Speranza.
Hope.
183,3 285,1 364,2 522,2 826,1 1017,1 1044,2 1521,2 1545,1-1547,1 1589,1 1628,1 1792,1 1863,1 2315,1 2451,1 2526,1 2638,1 3265,1 3497,1 4272,2Speranza, continua, inseparabile dalla vita sentita e pensante.
Hope, continuous and inseparable from sentient and thinking life.
4145,4[183,3] La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla
natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che
dicono (gli autori
della Morale
universelle
t. 3.) che il suicidio non possa seguire
senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla
speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice {e naturale,} ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare,
e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro
che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.).
[285,1] La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei,
non abbandona l'uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente
contraria ad essa speranza, e la più decisiva. (18. 8.bre
1820.).
[364,2] Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è,
ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o
mortale, la credono leggera, o minore che non è. E la cagione d'ambedue le cose
è la codardia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove non è
speranza.
[522,2]
Nisi quod magnae indolis
signum est, sperare
523 semper.
*
Floro IV. 8.
[826,1]
An
censes (ut de me ipso aliquid more senum
glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque
suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam,
essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et
quietam, sine ullo labore et contentione traducere? sed, nescio quomodo, animus erigens se,
posteritatem semper {ita} prospiciebat,
quasi, cum excessisset e vita, tum denique victurus
esset; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales
essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad
immortalitem[immortalitatem]
gloriae niteretur.
*
Catone maggiore appresso Cic.
Cato maior seu de Senect. c. ult.
23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente,
come ho detto in altri pensieri pp. 532-35
p.
648. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di
certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta
827 nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle
azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec. di coloro che verranno
dopo di noi. L'uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita,
cioè presso a' contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma,
sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla
speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della
speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non
avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè
il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai
presente); allora l'animo suo erigens se quasi fuori
di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo
morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire
il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il
piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da
lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo
828 più luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a'
confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne' posteri,
sperando {l'uomo} da loro e dopo morte quel piacere,
che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di
conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce l'uomo a questo estremo,
perchè come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può
conseguire, ma d'altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine
necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, così questa non
trovando più dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di
lei, colla illusione della posterità. Illusione appunto più comune negli uomini
grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed
essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni,
continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben
persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell'attuale e vero
piacere in questa vita, e d'altronde
829 bisognosi di
scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo alle
grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell'esistenza, e
si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte o non
saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra da quella che possa derivare
dai posteri; ma quando anche fossimo {allora} tanto
capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella
appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo
nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto
insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che
futuro, dico un piacere attuale e presente. (20. Marzo 1821.).
{Applicate questi pensieri alla
speranza di felicità futura in un altro mondo.}
[1017,1]
1017 Dalla mia teoria
del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito
e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può
concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei
beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non
sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea
confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E
perciò {e non per altro,} la speranza è meglio del
piacere, contenendo quell'indefinito, che {la realtà}
non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell'amore, dove la passione e
la vita e l'azione dell'anima essendo più viva che mai, il desiderio e la
speranza sono altresì più vive[vivi] e
sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per
l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga,
indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è
carattere (già da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea
infinita (cioè più sensibilmente
indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir
meno di qualunque
1018 altra idea ec. Per l'altra parte
notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore,
questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri
che l'uomo possa provare. (6. Maggio 1821.).
[1044,2] La rimembranza del piacere, si può paragonare alla
speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella
piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai
provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più
dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza
giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere
che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento.
(13. Maggio 1821.).
[1521,2] Il passato, a ricordarsene, è più bello del
presente, come il futuro a immaginarlo.
1522 Perchè?
Perchè il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola
immagine del vero: e tutto il vero è brutto. (18. Agos. 1821.).
[1589,1] Chi ha perduto la speranza d'esser felice, non può
pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo non può cercarla che per
rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell'altrui
infelicità. (30. Agos. 1821.).
[1628,1] La disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto
languore e insensibilità di speranza, è un piacere per se, e perchè l'uomo non
sentendo la speranza, appena sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una
specie di torpore, benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in
tal circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere. (4. Sett. 1821.).
[1792,1] La filosofia sarebbe capace di dare all'animo quel
torpore e quella possibile noncuranza che ho detto esser piacevole p.
1779. Ma come questa benchè assopisca la speranza, nondimeno in fondo
la contiene, anzi talvolta l'accresce, mediante lo stesso non curarsi di nulla,
e la stessa disperazione,
1793 così la filosofia che
per se stessa spegne del tutto la speranza, non può cagionare all'animo uno
stato piacevole, se non essendo una mezza filosofia, ed imperfetta, (qual ella è
ordinariamente), o quando anche sia perfetta nell'intelletto, non avendo
influenza sul{l'ultimo} fondo dell'animo, o
rinunziandoci avvedutamente essa stessa. (26. Sett. 1821.).
[1863,1] Si può dir che l'effetto della filosofia non è il
distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali
in individuali. Vale a dire che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè
crede
1864 che quelle tali speranze ec. siano vane
generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal caso di cui si tratta,
un'eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali, comuni, ed
uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder
belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere {o
sperar} tali le proprie, {+e
quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di creder buone le
persone che vi circondano ec. ec.).} L'effetto presso a poco è lo
stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder
sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è
il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.
[2315,1] L'animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze,
e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace
2316 di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla
speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto stesso del
suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente deriva.
L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai
finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza. (31. Dic. 1821.).
[2451,1] Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e
si contenta de' piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far
conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai
particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco
esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.).
[2526,1]
Τοὺς δὲ
*
(χώρους)
μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν
*
(agros qui incrementum
nullum haberent, cioè così {ben} coltivati già
quando si comprano, che non si
2527 possano far
migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ὁμοίας ἐνόμιζε παρέχειν∙ ἀλλὰ πᾶν
κτῆμα καὶ ϑρέμμα τὸ ἐπὶ {τὸ} βέλτιον ἰόν, τοῦτο
καὶ εὐϕραίνειν μάλιστα ᾤετο
*
. Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che
si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice
a Socrate presso
Senofonte
Del governo della casa, cap. 20. §.
23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza e
nell'aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato che non
si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per se, è sempre
infelicissimo, come fu presso a poco quello d'Augusto
{divenuto} padrone di tutto il mondo, e malcontento
com'egli s'espresse. (29. Giugno 1822.).
[2638,1]
Ma senza alcun fallo
gli uomini comunemente hanno questo difetto, e tutti generalmente in ciò
pecchiamo, che noi della nostra vita speriamo assai, ed il nostro tempo
largo misuriamo, e dello altrui per lo contrario sempre temiamo, e
siamone scarsi e solleciti, debole e breve reputandolo. Perocchè chi è
quello che tanto oltre sia, o che così vicino alla fossa abbia il piede,
che non si faccia a credere di dover quattro o sei anni poter
*
2639
campare, e che a ciò ogni cosa opportuna non
apparecchi? Veramente io credo che niuno ce ne abbia fra noi; nè
maraviglia sarebbe di ciò, se noi questa medesima speranza avessimo
similmente della altrui vecchiezza, che noi abbiamo della nostra, e non
ci facessimo beffe in altrui di quello che in noi medesimi
approviamo.
*
Casa, Orazione seconda per la Lega. Lione
(Venezia) appresso Bartolommeo Martin. senza data di tempo. appiè
del 3. tomo delle opere del Casa,
Venez.
Pasinelli
1752. p. 41. Tre altre pagine mancano per la fine
dell'Oraz.
(13.-14. Ottobre. 1822.).
[3265,1]
3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii
dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro,
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano,
quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere
al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e
fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma
considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in
modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire
che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è
che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria
e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o
anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è
sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli
onori o vantaggi ch'egli
3266 possa e debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi
lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,}
senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze
ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul
futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a
compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita.
Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il
giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che
non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto.
Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e
cospirante con quella del corpo, dalla
3267 freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un
picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a
fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale
inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni
producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di
dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella
vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un
brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età
dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel
disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor
proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento
3268 della vita, non è capace se non di fievoli
desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso
fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così
lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo
ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue
speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si
propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la
gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e
torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è
pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono
tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive
per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana
3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se
stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata
abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed
abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)
[3497,1] Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono
pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a
dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii,
ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai
piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla
fortuna. La {promessa e l'aspettativa}
{di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì,
ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o
congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o
ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna
idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura
affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella
che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma
il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale
3498 espettativa è ben poco atta a consolare in
questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e
sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni.
La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una
felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo
tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di
questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che
noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo
concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così
chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non
comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità
assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità
qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la
desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso
ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i
generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di
Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma
quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe
già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo
simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè
da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo
in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in
margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la
perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei
inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè
desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a
tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,
3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa,
ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in
qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che
l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo
presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza.
Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per
niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più
possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello
che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel
che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui
lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere
che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual
piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè
verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia
assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè
3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e
perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri,
sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che
dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che
dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che
spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai;
quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare
e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì
l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei
desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito
(e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg.
pp.
179-81
pp.
3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver
luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel
semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva
senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o
positivo, nel conseguimento
3501 del quale o di più
d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur
sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun
desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè
patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso,
poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente
in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar
materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa
che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e
vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi
desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti,
ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere
all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli
desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un
tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli
squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe
pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,
3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di
quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro.
Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene
i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre,
e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè
tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di
ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi
desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor
natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la
consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi
desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è
misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio
ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer
noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non
conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può
vedere come sia per esser bene, {e} come possa
piacergli;
3503 a chi è misero in questa vita, e
desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non
può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una
tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è
sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua
presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo
non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè
veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede
oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale,
s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i
limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di
questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra
natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei
non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di
tali beni, non può per modo alcuno
3504 consolarlo
realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice)
rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e
intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo
si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere,
ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e
prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà,
{+e le sue qualità e condizioni e
circostanze,} anticipando ed {anzi}
assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille
volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione,
quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa
parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà
quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come
può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel
più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non
hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte?
Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo}
dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente
3505 quello a cui nè l'immaginazione nè
l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo
tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per
questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che
l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non
sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che
spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in
alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra
natura?
[4272,2] Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di
corporatura e di forze uguale a lui, {p. e. con un grosso
cane,} difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per
vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una
decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se
stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran
parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il
cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L'uomo al
contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente,
eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè
sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli
promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, {se} non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che
questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai
più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale
di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà
volontariamente. Il fanciullo, {e più il bambino,}
adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non
trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più
facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le
sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti. (3.
Aprile. 1827.).
[4145,4] Ella è cosa forse o poco o nulla o non abbastanza
osservata che la speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e
inseparabile dal sentimento della vita, cioè dalla vita propriamente detta, come
il pensiero, e come l'amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io
vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non
si sente, come nel sonno ec. Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed
è così impossibile a ogni
4146 vivente, come l'odio
vero di se medesimo. Chi si uccide da se, non è veramente senza speranza, non
più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz'amor di se stesso.
Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un
pensiero, e così ogni momento è {in certo modo} un atto
di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benchè si possa {sempre} distinguere logicamente, nondimeno in pratica è
ordinariamente un tuttuno, quasi, coll'atto di desiderio, e la speranza una
quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio.
(Bologna. 18. Ottobre. 1825.).
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