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Disperazione.

Despair.

1545,1-1547,1 107,1 188,1 1628,1 1653,2 1975,1, marg. 2107,1 2159,1 2217,1 2876,1 4079,1 4090,5 4272,2

Disperazione, necessaria a goder della vita.

Despair, necessary to enjoy life.

2495,1

Disperazione vera non si dà in natura.

True despair is not given in nature.

4145,4

Disperazione tranquilla e benevolente.

Calm and benevolent despair.

614,2 618,1.2 1653,2 Vedi Rassegnazione. See Resignation.

[107,1]  Il riso dell'uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura. {{V. p. 188.}}

[188,1]  Notate che ne' pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel lasciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della stessa disperazione e pazzia. Cosa però notabilissima anche nei savi ridotti alla intiera disperazione della vita, e massimamente dopo concepita una risoluzione estrema, che li fa riposare appunto in questa estremità d'orrore, e li placa, come già sicuri della vendetta sopra la fortuna e se stessi. (26. Luglio 1820.).

[1628,1]  La disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto languore e insensibilità di speranza, è un piacere per se, e perchè l'uomo non sentendo la speranza, appena sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una specie di torpore, benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in tal circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere. (4. Sett. 1821.).

[1653,2]  Ho detto altrove p. 714 pp. 1176-79 che il troppo produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente: ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec. {+eccetto per un'aria di meditazione stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo  1654 ora che ciò non si deve solamente restringere all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna, insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale ec. e puoi vedere la p. 1648. (8. Sett. 1821.).

[1975,1]  Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, {+di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubbriachezza, e furore,} ec. scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto tutta la strada che ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua marcia, e il suo progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente, ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento  1976 tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e così chiaramente concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse esso stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea concepite e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con egual chiarezza, i rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro concatenazioni che l'avevano portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e le verità scoperte nel calore, per grandi che siano non mettono radici nella mente umana, finchè non sono sanzionate dal placido progresso della fredda ragione, arrivata che sia dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità scoprivano certamente gli antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti facevano nel cammino della ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti mezzi che abbisognano al puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi altrettanto, grandi spazi occupati poi da' loro posteri, preoccupavano essi e  1977 conquistavano in un baleno, ma questi progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo abbisognava a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi erano piuttosto viaggi che conquiste, perchè l'individuo penetrava solamente in quei nuovi paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse il suo dominio; i progressi de' grandi individui non giovavano gli uni agli altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel mondo, che li rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente chiaro quello che ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi spiriti penetravano nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro, e quando anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo  1978 punto, e quivi casualmente si riunissero, non si riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola altrui, non s'accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n'avvedeva, perchè non le dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre che le stesse ragioni che impedivano all'universale di riconoscere quelle proposizioni per pienamente vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo. E così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non producevano frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e di aiutare e legare una verità coll'altra mediante il commercio de' pensieri, e della società pensante. (23. Ott. 1821.).

[2107,1]  Ho detto pp. 1648-49 pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento  2108 si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca, e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita. Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può  2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità, divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno suscettibili d'  2110 infelicità viva per tutta la vita, e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).

[2159,1]  Lo stato di disperazione rassegnata, ch'è l'ultimo passo dell'uomo sensibile, e il finale sepolcro della sua sensibilità, de' suoi piaceri, e delle sue pene, è tanto mortale alla sensibilità, ed alla poesia  2160 (in tutti i sensi, ed estensione di questo termine), che sebbene la sventura, e il sentimento attuale di lei, pare ed è (escluso il detto stato) la più micidial cosa possile[possibile] alla poesia (nè solo la sventura attuale, ma anche l'abituale, che deprime miseramente l'immaginazione, il sentimento, l'animo); contuttociò se può succedere che nel detto stato, una nuova e forte sventura, cagioni all'uomo qualche senso, quel punto, per una tal persona, è il più adattato ch'egli possa mai sperare, alla forza dei concetti, al poetico, all'eloquente dei pensieri, ai parti dell'immaginazione e del cuore, già fatti infecondi. Il {nuovo} dolore in tal caso è come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi istupiditi. Il cuore dà qualche segno di vita, torna per un momento a sentir se medesimo, giacchè la proprietà e l'impoetico della disperazione rassegnata consiste appunto, nel non esser più  2161 visitato nè risentito {neppur} dal dolore.

[2217,1]  Didone, Aen. 4. 659. seg.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *

Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso,  2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.

[2876,1]  L'uomo si rassegna a soffrire {passivamente,} o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano e senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente senz'alcun frutto. Quindi è che dall'abito della rassegnazione sempre nasce {noncuranza, negligenza,} indolenza, inattività, e finalmente pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e quasi immobilità. (2. Luglio. 1823.).

[4079,1]  Nel Dialogo della Natura e dell'Anima ho considerato come la ragione e l'immaginazione e in somma le facoltà mentali eccellenti nell'uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e  4080 senza difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l'altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell'uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l'uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più forte l'uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell'uomo a corpo a corpo. L'ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l'uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza un'assoluta mancanza o sospensione di quest'uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno {o piuttosto mostrano di avere} a proporzione molta più forza de' loro contrari), non usa, nè anche ne' maggiori bisogni, ne' maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano infinitamente minor parte delle loro  4081 forze, anche ne' menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l'uomo, anche il più disperato ec., ne' maggiori. (23. Apr. 1824.). {{Il detto de' pazzi dicasi proporzionatamente de' disperati.}} {{V. p. 4090.}}

[4090,5]  Alla p. 4081. L'uomo sarebbe onnipotente se potesse esser disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare. (21. Maggio. 1824.).

[4272,2]  Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, {p. e. con un grosso cane,} difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L'uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, {se} non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, {e più il bambino,} adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti. (3. Aprile. 1827.).

[2495,1]  Quanto sia vero che l'amor proprio è cagione d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta infelicità, si dimostra per l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non solo è soggetto a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori beni del mõdo[mondo], e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti, non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto più infelice quanto ha più e più vivi desiderii, e che l'arte della felicità consiste nell'averne pochi e poco vivi ec. (Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato, con  2496 un ardore incredibile che lo trasporta verso la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i piaceri e anche fabbricarseli coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.; in un'età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti; contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più bell'aspetto possibile, {+e di più essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento,} non gode mai nulla, e pena più d'ogni altro, {e si sazia più presto;} e tanto più quanto {egli} è più vivo [così spesso il Casa] {e sensitivo ec.,} e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura, vivezza, energia, attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è d'altro che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che il desiderio del piacere, e l'amor della felicità non è altro che l'amor proprio. (24. Giugno. 1822.). {{V. p. 2528.}}

[4145,4]  Ella è cosa forse o poco o nulla o non abbastanza osservata che la speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita, cioè dalla vita propriamente detta, come il pensiero, e come l'amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno ec. Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed è così impossibile a ogni  4146 vivente, come l'odio vero di se medesimo. Chi si uccide da se, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz'amor di se stesso. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è {in certo modo} un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benchè si possa {sempre} distinguere logicamente, nondimeno in pratica è ordinariamente un tuttuno, quasi, coll'atto di desiderio, e la speranza una quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio. (Bologna. 18. Ottobre. 1825.).

[614,2]  È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza  615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato verso {il bene altrui} così sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il desiderio e la cura  616 e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.

[1653,2]  Ho detto altrove p. 714 pp. 1176-79 che il troppo produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente: ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec. {+eccetto per un'aria di meditazione stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo  1654 ora che ciò non si deve solamente restringere all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna, insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale ec. e puoi vedere la p. 1648. (8. Sett. 1821.).

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