24. Giugno. 1822.
[2495,1] Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione
d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta
infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non
solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori
beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e
nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti,
non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa
osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha
più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi
e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato,
con
2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso
la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i
piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.;
in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti;
contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più
bell'aspetto possibile, {+e di più
essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla
sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e
pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto
più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo
ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura
dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura,
vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro
che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del
piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24.
Giugno. 1822.). {{V. p.
2528.}}