Educazione. Insegnamento.
Education. Teaching.
614,1 643,2 668 1372,1 1387,2 1401,1 1436,1 1472,2 1540,1-1543,1 1553,1 1572,3 1586,1 1646,1 1653,1 1718,1 1770,3 1863,1 1903,1 1940,1 1973,1 1990,1 2156,1 2162,1 2164,1 2132,1 2184,1 2228,1 2378,1 2390,1 2400,1 2401,1 2523,2 2596,1 2645,2 2862,1 3078,1 3265,1 3271,1 3291,1 3345,1 3440,1 3446,1 3482,marg. 3684,1 3839,1 3902,5 3950,2 4037,6 4070,1 4103,6 4180,3 4195-6 4226,4 4241,3 4254,4 4259,5 4261,2 4266,1 4274,2 4275,1 4280,1 4283,2 4287,1 4289,1[614,1]
614
Ἃ τοῖς παισὶ τοῖς
ἑαυτοῦ ἂν συμβουλεύσειας, τούτοις αὐτὸς ἐμμένειν ἀξίου
*
. Isocrate
πρὸς Νιχόχλεα περὶ Βασιλείας.
Detto convenientissimo a quasi tutti i padri, le madri, e gli educatori de'
nostri tempi. (5. Febbraio 1821.).
[643,2]
Les enfans aiment à
être traités en personnes raisonnables.
*
Mme. de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l'éducation
d'une jeune demoiselle: ou Lettre III. dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633.) p.
356.
[667,1] Quello che ho detto in altro pensiero pp.
481-84 intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve
estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo
individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta
di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea
di tutti i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri
individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa
fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo. Senza
ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del
primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo
tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli
altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per
relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi. P. e. avendo io {di} due anni veduto un colonnello, l'idea
668 ch'io mi formo naturalmente della persona di questo
o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del
colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec. Anche da ciò
si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della
fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia
probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o
quell'altra azione ec. derivino bene spesso da minutissime circostanze della
loro fanciullezza; e come i caratteri ec. e le opinioni massimamente (dalle
quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene
spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti
alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro,
anche dai maggiori conoscitori dell'uomo. (16. Feb. 1821.). {{V. p. 675. principio.}}
[1372,1] È verissimo che la chiarezza dell'espressione
principalmente deriva dalla chiarezza con cui lo scrittore o il parlatore
concepisce ed ha in mente quella tale idea. Quel metafisico il quale non veda
ben chiaro in quel tal punto, quello storico il quale non conosca bene quel
fatto ec. ec. riusciranno oscurissimi al lettore, come a se stessi. Ma ciò
specialmente accade quando lo scrittore non vuole nè confessare, nè dare a
vedere {che} quella cosa non l'intende chiaramente,
perchè anche le cose che noi vediamo oscuramente possiamo, fare che il lettore
la[le] veda nello stesso modo, e ci
esprimeremo sempre con chiarezza, se faremo vedere al lettore qualunque idea tal
quale noi la concepiamo, e tal quale sta e giace nella nostra mente. Perchè
l'effetto della chiarezza non è propriamente far concepire al lettore un'idea
chiara di una cosa in se stessa, ma un'idea chiara dello stato preciso della
nostra mente, o ch'ella veda chiaro, o veda scuro; giacchè
1373 questo è fuor del caso, e indifferente alla chiarezza della
scrittura o dell'espressione propriamente considerata, e in se stessa.
[1387,2] I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare
nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o
leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto
dell'esperienza è persuadere a' giovani, {quanto alla vita
umana,} che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi
tutti i particolari, e in ciascuno di essi. (25. Luglio 1821.).
[1401,1] Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro
anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perchè mi raccontasse delle
favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei
racconti, e del maraviglioso che si percepisce coll'udito, o colla lettura
(giacchè seppi leggere, ed amai di leggere, assai presto). Questi, secondo me,
sono indizi notabili d'ingegno non ordinario e prematuro. Il bambino quando
nasce, non è disposto ad altri piaceri che di succhiare il latte, dormire, e
simili. Appoco appoco, mediante la sola assuefazione, si rende capace di altri
piaceri sensibili, e finalmente va per gradi avvezzandosi, fino a provar piaceri
meno dipendenti dai sensi. Il piacere dei racconti, sebbene questi vertano sopra
cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o appartenente alla
immaginazione, e per nulla corporale nè spettante ai sensi. L'esser divenuto
capace di questi piaceri assai di buon'ora, indica manifestamente una
felicissima disposizione, pieghevolezza ec. degli organi intellettuali, o
mentali,
1402 una gran facoltà e vivezza
d'immaginazione, una gran facilità di assuefazione, e pronto sviluppo delle
facoltà dell'ingegno ec. (28. Luglio 1821.).
[1436,1] Mirabile disposizione della natura! Il giovane non
crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano
avverarsi ne' particolari della sua vita, degli uomini ch'egli conosce, {e} tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il
mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione. E
crede pienamente a' poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi, cioè se ne
lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel
1437 modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che
dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti
filosofici ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè
piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura. E solo
quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale,
l'esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perchè
neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è
tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra
regola di giudizio, se non la natura, e quindi è giudice competentissimo,
giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero. (2.
Agosto. 1821.).
[1472,2] Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita
metodica, senza varietà, senza
1473 commozioni, senza
troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono
ben difendersi, e v'è tanto da dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto {degli educatori} è di volere che ai giovani piaccia
quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non
differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii
ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l'età de' loro allievi,
e la loro, o {non} volerla riconoscere, o volerne
affatto prescindere; di credere che la gioventù de' loro allievi debba o possa
riuscire essenzialmente, e {quasi} spontaneamente
diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di
volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano
all'esperienza ec. (9. Agos. 1821.).
[1553,1] Si vedono persone di montagna venute nelle grandi
città, contrarre brevemente le maniere civili e graziose, ed altre nate in paesi
assai meno rozzi, viver lungamente nelle grandi città, e tornare in patria colle
stesse maniere di prima. Ecco le differenze de' talenti; maggiore o minor
facilità d'assuefarsi e dissuefarsi. Io spererò sempre bene di quel fanciullo,
che dimostri nelle minime cose questa facilità, che sia singolarmente portato
all'imitazione, che facilmente e presto contragga le maniere, la pronunzia ec.
ec. e gli stessi difetti di coloro con cui vive, e presto se ne divezzi, e le
perda secondo la novità delle circostanze ec. ec. che trasportato in un nuovo
paese o in un nuovo circolo, ne pigli subito le virtù o i vizi. Dico finattanto
che nel fanciullo non si può pretendere il discernimento: il quale deriva da una
lunga e varia serie di assuefazioni. (23. Agosto. 1821.).
[1572,3] Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato a
misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più
pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto
conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la
moralità non esista più, e
1573 sia del tutto esclusa
dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche
accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a
una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo
dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non
si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così
viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre. (27. Agosto. 1821.).
[1586,1] La scienza non supplisce mai all'esperienza, cosa
generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar gli
ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa nè
comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai scritto, non sa
scrivere; il filosofo che non
1587 ha veduto il mondo
da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini,
perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo sotto una
forma ch'egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni ec. de'
cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini se
non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le relazioni ch'egli
ha con gli uomini, sono l'unico mezzo ch'egli ha di acquistarne esperienza.
Dunque egli non può mai conoscer {la vera natura di}
coloro a' quali comanda, e de' quali deve regolar la vita. Io ho molto
conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a
comandare, non aveva la menoma idea di quest'arte, nutriva in questo proposito
mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la
carta del navigare. Ell'era frattanto di molto spirito e talento,
sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini
affatto diversi da quel che sono:
1588 il principe che
ne vede e tratta assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono,
tuttavia potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando,
e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una
nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia
tanto regnare, quanto quella dama comandare a' figli e a' domestici. Sotto
questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all'ereditario. Vero
è però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben
governarli. Connaître un
autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc
qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais
les comprendre, Dieu seul le fait.
*
(Corinne. l. 10. ch. 1. t. 2. p. 114.)
(30. Agos. 1821.)
[1646,1] Poniamo che la classe possidente o benestante sia
complessivamente alla classe povera o laboriosa ec. come 1. a 10. Certo è
nondimeno che per 30. uomini insigni e famosi in qualsivoglia pregio d'ingegno
ec. che sorgano nella prima classe, appena uno ne sorgerà nell'altra, e
quest'uno probabilmente sarà passato sin da fanciullo nella prima, mediante
favorevoli
1647 circostanze di educazione ec. Scorrete
massimamente le campagne (giacchè le città sviluppano {sempre} alquanto le facoltà mentali anche dei poveri) e ditemi, se
potete, il tal contadino è un genio nascosto. E pur è certo che vi sono {fra i contadini} tante persone proprie a divenir geni,
quante nelle altre classi in proporzione del numero rispettivo di ciascuna. E
nessuna è più numerosa di questa. Che cosa è dunque ciò che si dice, che il
genio si fa giorno attraverso qualunque riparo, e vince qualunque ostacolo? Non
esiste genio in natura, cioè non esiste (se non forse come una singolarità)
nessuna persona le cui facoltà intellettuali sieno per se stesse
strabocchevolmente maggiori delle altrui. Le circostanze e le assuefazioni col
diversissimo sviluppo di facoltà non molto diverse, producono la differenza
degl'ingegni; producono specialmente il genio, il quale appunto perchè tanto
s'innalza sull'ordinario (il che lo fa riguardare come certissima opera della
natura); perciò appunto è figlio assoluto dell'assuefazione ec. (7. Sett.
1821.).
[1653,1]
1653 Il fanciullo non può contenere i suoi desideri, o
difficilmente, secondo ch'egli è più o meno assuefatto a soddisfarli. L'uomo
difficilmente concepisce un desiderio così vivo come il menomo de' fanciulli, e
di tutti facilmente è padrone, benchè {+certo non abbia cambiato natura, e} la vita umana si componga tutta
di desiderii, e l'uomo (o l'animale) non
possa vivere senza desiderare, perchè non può vivere senz'amarsi, e
questo amore essendo infinito, non può esser mai pago. Tutto dunque è
assuefazione nell'uomo. Questa osservazione si può estendere a tutte le passioni
e a tutte le parti esteriori ed interiori dell'uomo, e della sua vita. (8.
Sett. 1821.).
[1718,1]
1718 Il fanciullino non riconosce le persone che ha
veduto una sola o poche volte, s'elle non hanno qualche straordinario distintivo
che colpisca la fantasia del fanciullo. Egli confonde facilmente una persona a
lui poco nota o ignota con altra o altre a lui note, una contrada del suo paese
da lui non ben conosciuta con la contrada in cui abita, un'altra casa colla sua,
un'[un] altro paese col suo ec. ec. ec.
Eppure l'uomo il più distratto, il meno avvezzo ad attendere, il più smemorato
ec. riconosce a prima vista la persona veduta anche una sola volta, distingue a
prima vista le persone nuove da quelle che conosce ec. ec. ec. {+(I detti effetti si debbono distinguere
in proporzione della diversa assuefabilità degli organi de' fanciulli, della
diversa loro forza immaginativa, che rende più o meno vive le sensazioni ec.
ec.)} Applicate questa osservazione a provare che la facoltà di
attendere, e quindi quella di ricordarsi, nascono precisamente dall'assuefazione
generale: applicatela anche alla
mia teoria del bello pp.
1184-201 , del quale io dico che il fanciullo ha debolissima idea, non
lo distingue da principio dal brutto, non conosce nè discerne i pregi o difetti
in questo particolare, se non saltano agli occhi ec. ec. ec. (17.
Settembre, 1821.).
[1770,3] Alcuni di essi (o sieno individui o specie) possono
anche avere tutta quella
1771 vivacità, mobilità ec.
che anche negli uomini (e molto più nelle diverse specie di animali, le cui
qualità possono ben diversamente combinarsi che non fanno nell'uomo) non hanno a
fare col talento, e neppure con notabile immaginazione, anzi talvolta (come ne'
fanciulli) sono effetto e segno (o forse anche cagione) della mancanza di queste
doti. (22. Sett. 1821.).
[1863,1] Si può dir che l'effetto della filosofia non è il
distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali
in individuali. Vale a dire che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè
crede
1864 che quelle tali speranze ec. siano vane
generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal caso di cui si tratta,
un'eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali, comuni, ed
uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder
belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere {o
sperar} tali le proprie, {+e
quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di creder buone le
persone che vi circondano ec. ec.).} L'effetto presso a poco è lo
stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder
sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è
il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.
[1903,1] Il giovane o dirittamente e precisamente, o almeno
confusamente, e nel fondo del suo cuore; e non solo il giovane ma la massima
parte degli uomini, e possiamo dir tutti, almeno in qualche circostanza, credono
straordinario nel mondo quello appunto ch'è ordinario, e viceversa; straordinari
i casi delle storie, e ordinari i casi de' romanzi. (12. Ott.
1821.).
[1940,1] Quanto influisca l'opinione, la prevenzione, la
ricordanza, l'assuefazione ec. sul gusto o disgusto che producono negl'individui
i sapori, o considerati come semplici, o in composizione, è cosa giornalmente
osservabile e osservata. (18. Ott. 1821.).
[1973,1] Io credo possibile il tradurre le opere moderne o
filosofiche o di qualunque argomento, in buon greco (massime le italiane o
spagnuole o simili), come son certo che non si potrebbero mai tradurre in buon
latino. Se le circostanze avessero portato che la lingua greca avesse nei nostri
paesi prevaluto alla latina, e che quella in luogo di questa avesse servito ai
dotti nel risorgimento degli studi, l'uso di una lingua morta, avrebbe forse
potuto durare più lungo tempo, o almeno esser più felice (nè solo negli studi,
ma in tutti gli altri usi in cui s'adoprò la lingua latina fino alla sufficiente
formazione delle moderne europee); i nostri eleganti scrittori latini del 500.
ec. avrebbero potuto esser quasi moderni, se avessero scritto in greco, laddove
scrivendo in latino si assicurarono di non poter esser lodati se non dagli
antichi, e di servire ai passati
1974 in luogo de'
posteri, e di potersi piuttosto ricordare che sperare; e se la lingua che oggi
si studia tuttavia da' fanciulli, e quella che molti, massime in
italia, si ostinano a voler ancora adoperare in
questa o quella occasione, fosse piuttosto la greca che la latina, essa
servirebbe molto più alla vita moderna, faciliterebbe molto più il pensiero, e l'immaginazione ec. e sarebbe
alquanto più possibile il farne un qualche uso pratico ec. (23. Ott.
1821.). {{V. p.
2007.}}
[1990,1] Ho detto p. 1387 che la grazia ec. deriva dai
contrasti, e perciò spesso l'uomo, e l'amore inclina al suo contrario.
Osserviamo infatti che alla donna debole per natura, piace la fortezza
dell'uomo, e all'uomo viceversa. Il che sebbene deriva immediatamente dalla
naturale inclinazione d'ambo i sessi, contuttociò viene in parte dalla
1991 forza del contrasto, giacchè si vede che ad una
donna straordinariamente forte piace talvolta un uomo piuttosto debole più che a
qualunque altra, e forse più che qualunque altro; e viceversa all'uomo debole
una donna forte. ec. Così dico della delicatezza opposta alla nervosità, e delle
altre rispettivamente contrarie qualità de' due sessi. In tutto questo però
influisce l'abitudine de' diversi individui. (26. Ott. 1821.).
[2156,1] Tutto è animato dal contrasto, e langue senza di
esso. Ho detto altrove p. 1606 della religione, de' partiti
politici, dell'amor nazionale ec. tutti affetti inattivi e deboli, se non vi
sono nemici. Ma la virtù, o l'entusiasmo della virtù (e che cosa è la virtù
senza entusiasmo? e come può essere virtuoso chi non è capace di entusiasmo?)
esisterebbe egli, se non esistesse il vizio? Egli è certissimo che
2157 il giovane del miglior naturale, e il meglio
educato, il quale ne' principii dell'età alquanto sensibile e pensante, e prima
di conoscere il mondo per esperienza, suol essere entusiasta della virtù, non
proverebbe quell'amor vivo de' suoi doveri, quella forte risoluzione di
sacrificar tutto ai medesimi, quell'affezione sensibile alle buone, nobili,
generose inclinazioni ed azioni, se non sapesse che vi sono molti che pensano e
adoprano diversamente, e che il mondo è pieno di vizi e di viltà, sebbene egli
non lo creda così pieno com'egli è, e come poi lo sperimenta. (24. Nov. dì
di S. Flaviano. 1821.).
[2162,1] Si vedono e si osservano tuttogiorno, uomini di goffissimo e tardissimo ingegno,
incapaci non solo di eseguire ec. ma d'intendere ogni altra cosa, essere
sottilissimi, penetrantissimi, prontissimi ad intendere, abilissimi nelle cose
di loro professione e mestiere, e in queste vincere i più grandi talenti, anche
quelli che nelle medesime cose sono abbastanza esercitati, e periti. Che vuol
dir ciò? quel misero ingegno, pare assolutamente un altro nelle cose del suo
mestiere, quantunque non comprenda nulla, non solo del resto, ma neanche di cose
appartenenti alla stessa sfera della sua professione, nelle quali egli non sia
esercitato. Ma dove egli è abituato, intende alla prima perfettamente, ed
eseguisce ec. tutto l'occorrente, ancorchè si tratti
2163 di qualche novità, dentro il piccolo spazio delle sue cognizioni. Vuol dire
che l'ingegno umano, non è che abitudine, le facoltà umane pure abitudini,
acquistabili tutte da tutti, benchè più o meno facilmente, con più lunga o più
corta assuefazione. Vuol dire che quel tale si è fin da fanciullo, o lungamente
esercitato ed abituato in quel genere di cognizioni, e di abilità, e deve
quest'abilità alle pure circostanze che gli hanno proccurato quell'assuefazione.
Giacchè suppongo che non si vorrà stimare innata e naturale in un falegname la
facoltà di maneggiare perfettamente il suo mestiere, ad esclusione di ogni altra
facoltà. E sarà necessario supporre in lui nient'altro che una disposizione
naturale, capace d'ogni altra facoltà mediante l'assuefazione, ma dalle
circostanze determinata a questa facoltà sola. Giacchè che vuol dire che tutti
coloro
2164 che si esercitano da fanciulli e
assiduamente in qualunque facoltà, nel mestiero del padre, ec. vi riescono
abilissimi, e più di qualunque altro, benchè di gran talento, ed essi di
pochissimo? Come si combinano sempre le facoltà pretese innate, con quelle
professioni che il caso della nascita o della vita, ci porta a coltivare
decisamente e studiosamente? Come si combina che un uomo privo d'ogni altra
facoltà innata (quali si suppongono quelli di poco talento) abbia sempre, e
porti seco nel nascere, appunto quella facoltà o quella disposizione naturale e
antecedente, che serve a quella professione che il mero caso, e l'imprevedibile
concorso delle circostanze gli destinano? (24. Nov. 1821.).
[2164,1] Non è dunque vero ciò che dicono coloro, i quali
riconoscendo la forza delle circostanze e delle assuefazioni sui talenti,
2165 e acconsentendo a chiamar la natura piuttosto
dispositrice, che conformatrice, spingono però all'eccesso quella sentenza, che
l'individuo nasca con disposizioni particolarmente ed esclusivamente determinate
a queste o quelle facoltà o abitudini, ed all'acquisto delle medesime, e a
distinguersi in esse, e sovrastare agli altri individui, secondo loro,
diversamente disposti per natura. (24. Nov. 1821.).
[2132,1] La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e
principali, e caratteristiche qualità e parti dell'immaginazione. Or questa
facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandi scopritori delle
grandi verità. E si può dire che da una stessa sorgente,
2133 da una stessa qualità dell'animo, diversamente applicata, e
diversamente modificata e determinata da diverse circostanze e abitudini,
vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Principii matematici della
filosofia naturale di Newton. Semplicissimo è il sistema e l'ordine della
macchina umana in natura, pochissime le molle, e gli ordigni di essa, e i
principii che la compongono, ma noi discorrendo dagli effetti che sono infiniti
e infinitamente variabili secondo le circostanze, le assuefazioni, e gli accidenti, moltiplichiamo gli elementi,
le parti, le forze del nostro sistema, e dividiamo, e distinguiamo, e
suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono realmente unici e
indivisibili, benchè producano e possano sempre produrre non solo nuovi, non
solo diversi, ma dirittamente contrarii effetti. L'immaginazione per tanto è la
sorgente della ragione, come del sentimento, delle
2134
passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio,
una qualità distinta e determinata dell'animo umano, o non esiste, o non è che
una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che noi ne distinguiamo
assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione o facoltà di
riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginazione e intelletto è
tutt'uno. L'intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli
abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello
stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. (20. Nov.
1821.)
[2184,1] Non solo l'uomo è opera delle circostanze, in quanto
queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec. ma anche in quanto al
genere, al modo, al gusto di quella tal professione a cui l'assuefazion sola e
le circostanze l'hanno determinato. P. e. io finchè non lessi se non autori
francesi, l'assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale
fosse quello solo, e che là mi conducesse l'inclinazione. Me ne disingannai,
passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il
gusto degli autori ch'io leggeva, variava l'opinione ch'io mi formava circa la
mia propria
2185 inclinazione naturale. E questo anche
in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o
al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver
cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che
simile a quello del Petrarca. Tali
infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi
meno simili, perchè da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi
formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli,
le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si
possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire
2186
originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà
acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di acquisita ripugna
dirittamente al significato e valore del suo nome.) (28. Nov.
1821.).
[2228,1] È cosa facilmente osservabile che nel comporre ec.
giova moltissimo, e facilita ec. il leggere abitualmente in quel tempo degli
autori di stile, di materia ec. analoga a quella che abbiamo per le mani ec. Da
che cosa crediamo noi che ciò derivi? forse dal ricevere quelle tali letture,
quegli autori ec. come modelli, come esempi di ciò che dobbiamo fare,
dall'averli più in pronto, per mirare in essi, e regolarci nell'imitarli? ec.
non già, ma dall'abitudine materiale che la mente acquista a quel tale stile ec.
la quale abitudine le rende molto più facile l'eseguir ciò che ha da fare. Tali
letture in tal tempo non sono studi, ma esercizi, come la lunga abitudine del
comporre facilita la composizione. Ora tali letture fanno appunto allora
l'uffizio di quest'abitudine, la facilitano, esercitano insomma la mente in
quell'operazione
2229 ch'ella ha da fare. E giovano
massimamente quando ella v'è già dentro, e la sua disposizione e[è] sul traine[train] di eseguire, di applicare al fatto ec.
Così leggendo un ragionatore, per quei giorni si prova una straordinaria
tendenza, facilità, frequenza ec. di ragionare sopra qualunque cosa occorrente,
anche menoma. Così un pensatore, così uno scrittore d'immaginazione, di
sentimento (esso ci avvezza per allora a sentire anche da noi stessi), originale, inventivo ec. E questi
effetti li producono essi non in forza di modelli (giacchè li producono quando
anche il lettore li disprezzi, o li consideri come tutt'altro che modelli), ma
come mezzi di assuefazione. E però, massime nell'atto di comporre, bisogna
fuggir le cattive letture, sia in ordine allo stile, o a qualunque altra cosa;
perchè la mente senz'avvedersene si abitua a quelle maniere, per quanto le
condanni, e per quanto sia abituata già a maniere diverse, abbia formato una
maniera
2230 propria, ben radicata nella di lui
assuefazione ec. (6. Dic. 1821.).
[2378,1]
2378 Che non si dà ricordanza, nè si mette in opera la
memoria senz'attenzione. Prendete a caso uno o due o tre versi di chi vi
piaccia, in modo che possiate, leggendoli una volta sola, tenerli tanto a
memoria da poterli poi ripeter subito fra voi, il che è ben facile in quello
stesso momento che si son letti: e ripeteteli fra voi stesso dieci o quindici
volte, ma con tutta materialità, come si fa un'azione ordinaria, senza pensarvi
e senza porvi la menoma attenzione. Di lì ad un'ora non ve ne ricorderete più,
volendo ancora richiamarli con ogni sforzo. Al contrario leggeteli solamente una
o due volte con attenzione, e intenzione d'impararli, o che vi restino impressi;
ovvero poniamo caso che da se stessi v'abbiano fatto una decisa impressione, ed
eccitata per questo mezzo la vostra mente ad attendervi, anche senza intenzione
alcuna d'impararli. Non li ripetete neppure fra voi, o ripetendoli, fatelo solo
una o due volte con attenzione. Di lì a più ore vi risovverranno anche
spontaneamente, e molto più se voi lo vorrete; e se allora di nuovo ci farete
attenzione, in modo che quella reminiscenza
2379 non
sia puramente materiale, ve ne ricorderete poi anche più a lungo per un certo
tempo. Dico tutto ciò per esperienza, trovando d'essermi scordato più volte
d'alcuni versetti ch'io per ricordarmene avea ripetuto meccanicamente fra me una
ventina di volte, e di averne ritenuto degli altri ripetuti una sola o due
volte, con decisa attenzione alle parti ec. E così d'altre cose ec. E chi sa che
queste o simili osservazioni non fossero il fondamento di quell'arte della
memoria che fra gli antichi s'insegnava e si professava come ogni altra
disciplina, siccome apparisce da molte testimonianze, e fra le altre da Senofonte nel Convito c. 4. §.
62.
[2390,1]
2390 L'attenzione de' fanciulli è scarsa 1. per la
moltitudine e forza delle impressioni in quell'età, conseguenza necessaria della
novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione
loro in mille parti e continuamente, l'impediscono di esser sufficiente in
nessuna: e questa è la distrazione che s'attribuisce ai fanciulli, tanto più
distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perchè
anche la facoltà di attendere non si acquista senz'assuefazione ec: 3. perchè la
natura ha provveduto in modo che fin che l'uomo è nello stato naturale, come
sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l'attenzione la
nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed infelicità
umana. (16. Feb. 1822.)
[2400,1]
Πάλιν δὲ
ἐρωτώμενος
*
(Socrate), ἡ ἀνδρεία πότερον εἴη
διδακτὸν ἢ ϕυσικόν; οἶμαι μέν, ἔϕη, ὥσπερ σῶμα σώματος ἰσχυρότερον πρὸς
τοὺς πόνους ϕύεται, οὕτω καὶ ψυχὴν ψυχῆς ἐῤῥωμενεστέραν πρὸς τὰ δεινὰ
ϕύσει γίγνεσϑαι. ῾Oρῶ γὰρ ἐν τοῖς αὐτοῖς νόμοις τε καὶ ἔϑεσι τρεϕομένους
πολύ διαϕέροντας ἀλλήλων τόλμῃ. Nομίζω μέντοι πᾶσαν ϕύσιν μαϑήσει καὶ
μελέτῃ πρὸς ἀνδρείαν αὔξεσϑαι.
*
Ξενοϕ.
ἀπομνημ β. γ.᾽ κεϕ. ϑ.᾽ § α᾽ -β᾽.
Così possiamo discorrere di tutto il resto. (16. Aprile, Martedì in Albis,
1822.).
[2401,1]
2401
Ετεκμαίρετο δὲ
*
(Socrate)
τὰς ἀγαϑὰς ϕύσεις ἐκ τοῦ ταχύ τε μανϑάνειν οἷς
προσέχοιεν, καὶ μνημονεύειν ἃ ἂν μάϑοιεν
*
. Senof.
Ἀπομνημον. l. 4. c. l. §. 2.
(19. Aprile. Venerdì in Albis, 1822.).
[2523,2] Il giovane istruito da' libri o dagli uomini e dai
discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e
inevitabilmente
2524 che il mondo e la vita per esso
lui debbano esser composte d'eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di
piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma più veramente egli
si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso,
che quel che gli è detto e predicato, cioè l'infelicità, le disgrazie della
vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza,
l'egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l'odio e invidia de'
pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi,
nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto
l'opposto, cioè quell'idea ch'egli si forma della vita e degli uomini
naturalmente, e indipendẽtemente dall'istruzione, quella che forma il suo
proprio carattere, ed è l'oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, {e speranze,} l'opera e il pascolo della sua
immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.).
[2596,1]
2596 Quanta sia l'influenza dell'opinione e
dell'assuefazione anche sui sensi, l'ho notato altrove p. 1733
coll'esempio del gusto, che pur sembra uno de' sensi più difficili ad essere
influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi
ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon
sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch'essi s'avessero) m'era lodato
per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose,
ch'effettivamente secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi
piacciono, ma mi mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti
cibi s'è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente
mia s'è avvezzata a giudicar da se, e s'è venuta rendendo indipendente dal
giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la
sensazione. La qual assuefazione ch'è propria dell'uomo, e ch'è generalissima,
potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste
minuzie, e determina il giudizio
2597 del palato sulle
sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva
essere prima della detta assuefazione. In somma tutto nell'uomo ha bisogno di
formarsi; anche il palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il
giudizio de' fanciulli sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente
al gusto, è incertissimo, {confusissimo} e
imperfettissimo: e ch'essi in moltissimi, anzi nel più de' casi non provano
punto nè il piacere che gli {uomini fatti} provano nel
gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio
i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di
cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch'essi ne provano)
è poco meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa
dell'inesercizio del palato.
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2862,1]
2862 L'amicizia, non che la piena ed intima confidenza
tra' fratelli, rade volte si conserva all'entrar che questi fanno nel mondo,
ancorchè siano stati allevati insieme, ed abbiano esercitato l'estremo grado di
questa confidenza sino a quel momento; e di più seguano ancora a convivere. E
pure se l'uomo è capace di piena ed intima confidenza, e s'egli dovrebbe
conservarla perpetuamente verso qualcuno, questo dovrebb'essere verso i fratelli
coetanei, ed allevati con lui nella
fanciullezza: e dico dovrebb'essere, non per forza naturale {della}
{congiunzione di sangue,} la qual forza è nulla e
immaginaria, e niente ha che fare nel produr quella confidenza o nel
conservarla, ma per forza naturale dell'abitudine e dell'abitudine contratta
{nel} primo principio delle idee e delle abitudini
dell'individuo, e nella prima capacità di contrarle, {e
conservata} tutto quel tempo che dura la maggiore intensità e
disposizione {ed ampiezza,} e il maggior esercizio di
questa capacità. Nondimeno questa confidenza così fortemente stabilita e
radicata si perde per la varietà che s'introduce nel carattere de' fratelli
mediante il commercio cogli altri individui della società. Ma se questo
2863 commercio non avesse avuto luogo, quella
confidenza sarebbe stata perpetua, com'ella non è mai cessata fino a quell'ora.
Che vuol dir ciò, se non che nei caratteri degli uomini, novantanove parti son
opera delle circostanze? e che per diversissimi ch'essi appariscano, come spesso
accade anche tra fratelli, in questa diversità non è opera della natura, se non
una parte così menoma che saria stata impercettibile? È quasi impossibile il
caso che tutte le minute circostanze e avvenimenti che incontrano all'un de'
fratelli nell'uso della società, incontrino all'altro, o sieno uguali a quelle
che incontrano all'altro, ancorchè postogli da vicino. Questa diversità
diversifica due caratteri {che parevano affatto, ed erano
quasi affatto, compagni,} e com'ella è inevitabile, così la
diversificazione di {questi} caratteri nella società
non può mancare. E ho detto le minute circostanze, contentandomi di queste,
perchè {anche} la somma di cose minutissime basta a
produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull'indole degli uomini, massime
allora ch'eglino sono principianti nel mondo, e che {in
essi} la capacità delle abitudini e delle opinioni, ossia la
formabilità dell'indole, è ancor
2864
{molta e} grande e in buon essere. (30. Giugno.
1823.).
[3078,1] La più bella e fortunata età dell'uomo, la sola che
potrebb'esser felice oggidì, ch'è la fanciullezza, è tormentata in mille modi,
con mille angustie, timori, fatiche dall'educazione e dall'istruzione, tanto che
l'uomo adulto, anche in mezzo all'infelicità che porta la cognizion del vero, il
disinganno, la noia della vita, l'assopimento della immaginazione, non
accetterebbe di tornar fanciullo colla condizione di soffrir quello stesso che
nella fanciullezza ha sofferto. E perchè così tormentata
3079 e fatta infelice quella povera età, nella quale l'infelicità
parrebbe quasi impossibile a concepirsi? Perchè l'individuo divenga colto e
civile, cioè acquisti la perfezione dell'uomo. Bella perfezione, e certo voluta
dalla natura umana, quella che suppone necessariamente la {somma} infelicità di quel tempo che la natura ha manifestamente
ordinato ad essere la più felice parte della nostra vita. Torno a domandare.
Perchè fatta così infelice la fanciullezza? E rispondo più giusto. Perchè l'uomo
acquisti a spese di tale infelicità quello che lo farà infelice per tutta la
vita, cioè la cognizione di se stesso e delle cose, le opinioni, i costumi le
abitudini contrarie alle naturali, e quindi esclusive della possibilità di esser
felice; perchè colla infelicità della fanciullezza si compri e cagioni quella di
tutte le altre età; o vogliamo dire perch'ei perda colla felicità della
fanciullezza, quella che la natura avea destinato {e
preparato} siccome a questa, così a ciascun'altra età dell'uomo, {+e ch'altrimenti egli avrebbe ottenuta in
effetto.}
(1. Agosto. 1823.).
[3265,1]
3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii
dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro,
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano,
quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere
al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e
fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma
considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in
modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire
che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è
che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria
e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o
anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è
sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli
onori o vantaggi ch'egli
3266 possa e debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi
lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,}
senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze
ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul
futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a
compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita.
Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il
giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che
non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto.
Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e
cospirante con quella del corpo, dalla
3267 freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un
picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a
fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale
inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni
producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di
dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella
vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un
brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età
dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel
disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor
proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento
3268 della vita, non è capace se non di fievoli
desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso
fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così
lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo
ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue
speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si
propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la
gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e
torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è
pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono
tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive
per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana
3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se
stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata
abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed
abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)
[3271,1] Secondo ch'io osservo e che si potrà spiegare colle
ragioni da me recate in altri luoghi pp. 97-99
p.
1589
p.
1605, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in
qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla
beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità
delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o
rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco
o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in
proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle
sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che
l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici.
{Veggansi le pagg.
3765-68.} Quanto più l'uomo è in istato di esser
3272 soggetto di compassione, o di bramarla, o di
esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di
meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso
tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli
aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui,
tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli
non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o
pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo
debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e
si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è
destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole
comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera
altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed
{ancora} agli uomini più deboli e più bisognosi di
lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e
3273 massime
quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o
del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e
travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato
perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili.
Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur
molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se
le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta
e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli
altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di
esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne'
patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo {come} rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui
beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar
tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si
crede in diritto di esigerlo, quasi
3274 egli medesimo
n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di
aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al
possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini,
nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che
ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali
ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui
sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a
dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire
alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel
mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben
sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.

[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi.
{Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi.
{Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).


[3345,1]
3345 7. La memoria, indipendentemente dall'esercizio,
il quale anzi per se, tanto l'accresce quanto è maggiore, più assiduo, più
lungo, decresce evidentemente (almeno per l'ordinario) secondo l'età. Anzi
osservando, si vede chiaro ch'ella ne' fanciulli è maggiore naturalmente, e
minore per difetto o scarsezza d'esercizio, e che coll'età crescono le sue
forze, per così dire artifiziali e fattizie, e scemano le naturali; finchè
distrutte queste ne' vecchi quasi affatto, anche quelle divengono inutili, e si
perdono e dileguano, mancato loro il subbietto, cioè la disposizion fisica {a ritenere} degli organi destinati alla memoria. Le
forze della memoria nell'uomo maturo sono quasi medie {tra
quelle del fanciullo e del vecchio,} perchè le fattizie suppliscono
alle naturali, che nel fanciullo sono maggiori assai che nell'uomo maturo, ma in
questo sono maggiori assai che nel vecchio, e bastano {ancora} a servir di materia {e subbietto}
alle forze artifiziali e derivanti dall'esercizio generale e particolare,
passato e presente, ch'è maggiore nell'uomo maturo che nel fanciullo ec. È anche
indubitabile che fisicamente altri ha maggiore, altri minor memoria, alcuni
prodigiosa, altri niuna; e ciò in pari età, e
3346
supposta eziandio la parità di tutte l'altre circostanze. E questa differenza
fisica talora è primitiva e innata, {{ossia dalla nascita,}} talora avventizia, ma pur sempre fisica, e
indipendente, almeno in gran parte e radicalmente, dalle cause morali ec.
Altresì è certo che in uno stesso individuo in una stessa età, anzi pure non di
rado in una stessa giornata in diverse ore, per cause evidentemente fisiche, la
memoria ora è più pronta e maggiore e più chiara, ora meno; ora più ora men
facile sia ad apprendere sia a rimembrare, e disposta a farlo più o meno
perfettamente ec. Or tutto questo discorso della memoria in cui si scorge tanto
di fisico ec. perchè non dovrà eziandio applicarsi all'ingegno, al talento,
all'intelletto ec. ch'è pure una facoltà dell'anima come la memoria, e viene ed
è fondato, siccome questa, in una disposizione naturale, primitiva e innata
nell'uomo ec.? (3. Settembre. 1823.). {{Se la
disposizion fisica e naturale è varia quanto alla memoria nelle diverse età,
ne' diversi individui, in diversi tempi ec. indipendentemente dal morale,
perchè non eziandio quanto
3347 all'intelletto e al
talento? (3. Settembre. 1823.).}}
[3440,1] Il giovane innanzi la propria esperienza, per
qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate o
disamate, credute o non credute, {ec.} non si
persuaderà mai efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, nè deporrà il
desiderio e la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e de' piaceri
sociali, nè l'opinione favorevolissima, e nel fondo del cuore,
3441 fermissima, della possibilità, anzi probabilità di
esser felice pigliando parte alla vita, all'azione ec. Perchè? perchè
quest'opinione, desiderio, speranza, non è capriccio ma natura, nè si estirpa
dall'animo, come le opinioni o passioni accidentali, nè val tenerezza e
pieghevolezza e docilitate d'età nè d'indole a render queste cose estirpabili.
Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha provvveduto di
speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato colla speranza il
desiderio di quelle età. (15. Sett. 1823.).
[3446,1] Del resto, generalizzando, è da osservare che il
primo concepimento d'un desiderio vivissimo di cosa difficile a ottenere, il
qual concepimento non ha più luogo se non se ne' fanciulli e nella prima
gioventù, è sempre accompagnato da spavento, e ciò si spiega colle cagioni
sopraddette. Massime se la cosa è o pare impossibile ad ottenere; l'uno e
l'altro de' quali casi è ben frequente nelle suddette età. Alle quali, per
queste ragioni, i desiderii {come} son penosissimi
nella lor durata e nel loro corso, così riescono spaventosi nella lor nascita
{+(e più quel d'Amore, ch'è più
penoso, perchè più forte; massime negl'inesperti).} E si dice per
ischerzo, ma non senza ragione di verità, che bisogna soddisfare ai desiderii
de' fanciulli per non trovargli morti dietro alle porte. (16. Sett.
1823.).
[3480,1] Io notava un vecchio ributtantemente egoista,
compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sacrifizi e sofferenze
volontarie (vere o false ch'elle fossero, e volontarie veramente o no), e farlo
con una certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime a chi conoscesse il
carattere della persona, lui essere persuaso di fare e sostener cose eroiche, e
che quei sacrifizi e patimenti dimostrassero in lui una gran superiorità
d'animo, e rinunzia di se stesso e del suo amor proprio. Egli aveva ben caro che
così paresse agli
3481 altri, e a questo fine ne
parlava, ma dava bene ad intendere che tale si era infatti la sua propria
opinione. Tanto poteva in un animo il più radicato nel più schietto e completo
egoismo, intollerante d'ogni menomo incomodo, e capace di sacrificar chi e che
che sia ad una sua menoma comodità; tanto poteva, dico, in un animo qual esso
era infatti, e di più totalmente inerte, solitario, e segregato affatto dalla
società, il desiderio di parere sì agli occhi altrui, sì ancora a' suoi propri,
capace di grandi sacrifizi, superiore all'amor proprio, il contrario di egoista,
ed insomma eroe. E tanto è vero che non si trova quasi uomo così impudentemente
e perfettamente egoista nel fatto, che non desideri grandemente di comparire
almeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, e non si compiaccia
sommamente dell'opinione di essere un eroe. Perocchè a tutti è grato il fare
stima di se, e si può esser certi che tutti, o in un modo o nell'altro, si
stimano, e grandemente, e così continuamente come e' si amano, che vuol dir
tuttafiata, senza intervallo alcuno,
3482 benchè la
stima di se stesso (come anche l'amore, secondo che altrove s'è dimostrato pp. 2488-92 ) abbia in un
medesimo individuo ora il più ora il manco, secondo diverse circostanze e
cagioni. Del resto puoi vedere la {pag. {124}.}
3108-9. e pp. 3167-9.
{+Questo che io dico dei vecchi {egoisti} si può applicare ai fanciulli, egoisti
estremi, ignari ancora dell'eroismo, perchè niuno gliene ha parlato, e
nondimeno vaghi di molte piccole glorie, come di star male o di farlo
credere, perchè si parli di loro nella famiglia, e per aver qualche
somiglianza cogli adulti, alla quale aspirano generalmente e continuamente
in mille cose, solo per vanità o vogliamo dire ambizione ec. V. l'Alfieri di sè che facea gli esercizi militari da
piccolo.}
(20. Sett. vigilia della Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.).
[3684,1]
3684 Non v'è persona che riesca più intollerabile e che
meno sia tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott.
1823.).
[3839,1]
3839 Il giovane è in queste cose così costante,
risoluto, forte, durevole, che gli educatori e quelli che han cura di lui, anche
sommamente benevoli, assai spesso e il più delle volte, stimano tali risoluzioni
{e tali forme di vita} essergli naturali, nascere
dalle sue inclinazioni, esser conformi al suo vero carattere, al suo vero
piacere, e però determinano di non distornelo, {non
impedirnelo,} di confermarvelo, di secondarlo, e così fanno, anche
talora senz'alcun proprio interesse per sola premura ed affezione verso di lui.
E' s'ingannano sommamente e in tali casi la lor poca cognizione del cuore umano
e de' suoi mirabilissimi accidenti, de' fenomeni dell'amor proprio e delle sue
sottilissime e sfuggevolissime operazioni e modi di agire, e stravagantissimi
effetti e trasformazioni, nuoce grandemente a quei poveri giovani, i quali ben
potrebbero ancora, ma non senza molta forza e molto artifizio, essere strappati
a quelle dure risoluzioni, azioni e abitudini, e riconciliati con se stessi e
con la vita, vero partito che si dovrebbe prendere in tali casi da un prudente
{e filosofo e pietoso} curatore, e solo mezzo di
svolgere il giovane da' tristi partiti ch'egli ha abbracciati o è per
abbracciare, e di sottrarlo dalla vera infelicità che glien'è per seguire,
massime calmato il furore e intiepidito
l'ardore dell'età, che sono appunto
quelli che cagionano quella tal sua pazienza e che l'agghiacciano, e che lo sostengono e nutrono in quella gelata, sterile,
ed arida vita ch'egli ha intrapreso, o nella risoluzione d'intraprenderla; ma
poco potranno durare a sostentarlo, e consumati o diminuiti, egli sentirà tutta
3840 la pena del suo stato, e gli mancherà la virtù
di soffrirlo, dopo impostasene la necessità. La qual virtù manca insieme colla
compiacenza ch'ei prova in soffrire o in voler soffrire, la qual compiacenza non
può essere perpetua, e {il tempo e} l'età, se non
altro, l'estingue. Massime ch'egli non {potrà} esser
consolato e reso indifferente verso le sue privazioni dal disinganno, non avendo
mai provato quello di ch'ei si privò, e non essendosene privato per disinganno e
per dispregio ch'e' n'avesse, anzi {al} contrario per
inganno, perch'ei ne faceva gran conto, perchè assaissimo gli costava il
privarsene. Chè questa è la differenza da questa sorta di sacrifizi che or
discorriamo, e quella più facile e più nota, {+(perchè proveniente da causa più manifesta e facile a
comprendere e a vederne la connessione coll'effetto)} e forse più
ordinaria, o altrettanto, che nasce dal disinganno, dall'esperienza de'
godimenti, dal disgusto della vita tutta felice com'ella può essere.
[3902,5] L'uomo che ha molta capacità e quindi facilità,
prontezza e moltiplicità di assuefazione, per questa medesima causa ha
altrettanta capacità, facilità ec. di dissuefazione. Viceversa nel caso
contrario. E sempre proporzionatamente, anzi sempre ugualmente, alla misura
dell'una capacità risponde quella dell'altra. L'una
3903 e l'altra o sono la cosa stessa diversamente considerata, o due effetti
gemelli d'una stessa causa, che non può produr l'uno senza produr l'altro nel
medesimo grado. Dalle medesime cagioni fisiche, morali ec. che producono
l'assuefabilità di un uomo o dell'uomo ec. nasce altrettanta sua dissuefabilità.
E dall'una si può argomentare all'altra. L'uomo è assuefabile; dunque egli è
dissuefabile; o viceversa. Il tale individuo ha tanta capacità di assuefazione;
dunque tanta di dissuefazione nè più nè meno.
[3950,2] Non si dà ricordanza senza previa attenzione, ec.
come altrove pp. 1733-37
pp. 2110-12
pp. 2378-81
p.
3737. Questa è una delle principali cagioni per cui i fanciulli, in
principio massimamente, stentano molto a mandare a memoria, e più degli uomini
maturi, o giovani. Perocchè essi sono distratti e poco riflessivi ed attenti,
per la stessa moltiplicità di cose a cui attendono, e facilità, rapidità e forza
con cui la loro attenzione è rapita continuamente da un oggetto all'altro. Gli
uomini distratti, poco riflessivi ec. non imparano mai nulla. Ciò non prova la
lor poca memoria, come si crede, ma la lor poca o facoltà o abitudine di
attendere, o la moltiplicità delle loro attenzioni, il che si chiama
distrazione. Perocchè la stessa troppa facilità di attendere a che che sia, o
per natura o per abitudine, la stessa suscettibilità della mente di esser
vivamente affetta e rapita da ogni sensazione, da ogni pensiero; moltiplicando
le attenzioni, e rendendole tutte deboli, sì per la moltitudine, {{e confusione,}} sì per la necessaria brevità di
ciascuna,
3951
{da cui} ogni piccola cosa distoglie l'animo,
applicandolo a un altro, e per la forza stessa con cui questa seconda attenzione
succede alla prima, cancellando la forza di questa, rende nulla o scarsissima la
memoria, deboli e poche le reminiscenze. E così la stessa facilità e forza
eccessiva di attendere produce o include l'incapacità di attendere, e così suol
essere chiamata, benchè abbia veramente origine dal suo contrario, cioè dalla
troppa capacità di attendere (come sempre il troppo dà origine o equivale e
coesiste al nulla o alla sua qualità o cosa contraria); e l'eccesso della
facoltà di attendere si riduce alla mancanza o alla scarsezza di questa facoltà,
secondo che detto eccesso è maggiore o minore. Ciò ha luogo principalmente, per
regola e ordine di natura, ne' fanciulli. - Laddove una sensazione ec. una sola
volta ricevuta ed attesa, basta {{sovente}} alla
reminiscenza anche più viva, salda, chiara, piena e durevole, essa medesima
mille volte ripetuta e non mai attesa non basta alla menoma reminiscenza, o solo
a una reminiscenza debole, oscura, confusa, scarsa, manchevole, breve e
passeggera. Perciò venti ripetizioni non bastano a chi non attende per fargli
imparare una cosa, che da chi attende è imparata talora dopo una sola volta, o
con pochissime ripetizioni estrinseche ec. (7. Dec. Vigilia della
Concezione. 1823.).
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4070,1] Gli uomini governati in pubblico o in privato da
altri, e tanto più quanto il governo è più stretto, {(i
fanciulli, i giovani ec.)} accusano sempre, o tendono naturalmente ad
accusare de' loro mali o della mancanza de' beni, delle noie e scontentezze
loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima
l'innocenza di questi, e la impossibilità o d'impedire o rimediare a quei mali o
di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose
con loro. La cagione è che l'uomo essendo sempre infelice, naturalmente tende ad
incolparne altresì sempre non la natura delle cose e degli uomini, molto meno ad
astenersi dall'incolpare alcuno, ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa
particolare in cui possa sfogar l'amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che
egli possa per cagione di questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali
sarebbero assai men dolci di quello che sono a chi soffre se non cadessero
contro alcuno riputato in colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera
poi che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli immagina,
e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le
persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì
sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in
mancanza d'altri
4071 oggetti, rivolgiamo seriamente
l'odio e le querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed
è a' moderni l'incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro uomo,
non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di persuaderci della
sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più ancora perchè l'odio e le querele
sono più dolci quando si rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere
testimoni, e sottoposte alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane
querele intendiamo fare di loro. Massimamente poi è dolce l'odio e il lamento
quando è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì perchè la colpa non
può veramente appartenere se non a esseri intelligenti. Quelli che ci governano
sono {da noi facilmente} scelti a far questa persona di
rei de' nostri mali, {+che non hanno
altro reo manifesto o accusabile,} e a servir di {soggetto e} scopo della vana vendetta che ci è dolce fare de'
medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più adattati, e quelli di cui
ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con più di verisimilitudine.
Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d'odio e di
querele de' governati. Gli uomini sono
sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del
loro stato, perciò medesimo di chi li governa. (Essi sentono e sanno bene di
essere infelici, di patire, di non godere, e in ciò non s'ingannano. Essi
pensano aver diritto di esser felici, di godere, di non patire, e in ciò ancora
non avrebbero il torto, se non fosse che in fatto questo che essi pretendono è,
non che altro, impossibile.)
4072 E come non si può
fare che gli uomini sieno mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così
niun governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a' soggetti,
qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o sollevarli
dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai ragionevolmente
sperare che essi non l'odino e non lo querelino, anche i più savi, perchè è
natura nell'uomo il lagnarsi di qualcuno, quasi altrettanto che l'essere
infelice, e questo qualcuno è per l'ordinario e molto naturalmente quello che li
governa. Però circa il governare non v'ha pur troppo che due partiti veramente
savi, o astenersi dal governo, {+sia
pubblico sia privato,} o amministrarlo totalmente a vantaggio proprio
e non de' governati. (17. Aprile. 1824. Sabato Santo.).
[4103,6]
Il est
aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque
*
(celle
du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les
femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se
livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles
étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de
grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts;
et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité
contre elle - même.
*
Thomas
Essai sur les Femmes.
Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4.
p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista.
1824.).
[4180,3] Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più
affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione
rassegnata. (Bologna. 3. Giugno. 1826.).
[4194,1] La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur
affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis
(v. Sueton.
Tiber. c. 24-33), le sue
difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla
seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica,
dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di
artifiziale. Tiberio era certamente, a
differenza di Cesare, di natura timida.
A differenza poi e di Cesare che fin da
giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e
il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari;
Tiberio, nato privato, vissuto la
gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto
anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non
aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in
mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato
da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v.
p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non
ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di
offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di
tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo
potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è
smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.
4195
Tiberio era certamente cattivo, perchè
vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa
che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che
l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui
non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur
disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le
circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed
umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche
cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a
perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più
risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura
fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi
sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi
siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o
presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte,
una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è
{al mondo} assai meno politica, assai meno
finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte,
{e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1.
Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai
più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o
utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad
essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di
fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e
dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è
natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii,
opinioni, in tutto; di esser contraddittorio
4196 ed
incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii;
di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per
combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed
opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto
dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni
momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina.
(Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.).
Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza
nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e
dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era
divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4.
Sett. 1826.).
[4226,4]
Bellissima è l'osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ ϕιλαδελϕία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita
umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori
(dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati
come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè
circondato da persone benevole, {e benchè senza
inimici,} pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore
4227 o timidezza continua, rispetto ai mali
indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed
abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non perchè
io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica
natura, senza alleati, per la lontananza de' miei;
(Recanati. 16. Nov. 1826.)
{{e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un
vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al
pensiero, all'aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie
ec.}}
[4241,3] Non so s'io m'inganno, ma certo mi par di scorgere
nella maniera {sì} di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo
esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla,
sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa
sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed
estimazion lodevole di se stesso, una generosità d'animo, non acquisita col
tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della
vita, e nata dalla considerazione {altrui} riscossa fin
da' primi anni ed abituata. Io credo che questa tale magnanimità e di pensare e
di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce, nè satirica, o mista
dell'uno e dell'altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati
nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene. Vi si troverà sempre una
differenza. Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla ricchezza, che
suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo. Simili
intorno alla potenza, dignità, fortuna. Simili intorno ai contrarii. Vedi Alfieri
Vita sua, capo 1. principio. Messala nitidus et
candidus, et quodammodo prae se ferens in dicendo nobilitatem
suam.
*
Quintiliano 10. 1. (6.
1827. Epifania.). {{Forse Galileo non riusciva, come fece, il primo
riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non così libero,
se la fortuna non lo facea nascere di famiglia nobile.}}
{{V. p.
4419.}}
[4254,4]
I know, by my own
experience, that the more one works, the more willing one is to work. We
are all, more or less, des animaux d'habitude.
I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five
hours together every day, more willingly than I should now half an
hour.
*
Chesterfield, Letters to his son, lett. 318.
I have so
little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so
often. Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted
truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in.
One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and
therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal
of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then
they always
4255 find time enough to do it in.
Lett. 320.
*
It is not without
some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme
idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state
of affairs here.
*
Lett. 321.
(12. Marzo. 1827.). {{v. p.
4281.}}
[4259,5] Pel manuale di
filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato
esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a
fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da
occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare
per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire
una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che
turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali
minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e
sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della
immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali
immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla
occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran
differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa
immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella
vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito
Lord Nelvil); e le
quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e
della società, e alla solitudine;
4260 s'ingannano in
ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di
fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione
esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con
afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento
reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita
solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della
solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a
temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo
aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani.
Ma certo un uom d'affari {{(senz'ombra di filosofia)}}
ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle
faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di
quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e
nell'ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo.
1827.)
[4261,2] Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi
medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni
comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra {quel degli altri fuor di modo e ragione.} Questo è
natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente
d'orgoglio {e di disistima altrui,} sconosciuta affatto
a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e
propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il
più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che
trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi
con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non
disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo,
più o meno, non dimostri {esteriormente} questa sua
opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte {ben
distinta} di orgoglio, e di stima di se in pregiudizio o abbassamento
d'altrui, della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle
dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che
potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti
dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser
mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e
di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo
secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle
storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale;
forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi
pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili?
Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e
parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi
ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il
resto d'europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so
ben se ve n'abbia.
[4266,1] In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere,
tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna,
per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche
altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo.
1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare)
nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del
mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta,
alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una
dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi.
{+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli
spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze,
sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno
altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una
cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai:
dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien
mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo.
Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio
e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso
disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a
provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata
4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a
disperare {omai} del piacere. (30. Marzo.
1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete,
la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se
e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro
pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso
di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco
lei.}}
[4274,2] Pel manuale di
filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni
amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti
a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per
quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue
negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se
non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un
animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità
è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si
direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di
romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto
studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi
coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo
del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere
che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da
volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).
[4275,1]
Alla p.
4275[4245.] Un'altra cagione per
la quale io amo la μονοϕαγία è per non avere (come necessariamente avrei se
mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto,
d'importuns laquais, épiant nos
discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un
oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un
trop long dîner.
*
(Rousseau, Émile.)
Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in
presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne
annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si
compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in
quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi
a tavola si faceano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano
meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non
curarsi, e di non temere le loro railleries e
disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che
noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero
che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo
cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma
sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza
molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno
che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in
ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare
tranquillamente, e {pienamente senza disturbo alcuno,
i} piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro
schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi
dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano
necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che
ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel
4276 luogo
dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la
cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono
abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire,
e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo
disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro
cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto
umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o
turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi
tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito,
avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone
uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra
causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è
riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma
che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è
mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò,
quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella
molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori
intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo,
non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta
ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi
anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che
si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento
fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da
chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7. Apr. 1827.).
[4280,1] Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia
un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un
dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6.
Ciò accade anche nei nostri bambini. V.
Roberti
Lettera di un bambino di 16
mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!!
(Recanati. 13. Apr. Venerdì santo.
1827.). {{
V. p.
4419.}}
[4283,2] Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi
per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo
fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se
medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
[4289,1] Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà
antica, dico di quella de' greci e de' romani. Vedesi appunto da quel tanto
d'instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le
scuole e l'uso della ginnastica, l'uso dei bagni e simili. Nella educazione
fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d'ogni
età dell'uomo, in ogni parte dell'igiene pratica, in tutto il fisico della
civiltà, {+v. p. 4291.} gli antichi ci sono ancora
d'assai superiori: parte, se io non m'inganno, non piccola e non di poco
momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento
sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì
fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticati[dimenticate] per la barbarie, da cui non siamo ancora del
tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento;
consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. (18. Sett.
1827.)
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