aggrava il male quasi della metà, quando non possiamo
dissimularci che ci è avvenuto per nostra colpa, aggrava pure {nella stessa proporzione} il dispiacere della perdita o
mancanza di un bene, anzi molte volte cagiona del tutto esso solo questo
dispiacere, che non proveremmo in verun modo, se mancassimo di quel bene senza
nostra colpa, se non avessimo avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual
sentimento umano che si fa sentire {{o prevedere,}}
nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a profittarne, quasi anche
contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella Telesilla. Molte
volte un'occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci addolora sommamente
della mancanza di un bene, che per l'addietro nulla ci pesava. Ed allora la
nostra consolazione, e l'ordinaria operazione della nostra mente, è cercare di
persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella perdita di quella occasione,
e che essa non poteva servirci, e doveva necessariamente esserci inutile,
1401 e quasi non fosse stata ec. (28. Luglio
1821.).
[1464,1]
1464 Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove
pp. 1341-42 che il primo principio delle cose è
il nulla. (7. Agos. 1821.).
[1573,1] Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de
Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non
si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente
loro semper divinum aliquid atque infinitum
desiderat,
*
a cui le forze dell'eloquenza non
arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al
gusto.
[1580,1] Dalla mia teoria
del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa
vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l'animo riposato
e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli
avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec. Questo stato non curante de' piaceri
nè de' dolori, è forse uno de' maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma
per se stesso.
[1583,2] Moltissimi piaceri non son {quasi
piaceri,} se non a causa della speranza e intenzione che si ha di
raccontarli. Tolta questa vi troveremmo un gran vuoto. Questa rende piacevoli le
cose che non lo sono, anche le dispiacevoli ec. ec. {+Questi effetti però ponno riferirsi all'ambizione, al
desiderio di parere interessante, ec. non a quello di comunicare e dividere
le proprie sensazioni.}
1584
(29. Agos. 1821.).
[1651,1] Qual cosa è più potente nell'uomo, la natura o la
ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo
riguarda, {nè vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri)} da
vero filosofo; nè il religioso da vero e perfetto religioso. Non v'è uomo così
certo della malizia delle donne ec. che non senta un'impressione dilettevole, e
una vana speranza all'aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza.
(Meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo
avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell'uomo di mondo, la cui anima
allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non
già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all'assuefazione la proprietà
d'illanguidire e anche distruggere le sensazioni. Massime se il filosofo non vi
sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a peccare o coll'opera o col
pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre {più o
meno} soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell'amore, ch'egli ha
conosciuto {e sperimentato} impossibile, immaginario,
vano. Non v'è uomo così profondamente persuaso della nullità delle
1652 cose, della certa e inevitabile miseria umana, il
cui cuore non si apra all'allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto
più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la
fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una
gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla
per far credere {immediatamente} al più profondo e
sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno
sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca
importanza faccia all'uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e
nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori.
Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e
sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. {+Lascio ancora le passioni, che se non altro, ne' loro accessi si ridono
del più lungo e profondo abito filosofico.} Un menomo bene
inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta
a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. V. Corinne t. 2. liv.
14. ch. 1. pag. ult. cioè 341. {+Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non
ostante che la religione, tenendo dell'illusione e quindi della natura,
abbia tanta più forza effettiva
nell'uomo.}
(8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)
[1653,1]
1653 Il fanciullo non può contenere i suoi desideri, o
difficilmente, secondo ch'egli è più o meno assuefatto a soddisfarli. L'uomo
difficilmente concepisce un desiderio così vivo come il menomo de' fanciulli, e
di tutti facilmente è padrone, benchè {+certo non abbia cambiato natura, e} la vita umana si componga tutta
di desiderii, e l'uomo (o l'animale) non
possa vivere senza desiderare, perchè non può vivere senz'amarsi, e
questo amore essendo infinito, non può esser mai pago. Tutto dunque è
assuefazione nell'uomo. Questa osservazione si può estendere a tutte le passioni
e a tutte le parti esteriori ed interiori dell'uomo, e della sua vita. (8.
Sett. 1821.).
[1655,1]
1655 L'uomo si addomestica alla continua novità come alla uniformità, e allora l'oggetto
nuovo gli è tanto familiare, quanto un oggetto vecchio, e la novità in genere
gli è più familiare e ordinaria, che la uniformità. ec. (8. Sett.
1821.).
[1792,1] La filosofia sarebbe capace di dare all'animo quel
torpore e quella possibile noncuranza che ho detto esser piacevole p.
1779. Ma come questa benchè assopisca la speranza, nondimeno in fondo
la contiene, anzi talvolta l'accresce, mediante lo stesso non curarsi di nulla,
e la stessa disperazione,
1793 così la filosofia che
per se stessa spegne del tutto la speranza, non può cagionare all'animo uno
stato piacevole, se non essendo una mezza filosofia, ed imperfetta, (qual ella è
ordinariamente), o quando anche sia perfetta nell'intelletto, non avendo
influenza sul{l'ultimo} fondo dell'animo, o
rinunziandoci avvedutamente essa stessa. (26. Sett. 1821.).
[1862,1] Ho detto pp. 1350. sgg.
p. 1609 che i greci furono i più filosofi e profondi tra gli antichi,
perchè la loro lingua si presentava mirabilmente (sì come si presta ancora forse
meglio di ogni altra) alla filosofia ed alla precisione, come ad ogni altra cosa
e qualità. Bisogna osservare che questo pregio non l'ebbe ella dalla filosofia,
così che questo si debba attribuire alla filosofia de' greci, piuttosto che
questa al detto pregio. Poichè la lingua greca fu formata, e resa onnipotente
assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora che si fosse
intrapresa l'analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle quali cose i
greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua loro. Ma la
lingua greca era tal quale noi la vediamo, e l'ammiriamo, assai prima della
gramatica, inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne' tempi in cui la loro
lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse anche in forza delle
regole ritrovate o osservate) il suo nativo
1863 colore
ec. Anzi la lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole, dopo le
circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de' gramatici, divenne forse meno atta
alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perchè meno libera, e meno capace
(secondo il parere e il desiderio de' pedanti) di novità. Altrettanto nè più nè
meno si può dire della lingua italiana. La libertà è la prima condizione di una
lingua sì filosofica, che qualunque. I francesi l'hanno quanto alle parole. Ma
ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua libertà e fecondità. Allora ella varia
quanto alle forme che riceve, secondo che alla sua formazione presiede la
ragione o la natura ec. Primitivamente l'indole di tutte le lingue è appresso a
poco la stessa, almeno dentro una stessa categoria di climi e caratteri
nazionali. (7. Ott. 1821.).
[1866,2]
Alla p. 1865.
Si può dire che la cognizione del mondo, la furberia, la filosofia, ed anche
generalmente lo stesso talento, consiste in gran parte nella facoltà ed abito di
non eccettuare. Il giovane si trova tradito, deriso dietro alle spalle ec. ec.
ingannato, perseguitato ec. da questo e da quell'uomo da cui meno se
l'aspettava, da un amico ec. ec. S'egli ha talento, dopo due o tre esperienze,
ed anche alla prima, conchiude che non bisogna fidarsi degli uomini, che tutti
appresso a poco sono malvagi, ne deduce de' risultati generali sulla natura del
mondo e della società, qualunque
1867 persona ancorchè
novissima, qualunque favore fattogli ec. ec. gli riesce sospetto, ed in breve
egli si forma un sistema vero intorno agli uomini, di cui nessuna circostanza,
nessuna apparenza per grande ch'ella sia, lo può far dimenticare. Ma s'egli è di
corto talento, 10, 20 esperienze non basteranno a condurlo a questi risultati,
egli considererà quello che gli è accaduto, e sempre gli accade, come tante
eccezioni, e per conoscer gli uomini avrà sempre bisogno di esperienze
individuali su ciascuno, così che al fine della sua carriera non sarà meglio
istruito che nel principio, le esperienze non gli serviranno mai nulla, il suo
giudizio sarà sempre falso, le apparenze e le illusioni lo inganneranno sempre
allo stesso modo. E così si verifica che la facoltà di generalizzare è quella
che costituisce gran parte del talento.
[1988,3] L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla
inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge
mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione
1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può
trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi,
o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di
operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare,
di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i
fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro
nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o
estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una
totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni
momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il
non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e
1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero
che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare
tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per
l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è
maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna
dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e
riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella
infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire
senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè
l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla
vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).
[1998,1] L'uomo riflessivo ha spessissimo bisogno di esser
determinato da un uomo irriflessivo o per natura o per abito, o da circostanze
imperiose, ec. Egli ha più bisogno di consiglio che qualunque altro, non perchè
non veda abbastanza da se, ma perchè troppo vede,
1999
dal che segue un'irresoluzione abituale e penosissima. (27. Ott.
1821.).
[2017,3] Il fare un atto di vigore, o il servirsi del vigore
passivamente o attivamente, {+(come fare
un veloce cammino, o de' movimenti forti ed energici ec.)} quando
{e finchè} ciò non superi le forze dell'individuo,
è piacevole per ciò solo, quando anche sia per se stesso incomodo, (come
l'esporsi a un gran freddo ec.) quando anche sia senza spettatori, e
prescindendo pure dall'ambizione e dall'interna soddisfazione e
2018 compiacenza di se stesso, che vi si prova. {+Nè solo il fare tali atti, ma anche il
vederli, l'essere spettatore di cose attive, energiche, rapide, movimenti
ec. vivaci, forti, difficili ec. ec. azioni ec. piace, perchè mette l'anima
in una certa azione, e le comunica una certa attività interiore, la rompe ec. l'esercita da lontano ec.
e par ch'ella {ne} ritorni più forte, ed esercitata
ec.}
[2451,1] Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e
si contenta de' piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far
conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai
particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco
esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.).
[2493,1] Nè il titolo di filosofo nè verun altro simile è
tale che l'uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L'unico titolo
conveniente all'uomo, e del quale egli s'avrebbe a pregiare, si è quello di
uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser
uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo {e con questa
condizione} il nome d'uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch'egli
è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta, ec.
(24. Giugno. dì del Battista. 1822.).
[2495,1] Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione
d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta
infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non
solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori
beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e
nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti,
non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa
osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha
più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi
e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato,
con
2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso
la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i
piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.;
in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti;
contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più
bell'aspetto possibile, {+e di più
essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla
sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e
pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto
più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo
ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura
dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura,
vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro
che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del
piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24.
Giugno. 1822.). {{V. p.
2528.}}
[2526,1]
Τοὺς δὲ
*
(χώρους)
μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν
*
(agros qui incrementum
nullum haberent, cioè così {ben} coltivati già
quando si comprano, che non si
2527 possano far
migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ὁμοίας ἐνόμιζε παρέχειν∙ ἀλλὰ πᾶν
κτῆμα καὶ ϑρέμμα τὸ ἐπὶ {τὸ} βέλτιον ἰόν, τοῦτο
καὶ εὐϕραίνειν μάλιστα ᾤετο
*
. Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che
si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice
a Socrate presso
Senofonte
Del governo della casa, cap. 20. §.
23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza e
nell'aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato che non
si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per se, è sempre
infelicissimo, come fu presso a poco quello d'Augusto
{divenuto} padrone di tutto il mondo, e malcontento
com'egli s'espresse. (29. Giugno 1822.).
[2599,1] L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è
noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche
l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho
detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di
tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa,
benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo
che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e
sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone
di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide
2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non
possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri
le
Metamorfosi, che {pur} paiono
scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è
sazietà, della cetra, del sonno
*
ec. La continuità
de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai
piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E
siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri
(qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e
distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità
degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la
continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie
volte}
pp.
172-77
pp. 2433-34 come la
Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in
quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i
mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale
essenza
2601 di beni nell'ordine generale della natura:
massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di
noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono
il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente
come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e
altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o
civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili
ai viventi, anche nello stato
primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e
l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo
modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla
predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e
perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma
perchè senza essi mali, i beni
2602 non sarebbero
neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del
piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto
1822.).
[2661,1]
Et
quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam
permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet
sensum,
*
(mallem sensus 2do
casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna
revocatur.
*
Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic.
antivigilia di Natale 1822.)
[2673,3]
Dei
beni umani il più supremo colmo È sentir meno il
duolo.
*
Sentenza che racchiude la somma di tutta la
filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra.
(19. Feb. 1823.).
[2683,3]
L'excès de la raison et
de la vertu, est presque aussi funeste que celui des plaisirs (Aristot.
de mor. II. 2. t. 2. p. 19.); la nature nous a
donné des goûts qu'il est aussi dangereux d'éteindre que
d'épuiser.
*
Même ouvrage ch. 78. t. 6. p. 456.
(29. Marzo. Sabato Santo. 1823.).
[2702,1]
2702 Materia della pigrizia non sono propriamente le
azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non è piacere presente, o
vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è pigro al bere o al mangiare. Lo
studio è cosa faticosissima. Ma se l'uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad
ogni altra cosa, non sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio
gl'interi giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose,
sono infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il
fine dei pensieri e delle azioni dell'uomo è sempre e solo il piacere. Ma i
mezzi di conseguir quello che l'uomo si propone come piacere, ora hanno piacere
in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia, ancorchè
domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui condurrebbero sia
vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè l'uomo faccia molta stima di
questo piacere e lo desideri, ancorchè finalmente il fine al quale questi mezzi
conducono sia necessario, o molto
2703 utile ad
ottenere altri piaceri. Così l'uomo si astiene di comparire a una festa (dove
crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse
trovato all'ordine, o se non se gli fosse richiesto d'assettarsi, sarebbe andato
alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva
certamente con un'ora di pochissima fatica. Così la pigrizia ritiene ancora da
quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e il bere, perchè
essi in se non hanno piacere. Così da cento altre azioni utili, cioè conducenti
più o men tosto al piacere (giacchè questo è il significato di utile), ma non
piacevoli in se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch'esse
procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno piacevoli.
(20. Maggio 1823.).
[4041,7] Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato
e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e
felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera
intenzione, non cercasse
4042 di farli tali, usando a
questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga si
è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch'è più
prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi
de' filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera
quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua
felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di
Quaresima. 1824.).
[4160,10] Siccome ad essere vero e grande filosofo si
richiedono i naturali doni
4161 di grande immaginativa
e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più
antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all'uso della filosofia
nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e
antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all'esercizio pratico della
filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso
pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per
natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle
dottrine più illusorie, di quelle dell'entusiasmo ec.? E infatti chi meno
filosofo di lui nella pratica, e nell'effetto che gli accidenti della vita
producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi
spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella
pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica?
Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più
filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla
filosofia teorica, sono i più filosofi nell'effetto. E si potrebbe anzi dire che
la mira, l'intenzione e la somma della filosofia teorica {e
de' suoi precetti ec.} non consiste effettivamente in altro che nel
proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono,
conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella
difficilmente ottiene. {{(Bologna. 20. Dic.
1825.).}}
[4167,12] Molti divengono insensibili alle lodi, e restano
però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più
tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella.
Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile
ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì
viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la
facoltà di provar piacere è nell'uomo più caduca e più limitata che quella di
sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo.
1826.)
[4185,2] Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra
la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività,
l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al
moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di
tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno
animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi;
insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta
morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si
accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono
conseguenze necessarie non meno l'una
4186 che l'altra.
Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di
desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza
della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che
l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè
deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il
suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto
maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più
sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado
possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta
tendenza. Le specie e gl'individui {animali} meno
sensibili, {men vivi} per natura loro, hanno il minor
grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi
di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli
stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco
lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno
lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile,
tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le
nazioni d'europa e di una gran parte del mondo, hanno da
tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio
e[è] impossibile. Intanto dallo
4187 sviluppo e dalla vita del loro animo, segue {una} maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento
della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La
distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di
azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal
modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato,
confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi
dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che
resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l'uomo è
incivilito. - Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P. e. il più
felice italiano è quello che per natura {e per abito} è
più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura
o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare
la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua
sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser
contrario all'attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di
europa, {+agli
sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le
nazioni e gli uomini {sempre} più attivi e più
occupati,} gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole
(quanto al principio, dico, di attività {+e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione,
di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi
analoghi}), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera
lo stato selvaggio, l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno
attivo, come la miglior condizione possibile
4188 per
la felicità umana. (Bologna 13. Luglio
1826.).
[4188,8]
Propterea dicebat
Bion μὴ δυνατòν εἶναι τοῖς
πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακoῦντα γενóμενον ἢ Θάσιον: non posse aliquem
vulgo omnibus placere, nisi placenta fieret aut vinum Τhasium.
*
Casaub.
ad Athenae. l. 3. c. 29.
(Bologna. 17. Luglio. 1826.).
[4190,3] Concordanza delle antiche filosofie pratiche {(anche discordi)} nella mia;
p. e. della Socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica,
oltre l'accademica e la scettica ec. (Bologna 1.
Agosto, Giorno del Perdono. 1826.).
[4194,1] La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur
affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis
(v. Sueton.
Tiber. c. 24-33), le sue
difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla
seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica,
dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di
artifiziale. Tiberio era certamente, a
differenza di Cesare, di natura timida.
A differenza poi e di Cesare che fin da
giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e
il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari;
Tiberio, nato privato, vissuto la
gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto
anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non
aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in
mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato
da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v.
p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non
ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di
offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di
tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo
potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è
smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.
4195
Tiberio era certamente cattivo, perchè
vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa
che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che
l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui
non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur
disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le
circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed
umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche
cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a
perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più
risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura
fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi
sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi
siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o
presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte,
una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è
{al mondo} assai meno politica, assai meno
finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte,
{e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1.
Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai
più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o
utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad
essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di
fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e
dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è
natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii,
opinioni, in tutto; di esser contraddittorio
4196 ed
incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii;
di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per
combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed
opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto
dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni
momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina.
(Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.).
Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza
nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e
dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era
divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4.
Sett. 1826.).
[4201,10] Spesse volte in occasioni di miei dispiaceri,
anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi di questa
cosa? E l'esperienza avutane già più volte, mi sforzava a risponder di sì, che
io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male
come è grave, come è serio e vero? - Lasciamo star che nessun male è vero per
se, poichè se uno {non lo conosce o} non se ne
affligge, ei non è più male. Ma l'affliggertene può forse rimediarvi o
diminuirlo? - No. - Il non affliggertene può forse nuocerti? - No certo. - E non
è meglio assai per te il non pensarne, il non pigliarne dolore, che il
pigliarlo? - Meglio assai -. Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà
ragionevolissimo. E se egli è ragionevole, se utile,
4202 se tu lo puoi, perchè non lo fai? che ti manca se non il volerlo? - Io vi
giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente, ed avevano reale
effetto, sicchè io ricusando di affliggermi di una mia sventura, per notabile
ch'ella fosse, non me ne affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai
poco. (Bologna 21. Sett. 1826.). {{V. p.
4225.}}
[4239,5] Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza
quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco
veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata
da me in quell'assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826. in
Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente
colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una
rassegnazione
4240 d'animo, una certa quiete dell'animo
nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e
chiamata vile: ella è pur necessaria all'uomo, nato e destinato inesorabilmente,
inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi
intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente,
coll'abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete,
è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p. e. a
un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da
principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l'uomo fa a quella noia,
e l'impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale
passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. E in ciò
consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti. (30.
Dic. 1826. Recanati.). {{v. p.
4267.}}
[4243,8]
Alla p. 4156.
A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte,
strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti,
cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi
oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e
4244 veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo
più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo,
le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto
è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall'assuefazione. Ma egli è però
certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può
volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo
ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l'animo fa
naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le
disavventure, è il maggior dolore che prova l'uomo. Quando l'animo è domato,
ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l'animo, questo
ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion
delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e
quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più
doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è
dell'animo all'animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si
esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono
più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però
travaglia assai meno l'animo; bensì perchè col corpo anco l'animo è abbattuto,
perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l'animo e
ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo;
onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l'animo
accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza
esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il
dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè
quegli sfoghi sono veramente una medicina {#1. quasi un narcotico} preparata dalla
4245
natura medesima, perchè l'uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E
noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che
naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della
filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità
meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e
facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da
vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva
apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. {+V. p.
4283.}
(Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.).
[4249,5] Pel Manuale di
filosofia pratica. Desiderio naturale, necessario, e perpetuo
4250 nell'uomo, di un futuro miglior del presente, per
buono che il presente possa essere. Importanza quindi dell'avere una prospettiva
e una speranza, per esser felice. Importanza del sapersi fare, comporre e propor
da se stesso tal prospettiva. Non sempre le circostanze, l'età ec. permettono
una prospettiva di miglioramento e di avanzamento nello stato ec. Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti
grandi sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la
speranza, restiamo turbati. Utilità somma del sapersi proporre di giorno in
giorno un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono
d'ora in ora; godimenti giornalieri, di cui non v'ha condizione che non sia
fornita o capace: il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria
espettativa, prospettiva e speranza, ora per ora: questo è ufficio di filosofo,
ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice.
(Recanati. 1.o dì di Quaresima. 28. Feb.
1827.).
[4254,4]
I know, by my own
experience, that the more one works, the more willing one is to work. We
are all, more or less, des animaux d'habitude.
I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five
hours together every day, more willingly than I should now half an
hour.
*
Chesterfield, Letters to his son, lett. 318.
I have so
little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so
often. Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted
truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in.
One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and
therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal
of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then
they always
4255 find time enough to do it in.
Lett. 320.
*
It is not without
some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme
idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state
of affairs here.
*
Lett. 321.
(12. Marzo. 1827.). {{v. p.
4281.}}
[4259,5] Pel manuale di
filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato
esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a
fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da
occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare
per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire
una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che
turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali
minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e
sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della
immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali
immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla
occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran
differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa
immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella
vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito
Lord Nelvil); e le
quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e
della società, e alla solitudine;
4260 s'ingannano in
ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di
fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione
esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con
afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento
reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita
solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della
solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a
temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo
aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani.
Ma certo un uom d'affari {{(senz'ombra di filosofia)}}
ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle
faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di
quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e
nell'ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo.
1827.)
[4266,1] In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere,
tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna,
per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche
altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo.
1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare)
nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del
mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta,
alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una
dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi.
{+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli
spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze,
sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno
altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una
cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai:
dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien
mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo.
Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio
e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso
disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a
provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata
4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a
disperare {omai} del piacere. (30. Marzo.
1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete,
la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se
e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro
pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso
di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco
lei.}}
[4274,2] Pel manuale di
filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni
amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti
a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per
quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue
negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se
non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un
animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità
è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si
direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di
romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto
studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi
coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo
del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere
che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da
volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).
[4281,3]
Alla p. 4255.
principio. Vir gente et fama nobilis,
*
dice il
Reimar,
Praefat. ad Dion. §. 6, di Giovanni Leunclavio, famoso erudito
tedesco del secolo 16.o, quem
merito admiratur Marquardus Freherus in epistola
dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco - Romanum quod inter varias
peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis
occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et
quanta quis otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in
lucem.
*
Le soprascritte pp. 4254-55
osservazioni del Chesterfield spiegano
questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e notato colla stessa
ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente non raro. Esse
spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali. A segno che
sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde ozioso e disoccupato,
che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di quello che un letterato
che, occupato d'altronde, abbia prodotto molte e studiate opere. Certo di questi
non è difficile a trovarne, e ciò conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le
stesse occupazioni di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della
moltitudine e dell'accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia,
mostrandole occasionate da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse
occupazioni; attività tanto maggiore {e più viva ed
acuta,} quanto la copia e la folla {e
l'assiduità} di esse occupazioni era più grande.
(Recanati. 17. Aprile. Martedì di Pasqua.
1827.). Esempio mio,
4282 per lo più ozioso,
ed inclinato all'inerzia, o per natura o per abito; pure in mezzo a questa
inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di adoperarmi, e molte cose
da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me ne avanza, e in
quell'avanzo, io provo (e m'è avvenuto più volte) un vero bisogno, una smania,
di far qualche cosa, un orrore del non far nulla, che mi pare incomportabile,
come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per così dire i mesi, nella mia
stanza colle braccia in croce. (Recanati. 17. Apr.
Martedì di Pasqua. 1827.).
[4286,6]
Memorie della mia vita. Cangiando
spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o
anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai
naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non
aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io
dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non
consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi
sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun
momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e
dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi
abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo
non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi
mesi, e coll'andar del tempo mi trovava
4287 sempre
divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo.
(Firenze. 23. Luglio. 1827.). {{Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo
natio.}}
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