7. Apr. 1827.
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Alla p.
4275[4245.] Un'altra cagione per
la quale io amo la μονοϕαγία è per non avere (come necessariamente avrei se
mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto,
d'importuns laquais, épiant nos
discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un
oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un
trop long dîner.
(Rousseau, Émile.)
Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in
presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne
annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si
compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in
quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi
a tavola si faceano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano
meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non
curarsi, e di non temere le loro railleries e
disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che
noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero
che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo
cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma
sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza
molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno
che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in
ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare
tranquillamente, e {pienamente senza disturbo alcuno,
i} piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro
schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi
dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano
necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che
ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel
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dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la
cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono
abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire,
e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo
disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro
cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto
umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o
turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi
tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito,
avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone
uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra
causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è
riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma
che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è
mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò,
quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella
molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori
intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo,
non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta
ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi
anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che
si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento
fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da
chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7. Apr. 1827.).