Lingue.
Languages.
30,1 43,4 44,1 46,2 47,3 50,1 62,1 94,1 92,1 95,1 109,4 116,3 141,1 141,3142,2 207,1 208,1 217,1 218,1 239,2 312,1 321,1 324,1 343,1 360,3 373,1 597,1 638,1 643,1 653,1 685,1 690,1 704,1 707,1 735,1 784,1 819,1 838,1 863,1 928,2 932,1 943,1 950,3 952,1 955,2 956,1 962,1 975,1.2 977,1 979,1.2 980,1.2 981,1 983,3 984,1 985,1 988,1 999,2 1001,1.2 1009,1.2 1010,2 1012,2 1014,1 1014,3 1015,1 1019,1.2 1023,1.2 1028,1.2.5 1029,1 1031,1 1037,12 1038,1 1045,1.2 1046,2 1052,2 1053,1 1054,1 1055,2 1059,1 1065,3 1066,2 1067,1.2 1070,1 1086,1.2 1093,1 1098,1.2.3 1102,1 1103,1 1134,1 1157,1 1128,1.2 1132,2 1116,1 1162,3 1179,1 1207,1 1213,1 1232,1 1233,1 1237,1 1238,2 1240,1 1243,2 1262,1 1263,2 1304,1 1313,1 1316,1 1317,1 1323,segg. 1329,1 1332,1 1338,2 1350,1 1356,2 1361,1 1363,1 1366,1 1386,1 1388,1 1422,2 1424,1 1434,2 1435,1 1465,1 1467,1.2 1468,1 1477,2 1494,1 1499,2 1504,1.2 1513,1 1518,1 1520,1.2 1525,1 1579,3 1581,3 1608,1.2 1629,1 1657,1 1679,1 1683,1 1701,1 1706,21705,1 1728,2 1754,1 1755,1 1768,1 1796,1 1800,1 1806,3 1822,1 1843,1 1845,1 1862,1 1887,1 1900,1 1916,1 1917,2 1926,1 1936,1 1937,1 1946,1 1962,1 1969,1 1970,1 1973,1 1975,1 1985,1 1993,2 1999,2 2005,1 2007,1 2012,2 2014,1 2025,1 2037,1 2057,1 2065,1 2067,1 2068,1 2075,1 2079,2-2093,2 2103,1 2112,1 2122,1-2130,2 2150,1 2166,1 2171,1-2177,1 2180,1.2 2181,1 2197,3 2210,1 2212,1 2227,1 2231,2 2239,2 2266 2277,3 2284,2 2288,1 2310,1 2311 2312,1 2312,3 2335,2 2356-7 2386,3 2390,2 2395,2 2396,1 2397,2 2400,2 2402,1 2408,1 2415,23 2443,1 2451,3 2458,1 2468,1 2474,1 2484,1 2487,1 2498,1 2500,2 2572,1 2578,1 2584,1 2589,1 2591,1 2594,1 2595,1 2608,1 2609,1 2619,1 2622,1 2630,2 2633,1 2634,22635,1 2639,1 2643,3 2648,1 2649,1 2655,2 2657,1 2658,2 2661,2 2662,2 2663,1 2664,2 2666,1 2683,1 2693,1.2 2694,1 2700,1 2705,1 2715,2.3 2721,1-2721,4 2722,1 2723,1 2725,1 2771,23 2781,1 2793,2 2811,2 2829,1 2845,1 2866,1 2869,1 2876,2 2906,2 2948,1 3017,1 3021,1 3024,2 3066,1 3070,1 3192,1 3235,2 3247,1 3253,1 3254,1 3318,1 3366,1 3372,2 3389,1 3465 3572,1 3586,1 3626,segg. 3630,1 3633,1 3668,1 3672,1.2 3747,1 3764,1 3829,1 3855,1 3863,2 3866,1 3884,1 3902,4 3931,1 3932,1 3937,3 3946,12 3952,1 3956,2 3964,2.3 3972,1 3979,1 4001,2 4022,2 4026,7 4030,10 4040,1.6 4050,5.6.7.8 4052,1 4055,6 4066,1 4082,2 4088,5 4090,65 4102,5 4117,11 4118,3 4147,6 4173,8 4191,4 4202,1 4211,7 4214,3.4 4216,1 4223,1 4233 4237,2.3.4 4240,2 4243,2.3 4246,1 4249,3 4251 4257,10 4273,2 4280,4 4284,2 4291,2 4294,1[30,1] La duttilità della lingua francese si riduce a potersi
fare intendere, la facilità di esprimersi nella lingua italiana ha di più il
vantaggio di scolpir le cose coll'efficacia dell'espressione, di maniera ch'il
francese può dir quello che vuole, e l'italiano può metterlo sotto gli occhi,
quegli ha gran facilità di farsi intendere, questi di far vedere. Però quella
lingua che purchè faccia intendere non cerca altro nè cura la debolezza
dell'espressione, la miseria di certi tours (per li
quali la lodano di duttilità) che esprimono la cosa ma freddissimamente e
slavatissimamente e annacquatamente è buona pel matematico e per le scienze;
nulla per l'immaginazione la quale è la vera provincia della lingua italiana:
dove però è chiaro che l'efficacia non toglie la precisione anzi l'accresce, mettendo quasi sotto i sensi quello che i
francesi mettono solo sotto l'intelletto, ond'ella non è men buona per
le scienze che per l'eloquenza e la poesia, come si vede nella precisa
efficacacia[efficacia] e scolpitezza evidente del Redi del Galilei ec.
[43,4] Proprietà, efficacia, ricchezza, varietà, disinvoltura,
eleganza ancora e morbidezza e facilità, e soavità e mollezza e fluidità ec.
sono cose diverse e possono stare senza la χάρις Ἀττική, lepos
atticum[atticus], quella grazia che non si
potrà mai trarre se non da un dialetto popolare {(capace di
somministrarla)} che gli antichi greci traevano dall'Attico i latini
massimamente antichi come Plauto
Terenzio ec. dal puro e volgare e
nativo Romano, e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato
giudiziosamente.
[44,1] Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero
il latino così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini
studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del
Demostene, e Longino dove parla di Cic. quando i latini scrittori senza nessuna esitazione
nata dall'esser di diversa lingua, parlavano e giudicavano degli scrittori
greci.
[46,2] La grazia non può venire altro che dalla natura, e la
natura non ista mai secondo il compasso della gramatica della geometria
dell'analisi della matematica ec. Quindi la scarsezza di grazia nella lingua
francese tutta analitica e tecnica e regolare, e diremo angolare, massima
scarsezza nell'esteriore dello stile, e poi anche nell'interiore ec. se bene se
ne compensano col nominar la grazia 20. volte per pagina, e
47 non c'è un libro francese dove non troviate a ogni occhiata grace, grace massime parlando dei libri della loro
nazione, encomiandoli ec. Grace grace, mi viene
allora in bocca, et non erat grace (pax pax et non erat pax, ma non so se così
veramente dica S.
Paolo, o qual altro Scrittor sacro). {{V. questi
pensieri p. 92-94.}}
[47,3] Perciò si vuole che le parole che si hanno da aggiungere
alla nr̃a[nostra] lingua {o
per arricchirla, o per necessità ec.} si prendano dal latino e non dal
francese nè dal tedesco ec. chiamando quelle buone e approvandole, e queste
barbare, perchè quelle ordinariamente o almeno assai più spesso e facilmente
consentono coll'indole della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e
sembianza nativa e la sua grazia ec. ma queste dissuonano manifestissimamente e
sconvengono, e sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme
native, e la venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa
sconvenienza si scorge anche nelle semplici parole, com'è chiaro, vedendosi
subito che vengono da un'altra fonte, laddove le latine non possono venire da
un'altra fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la
lingua italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese, non però la
italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto la sorgente sia la stessa,
nel corso si può bene il rivo essere, anzi s'è mutato, e alterato, ed ha
acquistato proprietà tali, che non ha più nessun diritto di dare ad un altro
rivo nato dalla stessa sorgente, le sue acque, come
48 a
lui convenienti. Laddove la fonte non essendo alterata, restiamo sempre in
diritto d'attingerne, e anche quivi con giudizio, e quanto è permesso dalle
alterazioni che ha sofferte il nostro proprio rivo, per cagione delle quali
alcune acque della stessa sorgente non ci si potrebbero mescolare senza
sconvenienza. Ed ecco la cagione del diverso diritto, e delle diverse
conseguenze che si devono dedurre dalla fratellanza delle lingue e dalla
figliolanza. Quello poi che ho detto delle parole va inteso e molto più
intensamente delle frasi che corrompono più e sconvengono più, avendo faccia più
manifestamente straniera e dissimile. E che questa non sia pedanteria e cieca
venerazione dell'antichità si vede chiaro da questo che non solo non amiamo ma
detestiamo le parole greche, quantunque la lingua latina ne prendesse in tanta
copia, e appunto per uso d'arricchirsi, e per le diverse necessità d'esprimer
questa o quella cosa mancante di parola latina dove senza crearla di nuovo la
levavano di peso dal greco ed è costume usitatissimo dei latini come di Cic. di Celso ec. quantunque
principalmente di chi scriveva di scienze come Plin. ec. ma anche Oraz. com'è notissimo ec. Ora perchè
queste hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore, ed anche gran parte
delle frasi strettamente prese, giacchè dei modi più largamente, infiniti ne
convengono a maraviglia alla nr̃a[nostra]
lingua. Al contrario però di noi la lingua francese non fa una difficoltà al
mondo di spogliare la lingua greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi
tempi se n'è empiuta e satollata strabocchevolmente, onde già fanno dizionari
delle parole francesi derivate dal greco cosa per altro scellerata che guasta
quella lingua orrendamente (come guasta indegnamente la nr̃a[nostra] la barbarie comunissima di usar queste stesse
parole greche massime le moderne pigliandole non dal greco ma dal francese colla
stessa barbarie però, quantunque i più neppur sappiano che siano interamente
greche ma le abbiano per pure francesi, come despota, demagogo, anarchia,
aristocrazia, democrazia, colle terminazioni greche sole p. e. civismo,
filosofismo ec. ec. che in gran parte son politiche {messe
fuori dalla repubblica francese} ma ce ne ha di tutti i generi) e in
principal modo perch'essendo adottata da {tutti gli}
scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco onde non c'è scienza, anzi
neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec. che non sia piena di greco, e
perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non sia intieramente greca, le
parole greche essendo necessariamente di quel sembiante che siamo soliti di
vedere nelle usate dagli scienziati, danno alla lingua francese (e darebbero a
qualunque lingua e daranno all'italiana se dalla francese saranno trasportate
stabilmente nella nostra) un'aria indegna di tecnicismo (per usare una di queste belle parole) e di geometrico e di
matematico e di scientifico che ischeletrisce la lingua, riducendola in certo
modo ad angoli e perchè non c'è cosa più nemica della natura che l'arida
geometria, le toglie tutta la naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde
nasce la bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed anche la forza e
robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al linguaggio
tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta dalle parole
cioè col significato loro e coll'argomento e ragione, o col concetto spiegato
freddamente con esse.
[50,1]
50 A quello che ho {detto} nel
3. pensiero avanti al presente si
aggiunga che le parole nuove si devono anche cavare dalle radici che sono nella
propria lingua, e questa è una fonte principalissima e dalla quale Dante che passa pel creatore della lingua
derivò una grandissima, e forse la massima parte delle voci ch'egli introdusse.
E {i derivati da} questa fonte serbando com'è naturale
il colore nativo della lingua più che qualunque altro, se son fatti con
giudizio, vengono a formare il miglior genere di voci nuove che si possano
creare ec. ec. Ma questa fonte è tanto più scarsa quanto meno sono le radici
cioè quanto la lingua è meno ricca, onde la lingua francese cedendo in questo
senza paragone all'italiana non è dubbio che di voci nuove secondo {il} bisogno, che non alterino la fisonomia della lingua
ma consuonino ec. dev'essere molto più atta a produrne la lingua italiana che la
francese. E infatti questa che passa per ricchissima in vocaboli delle arti e
scienze ec. è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli non li piglia dal suo
fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca onde disdicono e stuonano
manifestamente col resto della lingua e l'alterano e imbastardiscono, e ciò
perchè non sono lingue di uno stesso genere ma diversissime, il cui genio {anche nelle pure voci} non ha che fare con quello della
francese, all'opposto della latina rispetto all'italiana principalmente. Ora
questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è chiaro che non trattandosi
di ricchezza αὐτόχϑων ma di roba presa altrove, tutti possono prenderla
egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai quali non è niente più
difficile da στερεοτυπία di fare stereotipia, di quello che ai francesi
stéréotypie ec. ec. {e di formar nuovi composti greci com'è
questo ec.} sì che è ricchezza fittizia, non propria, ascita, misera,
comune a tutti, e dannosa. Oltracciò i derivati dalle proprie radici sono subito
{di} noto significato, e intesi da tutti, così in
massima parte dalla lingua latina (dalla quale già non si dee prendere quello
che non sarebbe comunemente inteso) ma questi altri non si capiscono da nessuno
se non ci mettete la spiegazione etimologica ec. ovvero se non li mettete nel
vocabolario col loro significato, quando non sieno appoco appoco passati in uso,
ma ciò non può esser successo senza il detto massimo inconveniente nel
principio.
[62,1]
62 Quel tanto trasportar parole greche di netto in latino
che fu di moda ai buoni secoli del Lazio (anche appresso
i più antichi latini scrittori, come dal francese parimente assai i nostri
antichi italiani) dovea pur produrre l'istesso senso che produce ora in noi la
moda di usar parole francesi in lingua italiana moda tanto antica fra noi quanto
appresso i latini cioè cominciata coi primi nostri scrittori, ma ora tornata in
voga come ai tempi d'Orazio e
massimamente di Seneca
Plinio ec. dove pare e (v. quello che dice Seneca della voce, analogia) che fosse considerata come una
barbarie siccome presentemente, quantunque avesse per se tanti esempi antichi,
come fra noi anche di parole ora risibili p. e. frappare per battere, vengianza
nell'Alamanni
Girone, più volte e senza necessità
di rima, e parecchie altre di questo andare nello stesso poema ec. Se non che
forse allora come adesso sarà cresciuto quel gusto e divenuto senza giudizio e
diffusosi alle forme ec. e divenuto nocevole al genio nativo della lingua. {{V. p. 312.}}
[94,1] Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e
chiarezza di pensare seco stesso, perchè noi
95 pensiamo
parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed
esprimere tutti gl'infiniti particolari del pensiero. Il posseder più lingue e
il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un'altra, o almeno
così acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da
esprimere in un'altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci seco noi e
d'intenderci noi medesimi, applicando la parola all'idea che senza questa
applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Trovata la parola in
qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l'uso
altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità {e consistenza} e ci rimane ben definita e fissa nella mente {, e ben determinata e circoscritta.} Cosa ch'io ho
provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna
corrente, dove ho fissato le mie idee
con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente
alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perchè un'idea senza parola o modo
di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a
noi medesimi che l'abbiamo concepita. {{Colla parola prende
corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.}}
[92,1] La società francese la quale fa che l'esprit naturel se tourne en
épigrammes plutôt qu'en poésie
*
, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv. 15, chap. 9. p. 80. t.
3. edizione citata da me alla p.
87) rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati
come sono a dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li
renda gradevoli, un'aria di novità, una grazia ascitizia, un garbo proccurato
ec. ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non {li} disobblighi da quello a cui gli obbliga la
raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di società
è così grande, anzi è l'anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo
contrario credendo che quest'obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare
(e con ragione avuto riguardo al gusto de' lettori nazionali che altrimenti li
disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella
conversazione per renderla aggradevole e piccante ec. e però il loro stile è
così diverso da
93 quello de' greci e de' latini e
degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino quella prima frase che si
presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E però le
grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere
quello ch'essi chiamino naturalezza e semplicità, {come} p. e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti. In luogo
della[delle] grazie naturali il loro stile è
tutto composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono
conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in
astratto quando paragonano lo stil francese all'italiano p. e. o al latino ec.
parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla costruzione
del periodo, e divisione del discorso ec. paragonata con quella delle altre
lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure
troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si
trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese sono affatto
straordinari e sarebbero fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno
ragione da un lato, ma dall'altro non conoscono quella semplicità così
intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza
la politezza la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della
conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura espressione de' sentimenti
che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve novità {e
grazia}
piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello
scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e
non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall'abitudine della
conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè ai
francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura
universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch'era
94 proprio dei greci, e con una certa proporzione, de' latini, e
degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de' trecentisti ec. i quali sono
intraducibili nella lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi
sempre vantano la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi,
e di uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile
che si possa immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le
traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel
loro stile di società e di conversazione ch'essi chiamano semplice (e ch'è
divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei
prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse sieno lontane
dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale. Qui comprendo
anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella generale
osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca italiana che le traduzioni francesi da
qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e diverso dallo stile {originale} e anche dalle parti più essenziali di esso, e
anche da' sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non
però suo proprio ma similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue
moderne, all'italiano) si allontanino dall'indole della presente lingua
francese, non solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente
nelle forme sostanziali, e nell'insieme dello stile, che ora di francese non può
avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato
anche ogni vestigio d'arcaismo. E scommetto ch'egli riesce più facile a
intendere agl'italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue
classiche.
[95,1] Spesse volte il caso ha renduto espressivissima una
parola che parrebbe perciò originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una
pura figlia d'etimologia. P. e. nausea quella parola
sì espressiva presso i latini e gl'italiani (v. questi pensieri p. 12.) deriva dal greco ναῦς nave, onde ναυτία,
ionicamente ναυσία e in latino nausea perch'ella suole
accadere ai naviganti.
[109,4] Le parole come osserva il Beccaria (tratt. dello stile) non
presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno
110 immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua
l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta
idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e
definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole,
tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. {e per lo contrario} quanto più abbonda di termini, dico
quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perchè l'abbondanza di
tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà
delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed evidenza al
discorso, questa non gli dà altro che aridità. Il pericolo grande che corre ora
la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per
troppa abbondanza di termini in ogni sorta
di cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benchè questo la rende facile e comune, perch'è
la lingua più artifiziale e
geometricamente nuda ch'esista oramai. Perciò ha bisogno di grandi scrittori che
appoco appoco la tornino ad assuefare allo stile e alle voci del Bossuet del Fenelon e degli altri sommi prosatori del loro buon
secolo, e così nella poesia. Mad. di
Staël mostra col fatto di averlo conosciuto, pp. 1962-63 e il
suo stile ha molto della pastosità dell'antico a confronto dell'aridità moderna
e di quegli scheletri (regolari ma puri scheletri) di stile d'oggidì. Ed anche
non farebbe male ad attingere alle antiche sue fonti d'Amyot e degli altri tali che usati con discrezione
ridarebbero alla lingua quel sugo ch'ella oramai ha perduto anche per la
monotona e soverchia regolarità della sua costruzione (che anch'essa
contribuisce massimamente a renderla comune in europa) di
cui tanto si lagnava il Fenelon ed
altri insigni. (V. l'Algarotti
Saggio sulla lingua francese.)
Adattiamo questa osservazione a cose meno materiali.
111
V. p. 100 di questi pensieri. E
riducendo l'osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura
delle cose, vedendo come la filosofia e l'uso della pura ragione {che si può paragonare ai termini e alla costruzione
regolare,} abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come
tutto il bello di questo mondo consista nella immaginazione che si può
paragonare alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata. Le
voci greche {(le voci non i modi)} di cui s'è tanto
ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono nelle nostre lingue
esser altro che termini, con significazione nuda {e
circoscritta,} e aria tecnica e geometrica senza grazia e senza
eleganza. E quanto più ne abbonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto
più toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua. Perchè la
forza e l'evidenza consiste nel destar l'immagine dell'oggetto, e non mica nel
definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate nella nostra
lingua. Le metafore d'ogni sorta sono adattatissime per questa cagione alla
bellezza naturale
{e al colorito} del discorso. E la lingua italiana
studiata di tanti scrittorelli d'oggidì che ancorchè sia piena di modi e parole
native, riesce sì misera e dissonante, vien tale (oltre all'affettazione che si
manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio italiano, e
stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e stile
modellato giudiziosamente sull'antico, e ridotti in succo e sangue proprio gli
antichi scrittori) perchè fa bruttissimo vedere l'aridità moderna che questi non
sanno schivare, colla freschezza il colorito {la morbidezza
la vistosità}
l'embonpoit[l'embonpoint] la floridezza il
vigore ec. antico.
[116,3] Dovunque si formano le scienze o le arti o qualunque
disciplina, quivi se ne creano i vocaboli. Se noi italiani non volevamo usar
parole straniere nella filosofia moderna, dovevamo formarla noi. Quelle
discipline che noi abbiamo formate (p. e. l'architettura) hanno i nostri
vocaboli anche presso le altre nazioni.
[141,1] La parola è un'arte imparata dagli uomini. Lo prova la
varietà delle lingue. Il gesto è cosa naturale e insegnata dalla natura. Un'arte
1. non può mai uguagliar la natura, 2. per quanto sia familiare agli uomini, si
danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. Perciò negli accessi
delle grandi passioni, {1.} come la forza della natura
è straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla, 2. l'uomo è così
occupato, che l'uso di un'arte per quanto familiarissima,
142 gli è impossibile. Ma il gesto essendo naturale, lo vedrete
facilmente dar segno di quello che prova con gesti e moti spesso vivissimi, o
con grida inarticolate, fremiti, muggiti ec. che {non hanno
che fare colla parola, e} si possono considerare come gesti. Eccetto
se quella passione non produrrà in lui l'immobilità che suol essere effetto
delle grandi passioni ne' primi momenti in cui egli non è buono a nessun'azione.
Nei momenti successivi non essendo buono all'uso della parola cioè dell'arte,
pur è capace degli atti e del movimento. Del resto lo vedrete sempre in
silenzio. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore
(anche nei momenti dolci) dell'ira, della maraviglia, del timore ec. (27.
Giugno 1820.). V. al fine della pagina.
[142,2]
Curae leves loquuntur, ingentes
stupent
*
sta per epigrafe del n. 95 dello Spectator inglese,
senza nome d'autore.
[207,1]
207 Le grazie della lingua sono più che mai relative a
quelle persone che la intendono perfettamente ec. e non mai assolute. Così le
grazie attiche, toscane ec. forse più graziose per gli altri italiani che per
gli stessi toscani, a cagione di una certa sorpresa ec. ma poco o nulla agli
stranieri.
[208,1] La grazia appena io credo che possa esser concepita
dai francesi con idea vera. Certo i loro scrittori non la conoscono. Lo confessa
pienamente Thomas
Essai sur les Eloges ch. 9. Infatti
manca loro cette sensibilité
tendre et pure,
*
cioè inaffettata e naturale,
(l'avrebbero per natura, ma la società non vuole che la conservino: l'avevano i
loro antichi scrittori) e cet instrument facile et
souple
*
vale a dire una lingua come la greca e l'italiana.
Vedi senza fallo quel passo di Thomas.
(13. Agosto 1820.).
[217,1] Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al
suo genio. Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi
gusti del suo paese. I francesi che scrivono sempre come conversano, timidissimi
per conseguenza, o piuttosto codardi, come dev'esser quella nazione presso cui
un tratto di ridicolo scancella qualunque più grave e seria impressione, e fa
più romore degli affari e pericoli di Stato, si maravigliano d'ogni minimo
ardire, e stimano sforzi da Ercole
quelli che in italia e nel resto
d'europa sono {soltanto}
deboli argomenti d'ingegno robusto, libero, inventore e originale. E per una
parte hanno ragione, perchè l'osar poco in francia, dove
la regola è di vivre et faire comme tout monde, costa
assai più che l'osar molto altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire, e questa
robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete che
appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il
218
sentimento ch'io provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un
movimento forte, sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per
seguitarlo, trovo che non c'è da far altro, e ch'egli è già tornato a parler comme tout le monde. Cosa che produce una
grande pena e disgusto e secchezza nella lettura. Questo non ha che fare colle
inuguaglianze proprie dei grandi geni. Nessun genio si ferma così presto come
Bossuet. Si vede propriamente
ch'egli è come incatenato, e fa sforzi più penosi che grandiosi per liberarsi. E
il lettore prova appunto questo medesimo stato. E perciò volendo convenire che
Bossuet sia stato veramente un
genio, bisogna confessare che tentando di domar la sua lingua e la sua nazione,
n'è stato domato. Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani. Se non che la
voce di tutta la francia ha tanta forza, che forma il
giudizio d'europa. E il ridirsi è quasi impossibile.
Sicchè queste parole intorno a Bossuet
sieno dette inutilmente. (20. Agosto 1820.).
[218,1] Non è cosa così dispiacevole come il vedere uno
scrittore dopo intrapreso un gran movimento, immagine, sublimità ec. mancar come
di fiato. È cosa che in certo modo rassomiglia agli sforzi impotenti di chi si
vede che vorrebbe esser grande, bello ec. nello scrivere, e non può. Ma questa è
più ridicola, quella più penosa. In Bossuet l'incontri a ogni momento. Una grande spinta; credi che
seguiterà l'impulso, ma è già finito. Quando anche
219
il seguito del suo parlare sia forte magnifico ec. non è più fuoco naturale, ma
artifiziale, e preso dai soliti luoghi. Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur momentanea, e
queste lagune sono immense e frequentissime. Perchè se la morale ch'egli sempre
predica è sublime, sono sublimità ordinarie, e appartengono al consueto stile
degli oratori, non hanno che fare coll'entusiasmo proprio e presente. Ma tu
vorresti ch'egli esaurisse l'affetto ec. Non mi state a insegnare quello che
tutti sanno. Dall'eccesso al difetto ci corre un gran divario. Ed è contro
natura che un uomo quando si è abbandonato all'entusiasmo, ritorni in calma,
appena incominciata l'agitazione. E non c'è cosa più dispettosa che l'essere
arrestato in un movimento vivo e intrapreso con tutte le forze dell'animo o del
corpo. Leggendo i passi più vivi di Bossuet il passaggio istantaneo e l'alternativa continua e brusca del
moto brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e travagliare. Si
accerti lo scrittore o l'oratore, che finattanto che non si stancano le sue
forze naturali (non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il lettore {o uditore} si stanca. E fino a quel punto non tema di
peccare in eccesso. Il quale anzi è forse meno penoso del difetto, in quanto il
lettore sentendosi stanco, lascia di seguir lo scrittore, e anche leggendo,
riposa. Ma obbligato
220 a fermarsi prima del tempo, non
può, come nell'altro caso, disubbidire allo scrittore, il quale per forza gli
taglia le ali. In somma se l'eloquenza è composta di movimenti ed affetti della
specie descritta, {e di freddezze e trivialità mortali nel
resto,} allora Bossuet sarà
veramente eloquente in mezzo agli eleganti del suo secolo, come dice Voltaire. (21. Agosto
1820.).
[239,2] Dall'orazione di M. Tullio
pro Archia si vede che la lingua greca era
considerata allora come
240 universale, nello stesso
modo che la francese oggidì, e l'uso e intelligenza della lingua latina era
ristretta a pochi, Latina suis finibus, exiguis sane,
continentur
*
. {Perciocchè le
scritture greche si leggono in quasi tutte le genti, le latine
restano dentro a' loro confini così stretti come
sono
*
. Cic. l.
c.} E nondimeno l'impero romano fu
forse il maggiore di quanti mai si viddero, e i romani al tempo di Cicerone, erano già padroni del mare, ed
esercitavano gran commercio. Così ora si vede che gl'inglesi sono padroni del
mare e del commercio, e sebbene la loro lingua, è perciò più diffusa di molte
altre, nondimeno non è nè conosciuta nè usata universalmente, ma da pochi in
ciascun paese, e cede di gran lunga alla francese, che non s'è mai trovata
favorita da un commercio così vasto. Onde si può ben dedurre, che la diffusione
di una lingua, se ha bisogno di una certa grandezza e influenza della nazione
che la parla (perchè la lingua francese, per quanto adattata alla universalità,
non sarebbe divenuta universale, se avesse appartenuto a una piccola, e
impotente nazione p. e. alla Svizzera), contuttociò
dipende principalmente dalla natura di essa lingua. Non vale il dire che i greci
erano diffusissimi per le colonie. Molto più lo erano i romani in quel tempo, e
non solo per le colonie, ma per le armate, governi, tribunali ec. ec. Ma quando
una lingua si diffonde per mezzo delle colonie, si può dire che si diffonda
piuttosto la nazione che la lingua, essendo
241 ben
naturale che una città di romani in qualunque luogo del mondo, parli la lingua
romana, e così un'armata ec. Ma questo non ha che fare coll'adottarsi
generalmente una lingua dagli stranieri, coll'essere tutti gli uomini colti di
qualunque nazione, quasi δίγλωττοι, {v. p.
684.} e col potere un viaggiatore farsi intendere
con quella lingua in qualunque luogo. Ora in questo consiste l'universalità di
una lingua, e non 1. nell'esser parlata da' nazionali suoi, in molte parti del
mondo, 2. nell'essere anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli
che la parlano naturalmente, sia coll'abolire la lingua dei vari paesi (quando
anzi la διγλωττία suppone che questa si conservi), sia coll'alterarla o
corromperla più o meno per mezzo della mescolanza. Cosa che vediamo accaduta nel
latino, del quale si trovano vestigi notabilissimi in molte parti
d'europa (forse anche di fuori) {(come se non erro in
Transilvania, in Polonia,
in Russia ec.) {{e si vede ch'ella si era stabilita nella
Spagna e la
Francia dove poi ne derivarono,
corrompendosi la latina, le lingue spagnuola e francese; e
nell'Affrica Cartaginese e Numidica
ec.;}}} quando della greca forse non si
troveranno, o meno; e contuttociò la lingua latina non è stata mai universale
nel senso spiegato di sopra, {+come non è universale oggi la lingua inglese
perciò ch'ella è stabilita e si parla come lingua materna in tutte quattro
le parti del mondo. (in ciascuna delle quattro parti)} È noto poi come
i greci l'ignorassero sempre, il che forse contribuì a conservar più a lungo la
purità della loro lingua, la sola che conoscessero. E quanto
242 alle colonie la francia ha sempre o quasi
sempre ceduto all'inghilterra, alla
spagna, e fino al portogallo,
come nel commercio. Neanche la letteratura è cagione principale della
universalità di una lingua. La letteratura italiana primeggiò lungo tempo in
europa, ed era conosciuta e studiata per tutto, anche
dalle dame, come in Francia da Mad. di Sévigné ec. senza che perciò la lingua
italiana fosse mai universale. E se gl'italianismi guastavano la lingua francese
al tempo delle Medici [(Caterina, Maria)], come ora i
francesismi guastano l'italiano, questo va messo nella stessa categoria della
corruzione che producono le colonie, le armate ec. (corruzione facilissima e
sensibilissima. Pochi soldati napoletani stanziati nella mia patria al mio tempo
per uno o due anni, aveano introdotto nel volgo parecchie parole ed espressioni
del loro dialetto. Perchè il volgo 1. era colpito da quella novità. 2 si faceva
un pregio o un capriccio d'imitare quei forestieri ec.) La letteratura, lingua e
costumi spagnuoli si divulgarono molto, quando la Spagna
acquistò una certa preponderanza in europa, e massime in
italia (dove restano ancora alcune parole derivate
credo allora dallo spagnuolo), ma l'influenza loro finì con quella della
nazione. Laonde sebbene la letteratura greca, massime al tempo di Cic. cioè
243
prima del secolo di Augusto, era
infinitamente superiore alla latina, e più divulgata e famosa, questa ragione
non basta. L'universalità di una lingua deriva principalmente, dalla regolarità
geometrica {e facilità} della sua struttura,
dall'esattezza, {chiarezza materiale,} precisione,
certezza de' suoi significati ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo
fondate nella secca ragione, e nel puro senso comune, ma non hanno che far
niente colla bellezza, ricchezza (anzi la ricchezza confonde, difficulta, e
pregiudica), dignità, {varietà, armonia,} grazia,
forza, evidenza, le quali tanto meno conferiscono o importano alla universalità
di una lingua, quanto 1. non possono esser sentite intimamente, e pregiate se
non dai nazionali, 2. ricercano abbondanza d'idiotismi, figure, insomma
irregolarità, che quanto sono necessarie alla bellezza e al piacere, il quale
non può mai stare colla monotonia, e collo scheletro dell'ordine matematico,
tanto nocciono alla mera utilità, alla facilità ec. La lingua greca sebbene
ricchissima ec. ec. ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione
(dico nativa, perchè poi fu alterata dagli scrittori più bassi che pretendevano
all'eleganza), laddove la latina era estremamente figurata, e la proprietà de'
suoi composti le dava una facilità e precisione materialissima di significati,
sebbene nuocesse non poco alla varietà la quale non può risultare
244 dalla copia de' composti ma delle radici, come nel
latino e italiano. E di queste pure la lingua greca abbonda sommamente, ma può
anche fare a meno della massima parte, e con poche radici, e infiniti composti
formare tutto il discorso. Tale infatti era il costume degli antichi scrittori
greci (Luciano e gli altri più bassi,
sono molto più vari e ricchi di radici). Perchè il vocabolario di ciascheduno,
osservandolo bene, si compone di molto poche parole, che ritornano a ogni
tratto, essendo raro che quegli antichi varino la parola o la frase per
esprimere una stessa cosa. Onde segue che siccome la lingua greca per se stessa
è immensa, così passando da uno scrittore all'altro, ritrovate un altro piccolo
vocabolario suo proprio, del quale parimente si contenta, e le espressioni
familiari di ciascuno autor greco sono moltissime e continue, ma diverse quelle
dell'uno da quelle dell'altro, quasi fossero più lingue. Dal che si può dedurre
che la lingua greca benchè ricchissima nondimeno con un piccolo vocabolario può
comporre tutto il discorso, e questi vocabolari possono esser molti e diversi,
cosa dimostrata dal fatto, e dal vedersi negli scrittori greci più che in quelli
d'altra lingua, che la facilità acquistata nel leggere e intendere uno
scrittore, non vi giova interamente nel passare a un altro, dovendovi quasi
familiarizzare con un altro linguaggio. Questo appartiene esclusivamente alla
lingua, ma anche bisogna
245 notare che la lingua greca
come l'italiana, si presta a ogni sorta di stili, e non ha carattere
determinato, ma lo riceve dal soggetto e dallo scrittore, laonde il suo
carattere varia, anche in questo senso, e per questo motivo, secondo le diverse
opere, come la lingua di Dante o
dell'Alfieri paragonata con quella
del Petrarca ec. (12.-13.-14.
7.bre 1820.). {{V. p. 1029.
fine.}}
[312,1]
Alla p. 62. pensiero
1. Osservate però che c'è una differenza in questo fra la letteratura
latina e l'italiana, in quanto non le sole cognizioni filosofiche o filologiche,
le quali esigevano l'uso delle parole greche, ma tutta la letteratura latina era
derivata dalla greca. Non così l'italiana dalla francese, eccetto nella
filosofia ec. anzi per lo contrario. Sicchè l'introdur parole greche in latino
doveva essere un poco più facile e naturale. Del resto la stessa cognazione e
fratellanza ch'era tra la greca e la latina esiste tra la lingua italiana e la
francese, e se la greca si vuol considerare per anteriore, se non altro nella
formazione e sistemazione, anche la lingua provenzale ci ha preceduto quasi
nello stesso modo.
[321,1]
321 Una delle prime cagioni della universalità della
lingua francese, è la sua unicità. Perchè la lingua italiana (così sento anche
la tedesca, e forse più) è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola,
potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli
scrittori ec. che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo
presso che alcuna relazione scambievole. Dante - Petrarca e Parini ec. Davanzati - Boccaccio, Casa ec.
V. p. 244. Dal che come seguono infiniti e
principalissimi vantaggi, così anche parecchi svantaggi. 1. che lo straniero
trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore, e passando a un
altro, non l'intende. {(così nei
greci)} 2. che potendosi scrivere o parlare italiano senza essere
elegante ec. ec. ec. lo scrittore italiano volgare scrive ordinariamente
malissimo; così il parlatore ec. Al contrario del francese, dove la strada
essendo una, e chiusa da parte e parte, non parla francese chi non parla bene; e
perciò quasi tutti i francesi scrivono e parlano elegantemente, ma sempre di una
stessa eleganza, e quanto al più e il meno, le differenze sono così piccole,
322 che se i francesi le sentono nei loro diversi
scrittori, agli esteri son quasi impercettibili. Laddove le differenze de' buoni
stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia. Così anche dei greci.
[324,1]
324 Dalle sopraddette considerazioni osserverai quanto
sia giusta la maraviglia e degna la lode di quelli che dicono che in
Francia da Luigi
14. in poi non si disputa più della lingua, e si scrive bene, laddove
in italia si disputa sempre della lingua e si scrive
male. Prima di Luigi 14. quando la
lingua francese non era ancora geometrizzata, e ridotta a una processione di
collegiali, come dice Fénélon, {sic}come si poteva scriver meglio di adesso, così anche
si potea scriver male.
[343,1] La lingua italiana non si è mai tolto il potere di
adoperar quelle parole, frasi, modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però
intesi da tutti senza difficoltà, e possano
344 cadere
nel discorso senza affettazione: i quali sono infiniti per chi conosce la
lingua, ma bene a fondo; e questi sono pochissimi o nessuno. La lingua francese
si è spogliata affatto di questa facoltà, e ammettendo facilmente vocaboli {e modi} nuovi (intorno ai quali si sgridano gl'italiani
perchè non gli ammettono) non si è legate le mani se non per gli antichi, cioè
per quelli ch'ella già possedeva, e ha creduto di far progressi quando ha
perduto l'infinito che aveva (giacchè veramente era ricca), e guadagnato il poco
che non aveva. Nel che 1. io non vedo come una lingua si possa accrescere,
perchè anche in parità di partite, se quanto si guadagna, tanto si perde, la
lingua sarà sempre stazionaria in fatto di ricchezza e varietà. 2. se, com'è
certissimo, infinite cose che non si sono potute esprimere se non con parole
nuove, forestiere ec. si potevano esprimere colle antiche, io non vedo perchè
queste dovessero esser posposte. Il caso è lo stesso in
italia, chi ben considera la ricchezza immensa de'
nostri antichi scrittori. 3. Le parole e modi che maggiormente conferiscono alla
evidenza, efficacia, forza, grazia ec. delle lingue sono sempre, e
incontrastabilmente le antiche, siccome quelle che erano cavate più da presso
dalla natura, e dall'oggetto significato (come deve necessariamente accadere
nella formazione delle lingue), e però lo rappresentavano al
345 vivo, e ne destavano più fortemente, sensibilmente, facilmente e
prontamente l'idea, secondo però 1o. i diversi aspetti o parti {più o meno vivi, principali, caratteristici,
esprimibili;} il diverso numero di aspetti, parti, o relazioni della
{cosa,} considerato dagl'inventori della parola:
2o. la diversa forza d'immaginazione, sentimento, delicatezza ec. nei detti
inventori: 3o. la diversa loro facoltà di applicare il suono alia cosa: 4o. il
diverso carattere della nazione, clima, circostanze naturali, morali, politiche,
geografiche intellettuali ec.: la dolcezza, o l'asprezza, la ruvidezza o
gentilezza ec. {5o. la diversa impressione prodotta dagli
stessi oggetti ne' diversi popoli o individui.} Solamente quella
grazia che non deriva dalla naturalezza, semplicità ec. {l'eleganza ec.} può guadagnare; ma quella che deriva dai detti fonti,
(massime nelle frasi e modi) ed è la principale, e più solida e durevole; la
forza poi assolutamente, l'evidenza e l'efficacia, non possono altro che perdere
infinitamente coll'abolizione delle parole antiche, e peggio colla sostituzione
delle nuove. Qui ancora ha luogo la grande inferiorità dell'arte e della ragione
alla natura, in tutto il bello, il grande, il forte, il grazioso ec. (21.
Nov. 1820.).
[360,3] L'uomo senza la cognizione di una favella, non può
concepire l'idea di un numero determinato. Immaginatevi di contare trenta o
quaranta pietre, senz'avere una denominazione da dare a ciascheduna, vale a
dire, una, due, tre,
361 fino all'ultima denominazione,
cioè trenta o quaranta, la quale contiene la somma di tutte le pietre, e desta
un'idea che può essere abbracciata {tutta} in uno
stesso tempo dall'intelletto e dalla memoria, essendo complessiva ma definita ed
intera. Voi nel detto caso, non mi saprete dire, nè concepirete in nessun modo
fra voi stesso la quantità precisa delle dette pietre; perchè quando siete
arrivato all'ultima, per sapere e concepire detta quantità, bisogna che
l'intelletto concepisca, e la memoria abbia presenti in uno stesso momento tutti
gl'individui di essa quantità, la qual cosa è impossibile all'uomo. Neanche
giova l'aiuto dell'occhio, perchè volendo sapere il numero di {alcuni} oggetti presenti, e non sapendo contarli, è
necessaria la stessa operazione simultanea e individuale della memoria. E così
se tu non sapessi fuorchè una sola denominazione numerica, e contando non
potessi dir altro che uno, uno, uno; per quanta attenzione vi ponessi, affine di
raccogliere progressivamente coll'animo e la memoria, la somma precisa di queste
unità, fino all'ultimo; tu saresti sempre nello stesso caso. {+Così se non sapessi altro che due
denominazioni ec.} Eccetto una piccolissima quantità, come cinque o
sei, che la memoria e l'intelletto può concepire {senza
favella,} perchè arriva ad aver presenti simultaneamente tutti i pochi
individui di essa quantità. Nello stesso modo e per la stessa ragione
362 i numeri che rappresentano una quantità troppo
grande, come centomila, un milione e simili, {e più, un
bilione} non ci destano se non un'idea confusa, {+quantunque noi sappiamo benissimo il loro significato, e l'estensione o
quantità precisa e misurata, che comprendono: ma in questo caso non
basta sapere {interamente} il significato della
parola, per concepire l'idea significata (cosa che forse non accade in
altro caso, se non in parole indefinite, o che esprimono idee
indefinite): e ciò} perchè l'operazione della mente non si
può estendere in un medesimo tempo sopra {tutte} le
parti di questa quantità, ed abbracciarle e concepirle chiaramente tutte in una
volta, malgrado il soccorso della favella, il quale non basta quando le parti
son troppe. Per parti intendo p. es. le diecine, {o anche le
centinaia} la somma delle quali, quando può esser concepita
chiaramente ci desta un'idea abbastanza chiara della {data} quantità, a cagione dell'abitudine contratta coll'esercizio del
discorso, la quale abitudine ci fa concepir facilmente e prontamente
gl'individui compresi in ciascuna diecina. In genere l'idea {precisa} del numero, o coll'aiuto della favella o senza, non è mai
istantanea, ma composta di successione, più o meno lunga, più o meno difficile,
secondo la misura della quantità. (28. Nov. 1820.). {{V. p. 1072. fine.}}
[373,1] La poesia e la prosa francese si confondono insieme, e
la francia non ha vera distinzione di prosa e di poesia,
non solamente perchè il suo stile poetico non è distinto dal prosaico, e
perch'ella non ha vera lingua poetica, e perchè anche relativamente alle cose, i
suoi poeti (massime moderni) sono più scrittori, e pensatori e filosofi che
poeti, e perchè Voltaire p. e. nell'Enriade, scrive con quello stesso enjouement, con quello stesso esprit, con
quella stess'aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco di parole di frasi di maniere e di sentimenti e
sentenze, che adopra nelle sue prose: non solamente, dico, per tutto questo, ma
anche perchè la prosa francese, oramai è una specie di poesia. Filosofi,
oratori, scienziati, scrittori d'ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano
eleganti, se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile
continuamente poetico, e montato principalmente sul tuono lirico. E ciò
massimamente è accaduto dopo l'introduzione de' poemi in prosa, siano poemi
propriamente detti, siano romanzi, opere descrittive, sentimentali ec. Ma
374 i francesi che si credono i soli maestri e modelli e
conservatori, e zelatori dello scriver classico a' tempi moderni, non so in qual
classico antico abbiano trovato questo costume, per cui non si sa essere
elegante nè eloquente, senza andare a quella perpetua, dirò così, traslazione
{e μετεωρία}
{e concitazione} di stile, ch'è propria della poesia.
(L'eloquenza di Bossuet, è appunto di
questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di convenzione; e lo stile
biblico, e questo gergo forma l'eloquenza e l'eleganza ordinaria d'ogni sorta di
scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non mai posatezza, non
semplicità, non familiarità. Non dico semplicità nè familiarità distintiva di
uno stile o di uno scrittore particolare, ma dico quella ch'è propria
universalmente e naturalmente della prosa, che non è uno scrivere ispirato. Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più energici
dell'antichità, e mi dicano se c'è uomo così cieco che non distingua {subito} come quella è prosa non poesia; se ridotta
questa prosa in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come
accadrebbe nelle loro prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente,
energica, consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico. Anche i loro
scrittori de' buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a
questo difetto,
375 nondimeno hanno un gusto {e un sapore} di prosa molto maggiore e più distinto
(eccetto pochi), {hanno non dico austerità, neanche gravità
{nè verecondia} (pregi ignoti ai francesi) ma
pur tanta posatezza {+e
castigatezza} di stile quanta è indispensabile alla prosa:}
come la Sévigné, Mm̃e Lambert, Racine e Boileau nelle
prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e
pensatori moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza in questo punto.
(2. Dic. 1820.)
{{V. p. 477. capoverso 1.}}
[597,1]
Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus,
ec. coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben questi
sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato
etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole
delle quali resta {quasi} il corpo e non l'anima,
tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora,
diventar di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia registrata nella
Crusca. (1. Feb. 1821.).
[638,1] Vorranno i puristi che quando manca alla lingua nostra
il vocabolo di una tal cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o adottarne uno
straniero, o derivarne uno da lingue antiche, si usino circollocuzioni. Lascio
quanto le circollocuzioni troppo frequenti (e converrebbe che fossero
frequentissime) tolgano di grazia, di forza, di proprietà, di rapidità al
discorso, ed inceppino, ritardino,
639 impaccino,
infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque caso. Ma dico
primieramente che si daranno infinite occorrenze, dove una di quelle cose che
non hanno vocabolo italiano, accada di esprimerla frequentissimamente, tratto
tratto, più volte nello stesso periodo. Ora quando a grande stento si sarà
trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che sarà spesso
necessario ch'ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto, e in un
periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n'è trovata una che
equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non ha più la stessa
forza, e non dice tutto, non esprime più quella tale idea, se non è tutta
distesa ed intera? Una parola si adatta a prendere tutte le positure,
s'introduce da per tutto, si maneggia facilmente, speditamente, e a beneplacito.
Ma una circollocuzione, un corpo grosso e disadatto, che se non ha tanto di
luogo, non può entrare o giacere, come troverà sito, dirò così, in quelle
pieghe, in quei cantoni, in quegli spicoli, in quegli spazietti,
640 in quei passaggetti, in quelle rivolte (rivolture,
rivoltatine, che in tutti questi modi si può dire, come dice il Firenzuola, le rivolture degli
orecchi
*
) in quelle giratine, in quelle
tortuosità, in quelle angustie e stretture del discorso o del periodo, così
frequenti, dove spessissimo vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed
entrerebbe la parola, la circollocuzione non già?
[643,1] Non è bisogno che una lingua sia definitamente
poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella lingua che è definitamente matematica. La migliore di
tutte le lingue è quella che può esser l'uno e l'altro, e racchiudere eziandio
tutti i gradi che corrono fra questi due estremi. (11. Feb.
1821.).
[653,1]
Les femmes apprennent volontiers l'Italien,
qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour. Les Auteurs
Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots,
une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de
l'esprit.
*
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 73 - 74.
(13. Feb. 1821.).
[685,1] La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto
alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch'è barbaro, ma
anche, (e questo è il principale) di cadere in quella timidità povertà,
impotenza, secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata
più volte nella lingua francese. In fatti da un secolo e più, ella ha perduto,
non solamente l'uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi,
e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente
consisteva la facilità, l'onnipotenza, la varietà,
686
la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la
proprietà (ἰδιώτης), la pieghevolezza sua. Non parlo mica di quelle inversioni e
trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina,
sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e
riconosciuti da nessun buono scrittore italiano. Ma parlo di quella libertà, di
quelle tante e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua nostra
si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile di tutti gli
stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido, nel monotono, nel
matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel genio,
nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e specificatamente
alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle forme particolari e
speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche nella specie: siccome alla
latina si accosta sommamente per la qualità individuale de' vocaboli e delle
frasi. Ma oggidì ella va a perdere, anzi ha già perduto presso
687 il più degli scrittori, le dette qualità che sono sue vere,
proprie, intime, e native; e dico anche presso quegli scrittori che a gran
fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi. (e qui riferite quello che ho
detto altrove p. 111, come in detti scrittori facciano pessima
comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per quanto
non sia barbara, non è l'italiana: {e gli antichi accidenti
in una sostanza tutta moderna e diversa.}) E così anche la lingua
nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non
erro, il Fénélon, della francese. Del
che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la
inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la
lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per
sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorchè conservi le
parole e i modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese,
laddove ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata
al suo soggetto, o anche a questo
688 e a quello
scrittore; e così divenuta impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti
gli stili (secondo la sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue,
come le antiche, non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il
linguaggio magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si
chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale infatti
ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella
poesia italiana moderna de' volgari poeti. Come appunto è accaduto alla lingua
francese, perchè ancor ella da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al
secolo di Luigi 14 non era punto unica,
ma {l'indole sua primitiva e propria} somigliava
moltissimo all'indole della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena
d'idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore (notate
questo, che forma la difficoltà dello {scrivere, come pure
dell'intendere la} nostra lingua a differenza della francese) e
suscettibile di prendere quella forma e quell'abito che il soggetto richiedesse,
o il carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata
689 a diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia,
di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva
degli ardiri com'è poi divenuta;
parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi,
all'intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua
italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena
di sève, di sangue e di colorito ec. ec. Delle quali
proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di quel tempo. Talmente che s'ella fosse
rimasta quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir
tutto. E s'ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di
cultori quante[quanto] n'ebbe l'italiana, che
l'avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d'allora, alla
perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo ch'io
dico
690 della prima e originale natura della lingua
francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla considerazione de' loro
antichi scrittori, ma non si può pienamente sentire, perch'ella non ebbe
scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta. Nè quel
primo genere prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e
universale nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni
possibile genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri
esattissimamente esposti {e ordinati,} che un discorso.
Dove l'intelletto {e l'utilità} non desidera nulla, ma
l'immaginazione il bello, {il dilettevole} la natura, i
sensi ec. desiderano tutto. (24. Feb. 1821.).
[690,1] Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo
aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
[704,1]
704 L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la
sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle
piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo
esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente
nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione. Laonde
la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza.
La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli
scrittori. Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi
della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi. Perchè non
possedendola {intieramente e} fortemente, e sempre
sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova. E
quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva
dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E
questi in comparazione
705 degli altri sopraddetti, si
lodano bene spesso come scrittori senza presunzione. Quasi che da un lato fosse
presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar bene, e tutto quello che si
vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene
chi {ne} dimostra presunzione. Quando anzi il
dimostrarla, non solamente in ordine alla {buona}
lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale
scrivendo si possa incorrere. Perchè in somma è la stessa cosa che
l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà,
perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di
tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza. (28. Feb.
1821.).
[707,1] Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di
qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra,
la compone de' materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo
che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il
trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati,
s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo. Ma il cinquecento
708 formò e
determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura e
nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella
varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla
chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi
convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in
verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la
francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo
di Luigi 14. (1. Marzo
1821.).
[735,1] La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non
lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non
è quasi scrittor greco {di qualsivoglia secolo,} che
venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il
vocabolario greco di qualche novità.
736 Non è secolo
della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S. Basilio e S. Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la
lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano
ne' più antichi. E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del
proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa
forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de'
suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la
novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri.
Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale
e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le
novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse
sufficiente ad alimentare
737 qualunque numero di nuovi
abitatori o di forestieri. E questo si può vedere manifestamente anche per
quello che interviene oggidì. Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e
di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere
scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di
significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua viva,
ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e
scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua
morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle
cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione francese,
richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il
vocabolario francese ed anche europeo, di nuove voci greche. La fisica, la
Chimica, la storia naturale, le matematiche,
738 l'arte
militare, la nautica, {la medicina, la metafisica} la
politica ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e
diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci,
ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente
ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia
subito dal trarre il suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti
secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che
prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima
saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua
greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni
e parole. Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho
dette altrove p. 48
p.
50, non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza
immortale di quella lingua.
[784,1]
784 Da torvo parola
italianissima e di Crusca, il
Caro nell'Eneide (l. 2. dove parla del simulacro di Pallade) fece torvamente, parola che
non si trova nel Vocabolario. Ci può esser voce più chiara, più
naturale, e ad un tempo più italiana di questa? Ma perchè non
ista[istà] scritta nella
Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre la
{famosissima}
Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella voce non
si potrà usare? Questo lo dico per un esempio, ὡς ἐν τύπῳ. Del resto questo è un
derivato senza ardire nessuno, e sebbene anche di questa specie se ne danno
infiniti, e così anche giovano moltissimo alla lingua, sì per la moltitudine, sì
anche individualmente; nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi
nuovi di parole o modi già correnti, fatti con un certo ardire. Ma ho portato
questo esempio per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre
proprie radici, che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole
vecchie e usitate, {sì per la chiarezza che per la
naturalezza, per la forma, suono ec.} e quindi sieno tanto italiane
quanto la stessa italia. Del qual genere se ne danno,
come ho detto, infiniti a ogni passo. (15. Marzo
785 1821).
[819,1]
819 Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che
si oppone all'uso corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai,
perchè ogni volta ch'ella imbarbarisse, quella barbarie non potendo essere in
altro che nell'uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di questo o di
quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo conforme all'uso.
Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all'indole
sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in questo: giacchè in fatti una
parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi all'uso di quel
tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana. Di
più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe
820 mai stato
barbaro per nessuna lingua. Al più si potrebbe dire se quella lingua di quel tal
secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec. confrontando fra loro i secoli
di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue fra loro, delle
quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò si giudica
barbara. Anzi si chiamerebbe barbara se contro l'indole sua, volesse adottare e
accomodarsi all'andamento di una lingua migliore più bella ec. come se la lingua
inglese volesse adottare le forme della greca ec. Insomma barbarie in qualunque
lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che contraddice
all'uso corrente, ma quello solo che contraddice all'indole sua primitiva, per
conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua
natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio {e
bruttezza} in lei, quello ch'è virtù e bellezza in un'altra, se si
oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera
821 (benchè relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che
sia.
[838,1] Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una
lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella
lingua è adattata alla universalità. E per lo contrario tanto meno, quanto più
ella e[è] figurata, composta, contorta, quanto
più v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi
scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le prime qualità spettano per
eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto
più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede
alla francese, come tutte le lingue moderne {Europee,}
quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di
gran lunga, e neppure alla greca.
[863,1] Come la proprietà delle parole è ben altro che la
secchezza e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza e
facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben altro che
l'aridità e geometrica esattezza di esso. Così distinguete il carattere
dell'ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata
francese. Così quello dell'ottima e antica e propria lingua e scrittura
italiana, sì da quello della
864 francese, sì da quello
dell'odierna italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le parole,
modi ec. è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento e del
carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente
all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra
lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali ancorchè
straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di
barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente
barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può non esser
barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e
dall'indole sua. E tanto più barbaro è l'odierno italiano scritto, quanto il
sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la
cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche
coll'assoluta differenza del carattere totale della scrittura. (24. Marzo
1821.).
[928,2] La lingua Sascrita, quell'antichissima lingua indiana,
che quantunque {diversamente} alterata e corrotta, e
distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla in tutto l'
929
Indostan, (Annali di Scienze e Lettere
Milano. 1811. Gennaio. vol. 5. N. 13.
Vilkins, Gramatica della lingua
Sanskrita: articolo tradotto da quello di un cospicuo letterato nell'Edinburgh
Review. p. 28. 29. 31. fine - 32. principio. e 32. mezzo. 35. fine
- 36. principio) e altre parti dell'India, (ivi, 28.
fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni
*
poste all'oriente della medesima India (ivi 36.);
quella lingua che Sir William
(Guglielmo) Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose
orientali, sì delle lingue orientali e occidentali (ivi 37. princip. e
fine), non dubitò di dichiarare essere più perfetta della greca,
più copiosa della Latina, e dell'una e dell'altra più
sapientemente raffinata
*
(ivi 52.); quella
lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro secolo,
{non senza appoggio di notabili argomenti e
confronti,} che sieno derivate, o abbiano avuto origine comune con
lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l'antica Egiziana o Etiopica {(come pure i culti popolari {primitivi} di tutte queste nazioni)} (ivi. 37. 38.
princip. e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima,
perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi
(i suoi otto casi rendono
superfluo l'uso delle preposizioni.
*
ivi 52. fine), ma
le adopera esclusivamente da
prefiggersi ai verbi,
*
come {si
fa} in greco, laddove,
sole, rimangonsi prive affatto d'ogni significato.
*
(ivi.) Così che tutte le sue preposizioni sono destinate espressamente
ed unicamente alla composizione, e a variare e moltiplicare col mezzo di questa,
i significati
930 dei verbi. (Altre particolarità di
quella lingua, analoghe affatto alle particolarità e pregi delle nostre lingue
antiche, come formalmente l'osserva l'Estensore dell'articolo, puoi vederle, se
ti piacesse, nel fine d'esso articolo, cioè
dalla metà della p. 52. a tutta la p. 53.) (11. Aprile
1821.).
[932,1] L'estensione reale strettamente considerata, della
quale è capace una lingua, in quanto lingua
933 usuale,
quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e molto minore che non si crede.
Una stretta conformità di linguaggio, e per conseguenza una medesima lingua
strettamente considerata, non è comune se non ad un numero ben piccolo di
persone, e non occupa se non un piccolo tratto geografico.
[943,1] La lingua chinese è tutta {architettata e} fabbricata sopra un sistema di composti, non solo
quanto ai caratteri, {de' quali v. il pensiero precedente} ma parimente alla
pronunzia, ossia a' vocaboli. Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti i
caratteri non sono più di 352. secondo il Bayer, e 383 secondo il Fourmont. {+Ed eccetto che il
valore di {alcuni di} questi vocaboli si
diversifica {talvolta} per via di quattro toni,
dell'uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec. p. 317.- 318. e 320. lin.
7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi} sono composti; come
si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano
originalmente nelle nostre lingue. Annali ec. l. cit. nel pensiero
anteced. Rèmusat ec. p. 319. mezzo - 320 mezzo.
(14. Aprile 1821.). {{V. p. 944. capoverso
1.}}
[950,3]
Lo Spettatore
di Milano 15. Febbraio 1816. Quaderno 46.
p. 244. Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger Litter. Zeitung, rendendo brevissimo
conto di un opuscolo
951 tedesco di Pietro Enrico Holthaus,
intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e
dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso
Scherz, 1814. in 8o. grande, dice che, fra le altre cose, l'autore intende
provare Che il miscuglio di parole
straniere reca nocumento alla chiarezza delle
idee.
*
(L'opuscolo è diretto principalmente contro il
francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell'italiana)
Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri pp.
110-11
p.
808, dove ho detto che le parole greche nelle nostre lingue sono
sempre termini, e così si deve dire
delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa
sieno termini, e come si distinguano
dalle parole. E infatti i termini, e le
parole prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non
chiare, e così l'idea che
risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non
esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della
cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così che l'oggetto che
esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con
precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le
parole non derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per
l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra
mente un'idea sensibile della cosa, non
hanno
952 forza di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di
darcela precisamente ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono
formalmente esprimere. Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici
con parole del tutto straniere. Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la
chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono
massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella
efficacia, vivacità, e sensibilità con
cui esso ci fa concepire le cose di cui tratta. (17. Aprile
1821.).
[952,1]
Lo stesso autore nel medesimo opuscolo,
come si vede nel luogo citato, alla fine della detta pag. 244, critica Herder che tante parole ha introdotto
tolte dal latino e dal greco.
*
Questa critica è
{forse} giusta anche rispetto al latino, nella
lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della italiana, non
essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto alla francese,
non essendole sorella, come la nostra. {+E
quanto alla latina, le deve bastare quello che per le circostanze de' tempi
antichi ec. ella ne ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani ec. ma
questa fonte si deve ora ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come
quella che non ne deriva originariamente, e vi ha solo attinto per cause
accidentali.} La lingua inglese sarebbe la più atta a comunicare le
sue fonti colla tedesca, e viceversa. {V. p. 1011. capoverso
2.} Ma rispetto alla lingua italiana, la cosa sta
diversamente, perchè derivando {ella} dalla latina, non
si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre e non istagna.
Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare soprattutto di non
chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e più breve di farlo
corrompere e inaridire. Quella lingua che ha prodotta, {+e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì
largamente} la nostra, come si
953 dovrà
stimare che non possa nutrirla ed accrescerla, che non abbia più niente che le
convenga di ricavarne? Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua
proprio[propria] sostanza, e del proprio
succo, {+e di più
l'ha allevata, e condotta a perfettissima maturità e robustezza e vigore
ec.} come si dovrà credere e affermare che non sia adattato
a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata? che il di lui succo non sia
conveniente nè vitale nè nutritivo nè sano a quella pianta, mentre il terreno
abbia ancora succo, e in abbondanza? Perchè poi vorremmo spiantare la nostra
lingua? Forse perch'ella non possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano
più, e così venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove? in qual
terreno migliore, e più appropriato di quello che l'ha prodotta e cresciuta a
tanta grandezza, prosperità, floridezza ec?
[955,2]
L'antichità e
l'eccellenza della lingua sacra degl'indiani
*
(sascrita), hanno naturalmente chiamato a se l'attenzione e destato la
curiosità degli Europei. I ragguardevoli suoi titoli ad essere
considerata come la più antica lingua che l'uman genere conosca, muovono
in noi quell'interesse da cui le vetustissime età del mondo sono
circondate. Costruita secondo il disegno più perfetto forse che
dall'ingegno umano sia stato immaginato giammai, essa c'invita a
ricercare se la sua perfezione si restringa ne' limiti della sua
struttura, o se i pregi delle composizioni indiane partecipino della
bellezza del linguaggio in cui sono dettate.
*
Spettatore di
Milano. 15. Luglio 1817. Quaderno 80. parte straniera. p.
273. articolo di D.
Bertolotti sopra la traduzione inglese del Megha Duta
956 poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814. estratto però
senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione, come
apparisce in parecchi luoghi, e fra l'altro da' puntini che il Bertolotti pone dopo alcuni
paragrafi di esso articolo, come p. 274. 275. ec. (18. Aprile
1821.)
[956,1] La lingua greca va considerata rispetto all'italiana
nell'ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle
parole. Dico quanto ai modi, massimamente per la sua conformità naturale o
somiglianza in questa parte colla lingua latina sua sorella, e madre della
nostra, e di più perchè gli scrittori latini, dal nascimento della loro
letteratura, modellarono sulla greca le forme della loro lingua, e così hanno
tramandata a noi una lingua formata in grandissima parte sui modi della greca.
Del che vedi un bell'articolo del Barone Winspear (Bibliot. Ital. t. 8. p. 163.) nello
Spettatore di Milano, 1. Settembre
1817. Parte italiana, Quaderno 83. p. 442. dal mezzo al fine della
pagina. E così pure, parte per lo studio immediato de' greci
esemplari, (del che vedi ivi p. 443. dal principio al mezzo) parte per lo studio
de' latini, e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e
massimamente per una naturale conformità, che forse per accidente, ha la
struttura e costruzione della lingua nostra colla greca (come dice espressamente
la Staël nella B. Italiana
957 Vol. 1. p. 15. la costruzione gramaticale di quella lingua è
capace di una perfetta imitazione de' concetti
greci,
*
a differenza della tedesca della quale ha detto il
contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e somma affinità
fra l'andamento greco e l'italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo
e vero, cioè in quello del trecento. Da tutto ciò segue che la lingua greca,
come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per fatto
adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d'infinite e
variatissime forme e frasi e costrutti {(Cesari)} e idiotismi ec. Non così quanto
alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della
nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli scrittori o l'uso
latino ne derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all'idioma
nostro come latine e con sapore latino, non come greche. Le quali però ancora,
sebbene incontrastabili all'uso dell'italiano, tuttavia soggiacciono in parte,
malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me p. 951-952. Che p. e. chi dice filosofia eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella
parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia, cioè la
derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la
vivezza ed efficacia,
958 e limpida evidenza dell'idea,
quando si ascolta una parola. (19. Aprile 1821.).
[962,1]
Sono
perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto
le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille. I nostri traduttori
imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè
nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia
riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo
anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo
la georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior
somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui
mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi
dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne
perderebbe ogni decoro.
*
Staël, B. Ital. Vol. 1. p.
12. Esaminiamo.
[977,1] Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti
dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà,
e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo
s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome
scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita
colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi
strumenti son troppo facili e ovvi,
978 cosa contraria
alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del
poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de'
ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con
parole, o con gesti, o con lavori {triviali} di mano,
senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e
divina. (23. Aprile. 1821.).
[981,1]
Alla p. 740.
La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la grande
ignoranza in cui erano i greci del latino. La quale si fa chiara sì da altri
esempi che ho allegati in altro pensiero p. 44 (cioè quelli
di Longino nel giudizio timidissimo
che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di
Demostene, della quale v. il Toup ad Longin. p. 134.) sì ancora da questo, che
laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci, {colle lettere greche,} gli scrittori greci non mai {citavano {o usavano} parole latine se
non con elementi greci,} e con maraviglia, e come cosa unica notò il
Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto
secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine
barbaramente scritte in caratteri latini. (Didym.
Alexandr.
De Trinitate Lib. 1. cap. 15. Bonon.
typis Laelii a Vulpe 1769. {fol.} p. 18. gr. et
lat. cura Johannis Aloysii
Mingarellii. Vide ib. eius not. 3. e la Lettera a Mons.
Giovanni Archinto
Sopra un'opera inedita di un antico teologo
stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta
del Calogerà 1763. tomo XI.
e ristampata nell'Appendice alla detta opera: Capo 3. pag. 465. fine
- 466. principio. del che non si troverà
982 così facilmente altro esempio in altro
scrittore greco.
*
) {+Il che
dimostra sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano
ignorantissimi del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter
citare parole latine, com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano
in lettere greche, al contrario de' latini rispetto alle voci greche e
passi greci in caratteri latini ec.} Quanto poi i greci
dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della
Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste
parole del Cav. Hager, nel luogo cit.
qui dietro (p. 980.)
p. 245. Basta consultare la celebre opera di
S.
Agostino, De civitate Dei,
onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo
erano solleciti d'imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro
lingua a' popoli da loro sottomessi: Opera data est, ut imperiosa
civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis
gentibus per pacem societatis, imponeret
*
(Lib. XIX, cap.
7.)
Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai
risposta che in lingua latina: illud quoque magna
perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine
responsa darent
*
, (Lib. II., c. 2. n. 2.)
e ciò quantunque la lingua greca fosse tanto
famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la lingua latina
obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per
mezzo di un interprete in latino: Quin etiam... per interpretem loqui
cogebant... quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes
venerabilior diffunderetur.
*
*
(ibid.).
[983,3]
Un nostro
missionario
*
(cioè italiano) il P. Paolino da S. Bartolomeo,
mostrò l'affinità della lingua tedesca con una lingua indiana non solo,
ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola, con
la samscrdamica
*
(cioè sascrita: così la nomina anche p. 208. samscrdamica) che è la madre
di tutte le lingue delle Indie.
*
Bibliot. Ital. vol. 8. p. 206.
(25. Aprile 1821.).
[984,1]
Delle qualità e pregi della lingua
Sascrita, v. alcune cose estratte da un articolo di Jones nelle Notizie
letterarie di Cesena 1791. 24. Nov. p. 365. colonna 1.
Dell'abuso ch'ella fa talvolta de' composti. ib. p. 363.
colonna 2. fine.
{+Abuso simile a quello che ne facevano
talvolta gli antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai maggiore,
secondo la natura de' popoli orientali che sogliono sempre e in ogni genere
spingersi fino all'ultimo e intollerabile eccesso delle cose.}
(25. Aprile 1821.).
[985,1] La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia
in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e
licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei
popoli. I quali ora perciò non divengono liberi, perchè non
986 sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e
peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai. (25. Aprile
1821.).
[988,1] I latini erano veramente δίγλωττοι rispetto alla
lingua loro e alla greca 1. perchè parlavano l'una come l'altra, ma non così i
greci generalmente, anzi ordinariamente: 2. perchè scrivendo citavano del
continuo parole e passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano
parole o frasi greche nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che
vedi p. 981.
{{e p. 1052. capoverso
3.}}
{{e p.
2165.}}
[999,2] In prova di quanto la lingua greca, fosse universale,
e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore
estensione del dominio romano e de' romani pel mondo; si potrebbe addurre il
Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi
imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori {Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que' tempi),} quantunque
l'Evangelio di S. Marco si creda scritto in
Roma e ad uso degl'italiani, {+giacchè è rigettata da' {tutti i} buoni critici l'opinione che
quell'Evangelio fosse scritto originariamente in
latino;}
(Fabric.
B. G. 3. 131.) quantunque v'abbia
un'Epistola
di S. Paolo cittadino Romano,
diretta a' Romani, un'altra agli
Ebrei; quantunque v'abbiano le
Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di S. Giacomo, e di S. Giuda Taddeo. Ma senza entrare nelle
quistioni intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse
sue parti, osserverò quello che dice il Fabric.
B. G. edit. vet. t. 3. p. 153. lib. 4. c.
5. §. 9 parlando dell'Epistola di S.
Paolo a' Romani: graece scripta est, non latine, etsi Scholiastes
Syrus notat scriptam esse Romane ומאבח, quo vocabulo Graecam
1000 linguam significari,
Romę tunc et in omni fere Romano imperio
vulgatissimam, Seldenus ad
Eutychium
observavit.
*
E p. 131. nota (d.) §. 3. parlando delle testimonianze Orientalium recentiorum
*
che
dicono essere stato scritto il Vangelo di S. Marco in lingua romana,
dice che furono o ingannati, o male intesi dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam
quandoque intelligi observavit Seldenus.
*
Intendi l'Opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii
Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesię suae Origines
ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario
auxit Joannes Seldenus. {+Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem. dell'Archeol. §.
2. principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano
Giudei, o sia gli Etnici, compresi per cons. anche i romani. E così nella Scrittura Ἕλληνες passim opponuntur
Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo
alieni
*
(Scapula). Così ne' Padri antichi. Il che pure
ridonda a provare la mia proposizione. E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in
greco. V. anche il Forcell.
v. Graecus in
fine.}
[1010,2] Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano
così utile l'investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro
lingua, e se il Morofio (Polyhist. lib. 4. cap. 4.) si lagnava che al suo tempo i
suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum
*
ec. v. Andrès, luogo cit. qui sopra, p. 249.
quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua latina
(che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di perfetta
1011 cognizione; lingua così ricca, così colta così
letterata ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti d'ogni genere {e di tanto pregio}: laddove per lo contrario la lingua
teutonica originaria della tedesca (Andrès, ivi, p. 249. 251. 253. lin. 6. 14. 18. paragonando {anche} questi ultimi tre luoghi colla p. 266. lin.
9.) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a
conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e
scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun
pregio (Andrès, 249-254.)
{+Aggiungete
che l'esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel
mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova
alla ricchezza della fonte ec. ma anche al poterne noi attingere con assai
più franchezza. Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e
ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere ec. che cosa si
potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec. ec.?
chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec.
V. p. 3196.}
(4. Maggio 1821.).
[1012,2] Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando
ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'
1013 una volgare, e l'altra nobile, usata da'
patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano
i patrizi) (Andrès, l. c. p. 256. nota),
che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua
rustica, plebeia, vulgaris,
*
un sermo barbarus, pedestris,
militaris,
*
(Spettatore di
Milano, quaderno 97. p. 242.) è
noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di
Cicerone. (Andrès, l. c.) {Del
quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di
proposito.} Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina
divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i
governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che
sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre
l'unicità di una lingua, come ho detto altrove pp. 321-22, è
la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non
era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come
lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si
può dir, doppia ec. (4. Maggio 1821). {{V. p. 1020.
capoverso 1.}}
[1014,1] La vantata duttilità
*
della lingua
francese, (Spettatore di
Milano. Quaderno 93. p. 115. lin.
14.) oltre alle qualità notate in altro pensiero p. 30
pp.
787-88
p.
838, ha questa ancora, che non è punto compagna della varietà: e la
lingua francese benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore
paragonato cogli altri, uniforme e monotona. Cosa che a prima vista non par
compatibile colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla
ricchezza, dall'ardire, e dalla varietà. (5. Maggio 1821.).
[1014,3] L'u francese, del quale ho
discorso in altro pensiero pp. 54-55, potè essere introdotto in
Francia mediante le Colonie greche, come
Marsiglia ec.
[1015,1]
1015 Mediante le quali colonie ec. la lingua e
letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle
Gallie. V. il
Cellar. dove parla di
Marsiglia. E le
Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. V. anche il Fabric. dove parla di Luciano, B.
Gr. lib. 4. c. 16. §. 1. t. 3. p. 486. edit. vet.
[1029,1]
1029 La lingua latina superò per esempio la lingua
antica Spagnuola, la Celtica ec. mediante la semplice introduzione nella
Spagna, nelle Gallie ec. del
governo, leggi, costumi Romani. Ma a superar la greca non le bastò neppure il
trasportar nella Grecia la stessa
Roma, e quasi la stessa
Italia. (11. Maggio 1821.).
[1031,1] Che la lingua italiana massimamente e
proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno
derivate dall'{antico} volgare latino, si dimostra non
solo coi fatti {oscuri,} e coll'erudizione {recondita,} ma col semplice ragionamento sopra i fatti
notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è derivata
dall'antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana è una lingua
volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della
letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima
lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva
moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall'indole del latino scritto che
non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è
derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma
volgare e parlata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal
latino volgare.
[1037,2] Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non
applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall'esempio di tutte. Nessuna
lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita,
1038 e molto meno perfetta. Come dunque la perfezione
dell'italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua (come si scriveva
l'antica teutonica, non mai {ben} formata nè perfetta)
altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l'italiano non fu applicato che
nel 500. Nel 300. {veramente e propriamente} da tre
soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si
possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una
lingua fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della
perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cic. ec. ma nel tempo dei primi scrittorelli latini;
ovvero con molto più ragione in quello d'Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, {a Catullo, a Cicerone (contemporanei)} giacchè allora il latino fu
applicato {generalmente} a lavori molto più letterarii,
che nella universalità del 300. E così dico pure delle altre lingue o morte, o
viventi. (12. Maggio 1821.). {{V. p.
1056.}}
[1038,1] Nei tempi bassi furono veramente δίγλωττοι i
tedeschi e gl'inglesi, ossia la parte colta di queste nazioni, che scrivevano il
latino, se ne servivano per le corrispondenze, lettere ec. e parlavano le lingue
nazionali. E così pure gl'italiani, i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già
un volgare assai diverso dal latino scritto. Ma questa:
[1046,2] Principalissime cagioni dell'essersi la lingua greca
per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel fine della Lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua
ricchezza, e la sua libertà d'indole e di fatto. La qual libertà produce in
buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più
1047
certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque
lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante
l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare
dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua
naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se fra
le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene
provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che
vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua
indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de' caratteri
distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione
nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e
l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e
scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo,
rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il
principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima
coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può {di gran
lunga} mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e
numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E
questa antichità
1048 di formazione e di coltura,
antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l'indole
primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d'ogni
altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser più naturale, più
immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).
[1052,2] Dell'ignoranza del latino presso i greci v. Luciano, Come vada scritta la
storia. (14. Maggio 1821.).
[1053,1] Considerando per una parte quello che ho detto p. 937. seguenti , intorno
alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse
fortemente provveduto che l'uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel
linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per
servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l'altra
parte considerando le verissime osservazioni del Soave
(Appendice 1. al capo II. Lib. 3. del Saggio di Locke)
e del Sulzer (Osservaz. intorno all'influenza
reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla
ragione, nelle Memorie della R. Accadem. di
Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti,
Milano 1775. vol. 4. p. 42 - 102.) intorno
alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e
proporzionatamente della estensione e perfezione ec. delle cognizioni, senza la
perfezione, ricchezza ec. del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si
ottiene una nuova {e principalissima} prova, di quanto
il nostro presente
1054 stato e le nostre cognizioni
sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli
la natura vi avesse posti. (15. Maggio 1821.).
[1054,1] Come senza una lingua sono quasi impossibili le
cognizioni e nozioni, massime non corporee, o immateriali, e senza una lingua
ricca e perfetta, la moltitudine e perfezione delle dette cognizioni ed idee, e
il perfezionamento o il semplice incremento delle lingue conferisce
assolutamente a quello delle idee, conforme ha evidentemente dimostrato, oltre a
tanti altri e più antichi {+da Locke in poi,
(Sulzer, l. cit. qui dietro, p. 101. nota del Soave)}
e massime più moderni, il Sulzer nelle
Osservazioni
citate nella pag. qui dietro; così
proporzionatamente senza una lingua {(propria)}
arrendevole, varia, libera ec. è difficilissima la perfetta cognizione, e il
perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle altre lingue, mancando o
scarseggiando l'istrumento della concezione dei segni, come nell'altro caso
sopraddetto, l'istrumento della concezione chiara e fissa, {determinata e formata} delle cose {e delle
idee,} e della memoria di dette concezioni. (15. Maggio
1821.).
[1055,2] Quanto sia vero che la scrittura Chinese si possa
possa quasi perfettamente intendere, senza saper punto la lingua, v. se vuoi,
Soave, Append. 2. al Capo II. Lib. 3. del Compendio di Locke, Venezia 3.a edizione t. 2. p. 63.
principio. (16. Maggio 1821.).
[1059,1] La scrittura chinese non è veramente lingua scritta,
giacchè quello che non ha che fare (si può dir nulla) colle parole, non è
lingua, ma un altro genere di segni; come non è lingua la pittura, sebbene
esprime e significa le cose, e i pensieri del pittore. Sicchè la letteratura
chinese poco o nulla può influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non
può fare grandi progressi. (18. Maggio 1821.).
[1065,3] Dalle mie osservazioni sulla necessaria varietà
delle lingue pp. 952.
sgg.
p. 955
p.
1022
p.
1045, risulta che non solo le lingue furono naturalmente molte e
diverse anche da principio, per le
1066 impressioni che
le medesime cose fanno ne' diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o le
diverse maniere d'imitazione usate da' primi creatori e inventori della favella;
le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi ad
imitare e ad esprimere da' diversi uomini colla parola significante quella tal
cosa; (v. Scelta di Opuscoli interessanti, Milano.
Vol. 4. p. 56 - 57. e p. 44. nota) ma eziandio che introdotta e
stabilita una medesima favella, cioè un medesimo sistema di suoni significativi,
uniformi e comuni in una medesima società; questa favella ancora,
inevitabilmente si diversifica e divide {appoco appoco}
in differenti favelle. (19. Maggio 1821.).
[1066,2] Quanta sia la superiorità degl'italiani
nell'attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si può argomentare
proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta in loro, nel bello scriver
latino, ossia nella imitazione
1067 degli scrittori
latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo chi è
superiore nell'imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è necessario
che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità, suppone
questa seconda. Ora di questa superiorità degl'italiani nello scriver latino,
dal Petrarca fino a oggidì, v. Andrès t. 3. p. 247. - 248. e quivi le note del
Loschi, p. {89 - 92. p.} 99. - 102. t. 4. p. 16. e le
Epist. del Vannetti
al Giorgi.
(20. Maggio 1821.).
[1070,1] Quello che ho detto intorno alla novità delle parole
cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare alla novità de' sensi e
significati d'una parola già usitata, alla novità delle metafore ec. V. Scelta di
opuscoli interessanti. Milano. Vol. 4. p.
54. 58 - 61. I quali nuovi e diversi significati d'una stessa parola,
non denno però esser tanti che dimostrino povertà, {e
producano} confusione, ed ambiguità, come nell'Ebraico. (20.
Maggio 1821.).
[1093,1] La letteratura di una nazione, la quale ne forma la
lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi,
corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a
seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla
corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione
di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a
determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua
latina, così all'italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel
600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della
rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico,
corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta
1094 più secoli, e molto altro spazio poco alterata,
come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di
questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti {o
leggermente corrotti} nella lingua. Tanta era per una parte la
libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi
stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le
sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura
guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo,
e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua {varietà,} copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro.
Simile in ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo
gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto
altrove pp. 243-45
p.
321
pp.
686. sgg.
pp.
766-67. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a
differenza del francese, che avendo una sola
lingua, ha anche un solo
stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E
però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi
più o meno scrivono bene.
[1102,1] Dal pensiero
precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio
nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime e
generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie
rispetto all'uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli
organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di
qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione
naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e
de' suoni. Inclinazione materiale e innata nell'uomo, e che tuttavia fu la prima
origine del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l'uomo, ancorchè privo
di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec. (28. Maggio
1821.).
[1103,1]
1103 La poca memoria de' bambini e de' fanciulli, che
si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de' primi avvenimenti
della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe
attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne' bambini, e
alla imperfezione e scarsezza di esso ne' fanciulli? Essendo certo che la
memoria dell'uomo è impotentissima (come il pensiero e l'intelletto) senza
l'aiuto de' segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (V. Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti.
Milano 1775. p. 65. fine, e segg.) Ed
osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi,
mentre tutti sanno che l'uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai,
delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose
vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e
durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già
acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle {prime} idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi
potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere
moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso. (28. Maggio
1821.).
[1134,1] Osservo che la lingua latina è più atta a queste
speculazioni che la greca {, contro quello che può parere a
prima giunta, per causa della sua minore antichità vera o
supposta.}
[1157,1] Il concorso delle vocali suol essere accetto
generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali {d'occidente}) tanto più, quanto
elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e
quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de'
costumi e de' gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e
col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali
che da principio s'aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina
che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata {e
scritta} non ama il concorso delle vocali, perch'ella fu polita e
formata {e scritta} in tempi appunto politi e civili, e
i più lontani forse dell'antichità dalla prima naturalezza; nell'ultima epoca
dell'antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario la
lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi
antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come
dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo
conoscere, cioè la scritta,
1158 ama il concorso delle
vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e
nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.
[1132,2] E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi
radicali, {o tutti nomi, o quasi tutti,} che formavano
da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e differenziandoli
con {variazioni di significato, e con} innumerabili
inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a
cavare infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze
delle cose che da principio si confondevano e accumulavano
1133 in ciascuna delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò
che doveva servire tanto alla necessità quanto all'utilità ed alla bellezza e a
tutti i pregi del discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo
(anzi nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e
perfette che sieno state. E così denno essersi formate tutte le lingue colte del
mondo ec. Così la Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un
albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte ec. da uno di
questi monosillabi, come p. e. dux, che
somministrerebbe un'infinita figliuolanza, {+senza contare le tante inflessioni particolari di
ciascuno de' verbi o nomi derivati o composti ec. ne' loro diversi casi, o
persone {e numeri} e tempi e modi, e voci (attiva e
passiva);} e si vedrebbe per l'una parte quanto le vere radici sien
poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle
in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e
servire; per l'altra parte quanta sia l'immensa fecondità di una sola radice, e
le diversissime cose, e differenze loro, ch'ella si adatta ad esprimere mediante
i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.
[1116,1] Questa facoltà de' continuativi, è una delle
bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la lingua latina
diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le adattava ad
esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo
tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e
modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici
per cavarne molte e diverse significazioni, distintissime, chiare, certe, e
senza confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua
ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua
italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi,
formandoli da' verbi originarii con modificazioni di desinenza. Verbi derivati,
che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto spesseggiare
{+e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare, da punto o da pungere
ec.}; ora la sola diminutiva, come {+
tagliuzzare, sminuzzolare,}
1117
albeggiare (formato però non da altro verbo, ma da
nome, come altri pure de' precedenti; che così pure usa felicemente l'italiano),
{V. in questo proposito p. 1240-42. e nota che i
verbi in eggiare, par che almeno talvolta abbiano
un valore effettivamente continuativo, come fronteggiare, scarseggiare e molti, ma molti altri, e in diversi sensi continui, ben distinguibili dal frequente}
{e dal diminuitivo:
biancheggiare, rosseggiare, neutri ec.}
arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi puramente diminutivi);
ora l'una e l'altra insieme al modo de' verbi latini in itare, come canticchiare, canterellare,
{formicolare ec. (v. il Monti a questa voce, e alla v. frequentativo).} E
di altre tali formazioni di verbi {e d'altre voci;
formazioni} arditissime, utilissime a significare le differenze delle
cose, e moltiplicare l'uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda
la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, {e la stessa greca.} Ma de' continuativi manca affatto,
se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche
frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. {V. p. 1155.} Manca pure,
cred'io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e
modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi
bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch'ebbe
questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in
dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di
tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal
formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero
pure de' continuativi già formati e introdotti.
1118
Giacchè negli stessi antichi gramatici o filologi latini {de'
migliori secoli,} non trovo notizia nè osservazione positiva di questa
proprietà della loro lingua. {{V. p.
1160.}}
[1162,3] E finalmente spesse volte il continuativo significa
l'usanza, il costume di fare quella tale azione o atto significato dal verbo
positivo, come acceptare, datare, {captare} (v. il Forcellini), secondo
che abbiamo veduto, significano il costume di ricevere,
dare, prendere. {+(Forse captare nel senso p. e. di captare aves o pisces appartiene
piuttosto alla classe precedente de' continuativi dall'atto
all'azione.)}
{Noi abbiamo
appunto volgere, voltare (cioè volutare), e voltolare, o rivolgere, rivoltare ec. posit.ivo, contin.ivo e
freq.ivo.}
[1179,1] Non è verisimile che la lingua chinese si sia
conservata la stessa per sì lunga serie di secoli, a differenza di tutte le
altre lingue. Eppure i suoi più antichi scrittori s'intendono mediante le stesse
regole appresso a poco, che servono ad intendere i moderni. Ma la cagione è che
la loro scrittura è indipendente quasi dalla lingua, come ho detto altrove pp.
944-45, e (come pure ho detto p. 1019) la lingua
chinese potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè più nè
meno. Così dunque io non dubito che la loro antica lingua, malgrado
l'immutabilità straordinaria di quel popolo, se non è perita, sia certo
alterata. Il che non si può conoscere, mancando monumenti dell'antica lingua,
benchè restino monumenti dell'antica scrittura. La quale ha patito bensì
anch'essa, e va soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti
dalla lingua nel chinese) non essendo nelle mani e nell'uso del popolo, (massime
nella china,
1180 dove l'arte di
leggere e scrivere è sì difficile) conservano molto più facilmente le loro forme
essenziali e la loro significazione, di quello che facciano le parole che sono
nell'uso quotidiano e universale degl'idioti e de' colti, della gente d'ogni
costume, d'ogni opinione, d'ogni naturale, d'ogni mestiere, d'ogni vita, e
accidenti di vita. {+(A questo proposito
ecco un passo di Voltaire portato
dal Monti
Proposta ec. vol. 2. par. 1. p. 159.
Quasi tutti i vocaboli che frequentemente
cadono nel linguaggio della conversazione, ricevono molte
digradazioni, lo svolgimento delle quali è difficile: il che ne'
vocaboli tecnici non accade, perchè più preciso e meno
arbitrario è il loro significato
*
.)} E
lo vediamo pur nel latino, perduta la lingua, e conservati i caratteri, quanto
alle forme essenziali, e al valore. {Così nel greco
ec.} Ora nella China, conservato {l'uso, la forma, e il significato de' caratteri
antichi,} è conservata la piena intelligenza delle antiche scritture,
quando anche oggi si leggessero {con parole e} in una
lingua tutta diversa da quella in cui gli antichi Chinesi le leggevano.
(17. Giugno 1821.).
[1207,1]
1207 Quante cose si potrebbero dire circa l'infinita
varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all'armonia delle
parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell'orecchio sulla
bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni,
assuefazioni; {+ed intorno alla dolcezza,
alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un
luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella,
e graziosa un'altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle
abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso
della grazia, ora l'opposto ec. ec. V. p. 1263.} Lascio le differentissime armonie de' periodi
della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e
nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori
d'una stessa lingua e nazione, e d'un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose
relative all'armonia de' versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante,
sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all'orecchio, ma
non si accorge di verun'armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si
accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità
regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata
spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si
poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi
che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che
parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più
facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche
1208 il maggior numero di parole, considerando se non
altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l'infinita copia e
varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero
potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente,
forzando meno il senso, il verso, l'armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E
nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi
all'armonia de' loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la
rima.
[1213,1] Da qualche tempo tutte le lingue colte di
europa hanno un buon numero di voci comuni, massime
in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra
tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno
colto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci pertinenti alle
scienze, dove quasi tutta l'europa conviene. Ma una
grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così,
più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e
le nostre medesime ne' passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse
in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la
raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell'uomo in
questi ultimi tempi; {+e in somma tutte o
quasi tutte quelle parole ch'esprimono precisamente un'idea al
tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera;}
grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte
d'europa, eccetto piccole modificazioni particolari,
per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola
lingua, o un vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente
universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch'è lingua
secondaria
1214 di tutto il mondo civile. Ma questo
vocabolario ch'io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le
nazioni, e serve all'uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e
parlatori di tutta l'europa colta. Ora la massima parte
di questo vocabolario {universale} manca affatto alla
lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch'è puro
in tutta l'europa, è impuro in
italia. Questo è voler veramente e consigliatamente
{metter} l'italia fuori di
questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi
una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose
che appartengono all'intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per
tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta
l'europa adopera oggi più universalmente e
frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la
lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a
differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per
tutta l'europa ha sempre avuto una nomenclatura
universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto
egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le
cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema
semplicizzato e uniformato, è comune oggi
1215 più o
meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell'andamento del secolo.
Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la
massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme
generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono
sempre il termometro de' costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de' tempi,
e seguono per natura l'andamento di questi.
[1232,1] La trattabilità e facilità della lingua francese,
ond'ella è così agevole a scriver bene e spiegarsi bene sì {per lo} straniero che l'adopra o l'ascolta, sì pel nazionale, non
deriva dall'esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità negatale espressamente dal Thomas)
ec. ma dall'essere un piccolo strumento, e quindi manuale, εὐμεταχείριστος,
maneggiabile,
1233 facile a rivoltarsi per tutti i
versi, e ad adoprare in ogni cosa. ec. (27. Giugno 1821.).
[1233,1] Quello che ho detto pp. 1213.
sgg.
pp. 1221-22 de' termini
filosofici comuni oggi a tutta europa, bisogna anche
estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli
oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il
nome, lo conservano in gran parte per tutte le lingue e nazioni, e così è sempre
accaduto. Quanto però al Vocabolario ch'io propongo, il comprendervi questi
nomi, sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o
materiali. (28. Giugno 1821.).
[1237,1]
1237 Nè solamente col progresso dello spirito umano si
sono distinte e denominate le diverse parti componenti un'idea che gli antichi
linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee
contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche
idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non
si sapevano per l'addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa
voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d'altra specie o genere. V. p. e.
quello che ho detto p. 1199-200.
circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè
appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne' linguaggi comuni, si chiami
bello, e l'intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
[1238,2] Già non accade avvertire che tali parole universali
in europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto
più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di quello riescono agli
stranieri, non ostante che in italia non sieno
riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne'
Vocabolari. E di questo è cagione 1. l'uso giornaliero
1239 del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di
forestiero e di barbaro, che l'uso di siffatte parole. 2. l'uso di molti
scrittori italiani moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro
rimprovero fuorchè di avere adoperato tali voci. 3. l'intelligenza e l'uso del
francese, familiare agl'italiani come agli altri, dal qual francese son
derivate, o nel quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono
ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole. Circostanza
notabile e favorevolissima all'introduzione di tali voci in nostra lingua,
mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci
vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma facilmente
adattabile al nostro idioma, massime dopo averci familiarizzato l'orecchio
mediante l'uso fattone da essa lingua 1o. sì comune in
italia
{e per tutto,} 2o. sì affine alla nostra (29.
Giugno, dì di S.
Pietro. 1821.).
[1240,1] Una delle principali, vere, ed insite cagioni della
vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è la sua immensa
facoltà dei derivati, che mette a larghissimo frutto le sue radici. Osserviamo
solamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de' verbi
frequentativi o diminutivi. Colla desinenza in eggiare
come da schiaffo,
1241 da vezzo, da arma, {da poeta, o poetare, da
verso,}
schiaffeggiare, vezzeggiare,
armeggiare, {poeteggiare,
verseggiare;}
{+(e così da
vano o vanare,
vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec. e
da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare,)} in icciare come da arso
arsicciare; in icchiare,
come da canto
canticchiare; in ellare come
da salto
saltellare; in erellare,
come pur da salto
salterellare, e da canto
canterellare; in olare, come
da spruzzo
spruzzolare, {da vòlto
voltolare, da rotare, rinfocare,
rotolare, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare;} in
igginare, come da piovere
piovvigginare; in uzzare,
come da taglio
tagliuzzare; in acchiare
come da foro
foracchiare; in ecchiare,
come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare;
{+(e così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare come da scorrere
scorrazzare, da volare
svolazzare;}
{+in
eare come da ruota o rotare
roteare (che la Crusca chiama
V. A. non so perchè) alla spagnuola rodear,
blanquear cioè biancheggiare e imbiancare
ec.;} in ucchiare, come da bacio
baciucchiare; {in onzare come da ballo
ballonzare;} ed in altri modi ancora, che
neppur qui finisce il novero, {+senza
contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec.
ovvero diminutivi de' frequentativi o viceversa.} E queste, e le altre
formazioni sono di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e
costante, in modo che vedendo una tal formazione, e conoscendo il significato
della voce originaria, s'intende subito la modificazione che detta parola
formata esprime, dell'idea espressa dalla parola {materna.} La pazza idea per tanto (ch'è l'ultimo eccesso della
pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che
seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza di
nostra lingua. V.
1242 in questo proposito p. 1116-17. Io non dubito (e
l'esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà certa
{stabile} e definita ch'ella ha dei derivati, {e nell'uso che ne sa fare, e ne ha fatto,} la lingua
nostra non vinca la latina, e la stessa greca. {+Alla quale però si rassomiglia assai anche per questa
moltiplicità di forme nelle derivazioni che hanno un medesimo o simile
significato, a differenza della latina, non già povera, ma più regolata e
con più certezza circoscritta in ciò, come nel resto. V. la p. 1134. fine.}
(29. Giugno 1821.). {+Queste
sono le vere cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua
resterà sempre superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi
vocaboli ec. particolari, ch'elle vanno tuttogiorno acquistando.}
{{V. p. 1292. capoverso
1.}}
[1243,2] Altre cagioni di fatto della ricchezza e varietà
della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho detto altrove
pp. 343-45
p. 686
p. 776-77 sono:
[1262,1] A quello che ho detto altrove pp. 601-602 della
impossibilità di formarsi idea veruna al di là della materia, e del nome
materiale imposto allo stesso spirito e all'anima, aggiungete che noi non
possiamo concepire verun affetto dell'animo nostro se non sotto forme o
simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via di traslati presi
dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo il significato
proprio e primitivo per ritenere il metaforico), come infiammare, confortare,
muovere, toccare, {inasprire, addolcire, intenerire,
addolorare,} innalzar l'animo ec. ec. Nè solo gli affetti ma gli
accidenti tutti o siano prodotti da cose interiori, o dall'azione immediata
degli oggetti esteriori, come costringere, ed altri de' sopraddetti ec. (2. Luglio
1821.). {{V. p. 1388. princip.}}
[1263,2]
Alla p. 1134.
Lo studio dell'etimologie fatto coi lumi profondi dell'archeologia, per l'una
parte, e della filosofia per l'altra, porta a credere che tutte o quasi tutte le
antiche lingue del mondo, {(e per mezzo loro le
moderne)} sieno derivate antichissimamente e nella caligine, anzi nel
buio de' tempi {immediatamente, o mediatamente} da una
sola, {+o da pochissime lingue
assolutamente primitive, madri di tante e sì diverse figlie.} Questa
{primissima lingua,} a quello che pare, quando si
diffuse per le diverse parti del globo, mediante le trasmigrazioni degli uomini,
era ancora rozzissima, scarsissima, priva d'ogni sorta d'inflessioni,
inesattissima, costretta a significar cento cose con
1264 un segno solo, priva di regole, e d'ogni barlume di gramatica ec. e
verisimilissimamente non applicata ancora in nessun modo alla scrittura. (Se mai
fosse già stata in uso la così detta scrittura geroglifica, o le antecedenti,
queste non rappresentando la parola ma la cosa, non hanno a far colla lingua, e
sono un altro ordine di segni, {+anteriore forse alla stessa favella; certo, secondo me, anteriore a
qualunque favella alquanto formata e maturata.)} Nè dee far maraviglia
che la grand'opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo che vi pensa,
e molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di ciascuna parola,
chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i suoni umani a un
ristrettissimo numero di segni detto alfabeto, abbia fatto lentissimi progressi,
e non prima di lunghissima serie di secoli, abbia potuto giungere a una certa
maturità; non ostante che l'uomo fosse già da gran tempo ridotto allo stato
sociale. {+Quanto all'alfabeto o
scrittura par certo ch'egli fosse ben posteriore alla dispersione del genere
umano, sapendosi che molte nazioni già formate presero il loro alfabeto da
altre straniere, come i greci dai Fenici, i latini ec. Dunque non era noto
prima ch'elle si disperdessero, e dividessero, giacch'elle da principio non
ebbero alcun alfabeto. E i Fenici l'ebbero pel loro gran commercio ec.
Dunque esistendo il commercio, le nazioni erano, e da gran tempo,
divise.}
[1304,1] A quello che ho detto del linguaggio popolare, pochi
pensieri addietro, soggiungi. Il linguaggio popolare è {ricca
e} gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla lingua scritta, ma
propriamente allo scrittore. Vale a dire, bisogna che questo nell'attingerci,
nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera che non
dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l'arte ha introdotto nello scrivere,
ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere artifizioso
ed elegante. Non già le deve trasferir di peso dalla bocca del popolo alla
scrittura, se già non fossero interamente adattate per se medesime, o se la
scrittura non è di un genere triviale o scherzoso o molto familiare ec. Così che
io
1305 dico che il linguaggio popolare è una gran
fonte di novità ec. allo scrittore, nello stesso modo in cui lo sono le lingue
madri ec. le quali somministrano gran materia, ma tocca allo scrittore il
formarla, il lavorarla, e l'adattarla al bisogno, non già {solamente} trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.
(10. Luglio 1821.).
[1313,1] Chi vuol persuadersi dell'immensa moltiplicità di
stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua italiana, consideri le
opere di Daniello Bartoli, meglio
*
del quale niuno conobbe i più riposti segreti della nostra
lingua.
*
(Monti, Proposta, vol. 1 par.
1. p. XIII.)
1314 Un uomo consumato negli studi della nostra
favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo scrittore, resta
attonito e spaventato, e laddove stimava d'essere alla fine del cammino negli
studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala pena al mezzo. Ed io
posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli
scrittori italiani d'ogni sorta e d'ogni stile, fa disperare di conoscer mai
pienamente la forza, e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua
italiana può assumere. Vi trovate in una lingua nuova: locuzioni e parole e
forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per
bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle
volte disgrada lo stesso Dante, e vince
non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno, di
qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella.
E tutta questa novità non è già novità che non s'intenda, che questo non sarebbe
pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore.
Tutto s'intende benissimo, e tutto è nuovo, e diverso dal consueto:
1315 ella è lingua e stile italianissimo, e pure è
tutt'altra lingua e stile: e il lettore si maraviglia d'intender bene, e
perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una
lingua, che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però ben inteso. Tale è
l'immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e
pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che
gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi
confessare. (13. Luglio 1821.).
[1316,1] La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti
gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a tutti i generi di
scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e preciso. Perchè vogliamo noi
ch'ella manchi e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch'è di essere
adattata anche a questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero,
quantunque l'esito sia certo, non s'è fatta mai la prova di applicare la buona
lingua italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici
1317 negli scritti del Galilei del Redi, e pochi
altri; ed alla politica, negli scritti del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto
alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le
cognizioni d'allora. Ma a {quel} genere filosofico che
possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale,
l'ideologia, la psicologia (scienza de' sentimenti, {delle
passioni} e del cuore umano) {+la logica, la politica più sottile,} ec. non è stata mai applicata la
buona lingua italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il
tutto degli studi e della vita d'oggidì. (13. Luglio 1821.).
[1317,1] I termini della filosofia scolastica possono in gran
parte servire assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato
(quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe danno alla
precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un
poco senz'alcun danno della chiarezza ec. E questi termini si confarebbero
benissimo all'indole della lingua italiana, la quale ne ha già tanti, {e} i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta
filosofia, ed introdottala nelle scritture più colte ec. oltre che derivano
tutti o quasi tutti dal latino,
1318 o dal greco
mediante il latino ec. Anche per questa parte ci può essere utilissimo lo studio
del latino-barbaro, ed io so per istudio postoci, quanti di detti termini,
andati in disuso, rispondano precisamente ad altri termini della filosofia
moderna, che a noi suonano forestieri e barbari; e possano essere precisamente
intesi da tutti nel senso de' detti termini recenti: e così quanti altri ve ne
sarebbero adattatissimi, {e utilissimi,} ancorchè non
abbiano oggi gli equivalenti ec. ec. {anzi tanto più.}
Aggiungete che benchè andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran
parte di detti termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per
questa e per altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza.
(13. Luglio 1821.)
{{v. p.
1402.}}
[1329,1]
1329 Perocchè l'arte militare fu coltivata in
italia prima che altrove, o più che altrove nel
principio (come quasi tutte le discipline), perciò quest'arte conserva presso i
forestieri e nelle lingue loro, molte parole o termini italiani, cioè venuti
dall'italiano, e applicati a quell'arte o scienza in
italia, e da' nostri scrittori. V. la lettera del
Lancetti al Monti nella Proposta ec. Vol. 2. par. 1.
nell'appendice. (15. Luglio
1821.).
[1332,1] Altra gran fonte della ricchezza e varietà
1333 della lingua italiana, si è quella sua immensa
facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, {costruzioni, modi ec.,} e variarne al bisogno il significato,
mediante detta variazione di forme, o di uso, {o di
collocazione ec.} che alle volte cambiano affatto il senso della voce,
alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola
differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l'immensa
facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di
cui non la potremmo spogliare senz'affatto travisarla), e naturale a spiriti
così vivaci {ed immaginosi} come i nostri nazionali.
Parlo solamente del potere usare p. e. uno stesso verbo in senso attivo,
passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll'articolo o
senza; {+con uno o più nomi alla volta, e
anche con diversi casi in uno stesso luogo;} con uno o più infiniti di
altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel
segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co' gerundi; {con questo o quell'avverbio, o particella (che, se, quanto
ec.);} e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla
varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall'inusitato, e in somma
alla bellezza del discorso,
1334 ma anche sommamente
all'utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua,
servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la
significazione, e modificarla; potendo l'italiano esprimere facilissimamente
{e chiaramente,} mille cose nuove con parole
vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della
lingua ec. Questa facoltà l'hanno e l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue
colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse {e senza forse} nè alla greca nè alla latina, e vince
tutte le moderne. E l'è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in
questa facoltà, che forma uno de' principali ed essenziali caratteri della
lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo
spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell'utilità che ne risulta?
Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a
servirsene? Se essa fu data alla lingua da' suoi fondatori e formatori ec. E se
del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel
Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille
esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque
il detto uso sia perfettamente d'accordo colla detta facoltà della lingua, e
colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole
in lei
1335 sono proprietà vive e feconde, e conservare
solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono
proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta
pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non
coll'orecchio nè coll'indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non
coll'orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè
gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal
modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da'
Vocabolaristi. Ma non è caso ch'essi abbiano data o non data alla lingua la
facoltà di usarla ec. e che quella voce, {forma ec.}
convenga o non convenga colle proprietà della lingua {da
loro} formata, e col suo costume. {ec.} E
questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll'orecchio formato dalla
lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de' Classici, e pieno e
pratico, e fedele interprete e testimonio dell'indole della lingua, sola
solissima norma per giudicare di una voce {o modo} dal
lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l'unica guida di tutti
quanti i Classici scrittori
1336 sì di tutte le lingue,
come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto
sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia
giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse
principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
[1338,2] Perchè la medicina ha fatto da Ippocrate in qua meno progressi, e sofferto meno
cangiamenti essenziali che, possiamo dire, qualunque altra scienza, in pari
spazio di tempo; e quindi conservasi forse più vicina di ogni altra alla
condizione e misura ec. in cui venne dalla Grecia; perciò
quella parte della sua nomenclatura che si compone di vocaboli greci, è forse
maggiore che in qualsivoglia altra scienza o disciplina, ragguagliatamente e
proporzionatamente parlando. Non dico niente della Rettorica ec. (17.
Luglio 1821.). {{V. p.
1403.}}
[1350,1] 1. La differenza delle lingue, e la maggiore o minor
copia de' termini, maggiore o minor
precisione e universalità loro, e certezza di significato e stabilità. V. Sulzer, negli Opuscoli
interessanti di Milano, vol. 4. p. 65 - 70.
79 - 80. La maggiore o minor copia di parole esprimenti idee chiare ec. v.
ib. p. 53 - 54. Una delle grandi ragioni per
cui i greci negli studi astratti e profondi, (sì filosofici che gramatici ec.
ec. ec.) come in ogni altro genere di cognizioni andarono avanti a tutti gli
antichi, ai latini ec. io credo certo che sia la gran facilità che aveva la loro
lingua ad esprimere, ed esprimere precisamente le nuove cose, le nuove e
particolari idee di ciascuno. Facilità che si sperimenta anche oggi
nell'attingere da quella lingua a preferenza di ogni altra i nomi delle nuove o
più precise e sottili cose ed idee, e le intere nomenclature ec.
[1356,2] È cosa già nota che la letteratura e poesia vanno a
ritroso delle scienze. Quelle ridotte ad arte isteriliscono, queste prosperano;
quelle giunte a un certo segno, decadono, queste più s'avanzano, più crescono;
quelle sono sempre più grandi più belle più maravigliose presso gli antichi,
queste presso i moderni; quelle più s'allontanano dai loro principii, più
deteriorano, finchè si corrompono, queste più son vicine ai loro principii più
sono imperfette, deboli, povere, e spesso stolte. La cagione è che il principal
fondamento di quelle è la natura, la quale non si perfeziona (fuorchè ad un
certo punto) ma si corrompe; di queste la ragione la quale ha bisogno del tempo
per crescere, ed avanza in proporzione de' secoli, e dell'esperienza. La qual
esperienza è maestra della ragione, nutrice, {educatrice} della ragione, e omicida della natura. Così dunque accade
rispetto alle lingue.
1357 Quelle qualità loro che
giovano per l'una parte alla ragione, e per l'altra da lei dipendono, si
accrescono e perfezionano col tempo; quelle che dipendono dalla natura,
decadono, si corrompono, e si perdono. Quindi le lingue guadagnano in
precisione, allontanandosi dal primitivo, guadagnano in chiarezza, ordine,
regola ec. Ma in efficacia, varietà ec. e in tutto ciò ch'è bellezza, perdono
sempre quanto più s'allontanano, da quello stato che costituisce la loro
primitiva forma. La combinazione della ragione colla natura accade quando elle
sono applicate alla letteratura. Allora l'arte corregge la rozzezza della
natura, e la natura la secchezza dell'arte. Allora le lingue sono in uno stato
di perfezione relativa. Ma qui non si fermano. La ragione avanza, e avanzando la
ragione, la natura retrocede. L'arte non è più contrabbilanciata. La precisione
predomina, la bellezza soccombe. Ecco la lingua che avendo perduto il suo
primitivo stato di natura, e l'altro più perfetto di natura regolata, o vogliamo
dire formata, cade
1358 nello stato geometrico, nello
stato di secchezza, e di bruttezza. (La lingua francese nella sua formazione, si
accostò fin d'allora, per le circostanze del tempo, a quest'ultimo stato, perchè
prevalse in essa la ragione, e l'equilibrio fra l'arte e la natura, nella lingua
francese non vi fu mai, o non mai perfetto.) I filosofi chiamano questo stato,
stato di perfezione, i letterati, stato di corruzione.
[1361,1] Tutto ciò si deve applicare non solo alle lingue, ma
alle letterature ancora, la cui perfezione parimente consiste in quel punto che
ho detto delle lingue, {ec.} ed alle quali parimente
conviene separarsi dalla moderna filosofia, ed ai letterati non esser filosofi
alla moderna, non solo nelle scritture, ma, se è possibile, neppur nell'animo
ec. (21. Luglio 1821.)
[1363,1]
1363
Alla p. 1347.
marg. Così anche cadono necessariamente nell'i il ch, il ge e
gi, e lo j francesi.
Così pure il nostro e latino sci o sce, che sono suoni distinti, e ben diversi da quello
della s e del c schiacciato,
qual è p. e. il suono di s e c in excitare; e molto più da quello della
s e del c duro. Il ge e gi de' francesi, e il
loro j sono pure nello stesso modo ben differenti dal
suono di s e g qual è p. e.
in disgiunto. Il detto suono francese a noi manca,
mancava ai latini, ai greci, manca agli spagnuoli ec. Manca pure (ch'io sappia)
agli spagnuoli il nostro sci o sce, francese ch, inglese sh. Del resto il c e g schiacciato, e tutti gli altri suoni affini a
questi, mancarono e mancano ai greci. Mancano pure detti suoni ai francesi, che
però hanno gli altri suoni affini che abbiamo veduto. Manca quello del gi o ge italiano e latino
agli spagnuoli. Tedeschi, inglesi ec. (21. Luglio 1821.).
[1366,1] Non basta che Dante, Petr.
Bocc. siano stati tre sommi scrittori.
Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè
quando pur
1367 fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il
secol d'oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno
maggiore di Omero ebbe {mai, non dirò} la Grecia,
ancorchè sì feconda per sì gran tempo, {ma il mondo?} E
tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d'oro della
lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: {+(v. se vuoi, la lettera al Monti
sulla Grecità del Frullone, in fine.
Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.)}
quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il
primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente
antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare
alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell'italiana, ch'è pur lingua
moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio
1821.). {{V. p. 1384. fine.}}
[1386,1] Quanto la civilizzazione per sua natura tenda a
conformare gli uomini e le cose umane, come questo sia l'uno de' principali suoi
fini, ovvero de' mezzi principali per conseguire i suoi fini, si può vedere
anche nella lingua, nell'ortografia, nello stile largamente considerato, nella
letteratura ec. Tutte cose tanto
1387 più uniformi in
una nazione, quanto ella [è] più civile, o si va
civilizzando di mano in mano, e tanto più varie quanto ella è più lontana dalla
civiltà perfetta, o più vicina a' suoi principj ec. E ne' principii tutte queste
cose furono sommamente varie, incerte, discordi, arbitrarie ec. presso qualunque
nazione delle più colte oggidì. {+Lo
stabilire e il formare o l'essere stabilita e formata una lingua
un'ortografia ec. non è quasi altro che uniformarla. Giacchè sia pur ella
regolarissima in questo o quello scrittore o parlatore, ella non è stabilita
nè formata nè buona se non è uniforme nella nazione; e sia pure
irregolarissima (come la greca ec.) ella è stabilita ec. quando in quel tale
stato ella è riconosciuta, intesa e adoperata stabilmente e regolarmente dalla nazione. Allora
l'irregolarità è regola, e nel caso contrario la regolarità è
irregolare.}
(25. Luglio 1821.). {{V. se vuoi, pp. 1516-17.}}
[1388,1]
1388
Alla p. 1262. al
capoverso 1. Chiunque potesse attentamente osservare e scoprire le
origini ultime delle parole in qualsivoglia lingua, vedrebbe che non v'è azione
o idea umana, o cosa veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi, che
sia stata espressa con parola originariamente applicata a lei stessa, e ideata
per lei. Tutte simili cose, oltre che non sono state denominate se non tardi,
quantunque fossero comunissime, usualissime e necessarie alla lingua, e alla
vita ec.; non hanno ricevuto il nome se non mediante metafore, similitudini ec.
prese dalle cose affatto sensibili, i cui nomi hanno servito in qualunque modo,
e con qualsivoglia modificazione di significato o di forma, ad esprimere {le} cose non sensibili; e spesso sono restati in
proprietà a queste ultime, perdendo il valor primitivo. Osservate p. e. l'azione
di aspettare. Ell'è affatto esteriore, e materiale, ma siccome non cade
precisamente sotto i sensi, perciò non è stata espressa nelle nostre lingue se
non per via di una metafora presa dal guardare, ch'è azione tutta sensibile.
V. la p. 1106. Bensì questa
metafora
1389 è poi divenuta parola propria, perdendo
il senso primitivo.
[1422,2] Figuriamoci la parola commercio in quel senso preciso, e al tempo stesso vastissimo, nel
quale tutto il mondo l'adopra oggidì, nel quale tanto se ne scrive, nel quale
tutti i filosofi considerano e trattano questo soggetto. La
Crusca non porta esempio di questa parola in questo senso,
{e veramente ella in tal senso non è classica.} Noi
abbiamo la voce {{classica,}}
mercatura che secondo l'etimologia ec. vale a presso a
poco lo stesso. Or dunque sarebb'egli ben detto, le forze,
gli effetti, la scienza della mercatura, in vece del commercio? Produrremmo noi quell'idea precisa ec. che produce
questa seconda voce? l'idea di quella cosa che (si può dire) nel
1423 passato secolo, si è ridotta a scienza, e fa tanta
parte delle considerazioni del filosofo, e ha tanta influenza sullo stato delle
nazioni, e del genere umano? Signor no: e s'io dirò, Principalissima sorgente di civiltà si è la mercatura, in
cambio di dire il commercio, non solamente non sarò
bene inteso nè dagli stranieri nè dagl'italiani, ma sarò deriso dagli uni e
dagli altri, e massime da questi. E se le {sue}
Lezioni di
commercio il nostro Genovesi le avesse intitolate Lezioni
di mercatura, avremmo noi medesimi potuto ben rilevare dal titolo il
soggetto dell'opera? {Così dico del Saggio sopra il
Commercio dell'Algarotti.} Ecco quanto importi l'attenersi
precisamente alle parole ricevute, e dalla convenzione precisamente applicate,
massime in fatto di scienze ec. quando anche s'abbiano parole più eleganti, più
classiche, e che in altri casi si possano benissimo adoperare in luogo delle più
comuni, come accade di mercatura, che si può bene
adoperare in molti casi, come si adopera traffico ec.
ma non dove il soggetto domanda quella precisione di significato ch'è propria
della voce Europea, commercio. (31.
1424 Luglio. 1821.). {{V. p.
1427.}}
[1424,1]
Ogni scienza, e ogni arte ha li suoi termini, e
vocaboli,
*
dice il Davanzati nella Notizia de' Cambj,
(Bassano 1782. p. 92.) il quale però chiama
Mercatura quello che noi Commercio. Molto più saranno importanti e da rispettarsi quei vocaboli
che servono di nome alla scienza o all'arte, come qui. (31. Luglio
1821.).
[1434,2] In uno stesso tempo e nazione, quegli prova un vivo
senso di eleganza, in tale o tal parola, o metafora, o frase, o stile, perocchè
non v'è assuefatto; questi nessuno, per la contraria ragione. Una stessa
persona, oggi prova gran gusto di eleganza in uno scrittore, che alquanto dopo,
quand'egli s'è avvezzato ad altri scritti più eleganti, non gli pare elegante
per nulla, anzi forse inelegante. Così è accaduto a me, circa l'eleganza degli
scrittori italiani. Così coll'assuefazione (e non altro) si forma il gusto, il
quale come ci tende capaci di molti piaceri, che per l'addietro malgrado la
presenza degli
1435 stessi oggetti ec. non provavamo,
così anche ci spoglia di molti altri che provavamo, e generalmente, o almeno
bene spesso, e sotto molti aspetti, ci rende più difficili al piacere. (1.
Agosto. 1821.).
[1435,1] Il piacere che si prova della purità della lingua in
uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e
quando è più difficile il conservare detta purità, ed essa meno spontanea e
naturale. I trecentisti ne se doutoient point di
questo piacere ne' loro scrittori, che sono il nostro modello a quello riguardo.
E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo pregio, nè che questo fosse
un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole provenzali, Lombarde,
genovesi, arabe, greche storpiate, {latine} ec. che
adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl'inglesi la cui lingua non è
stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un
Vocabolario autorizzato, forse non
sanno che cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal
confronto, e finchè non vi sono
1436 scrittori o
parlatori impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità
della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè senza
cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove pp. 1325-26 che i
toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e
infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, {e che la purità dipende da esse,} e fin da quando esse
nacquero; perch'essi non le sanno, non le curano, e fin d'allora, generalmente
parlando, non le curarono. (Varchi, e
Speroni. V. Monti
Proposta ec. alla v. Becco, nel
Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco
anche in ordine alla purità dello stile {ec. ec.}
{{(2. Agos. 1821.)}}
[1465,1] Le pazze filosofie degli antichi, la stessa
scolastica, lasciando tutto il resto, hanno sommamente, e forse principalmente
giovato al progresso dello spirito umano, in che? riguardo ai nomi. Le profonde
meditazioni, le acutissime sofisticherie, il lambiccarsi il cervello, circa le
astrazioni, le qualità occulte, ed altri sogni, ci hanno dato la denominazione e
quindi la fissazione d'idee prime, elementari, secretissime, difficilissime
1466 a concepire, a definire, ad esprimere, ma tanto
necessarie, usuali ec. che senza tali nomi la filosofia non sarebbe ancor nulla.
Astratto, {e}
concreto, essenza, sostanza e accidente, e tali altri termini
d'ontologia, logica ec. Che sarebbe il pensiero dell'uomo s'egli non avesse idea
chiara di tali ripostissime, ma universalissime cose? e come l'avrebbe senza i
nomi? i quali dopo sì piene rivoluzioni della filosofia ec. sono e saranno pur
sempre in bocca de' filosofi. Ma certo la difficoltà d'inventarli è stata somma,
e tale che la filosofia moderna forse non ne sarebbe stata capace. E mentre le
{idee} più difficili a concepirsi chiaramente,
definirsi col pensiero, e nominarsi, sono le più elementari, certo è che la
filosofia qualunque, non potrà mai concepire nè significare idee più elementari
di queste. Utilissima per questo lato, è stata la stessa teologia, che ha
maggiormente diffuse e popolarizzate
tali parole, ed altre ne ha trovate, assuefacendo, ed affezionando, ed eccitando
lo spirito umano alle astrazioni, con tali stimoli,
1467 che nessun'altra disciplina avrebbe potuto altrettanto, nè verun'altra
circostanza come quella delle dispute teologiche, dove prendevano parte i
principi e le nazioni, e degli studi teologici che interessarono per sì lungo
tempo tutta la vita umana, e tutto lo stato del mondo civile. E quanto ho detto
altrove [pp. 641-43]
[pp. 1317-18] circa
l'utilità che si può cavare dal linguaggio scolastico de' filosofi ec. intendo
pur dirlo del teologico, d'ogni specie, dommatico, morale, scolastico, ec.
(7. Agos. 1821.).
[1468,1] La detta applicazione non credo che sia stata mai
fatta, almeno sufficientemente. Quando il Cartesio imprese la riforma della vecchia filosofia, dovette, secondo
la qualità di que' tempi (e pur troppo di tutti i tempi) entrare in guerra
aperta colle scuole d'allora: e il mondo avrebbe stimato ch'egli prevaricasse, o
desse indizio di povertà o fiacchezza, se avesse voluto servirsi più che tanto
del linguaggio de' suoi nemici. Così appoco appoco, prevalendo la nuova
dottrina, non più a causa della ragione, che della novità, e dismessa la vecchia
filosofia, nessuno ebbe cura bastante di cernere il buono dal cattivo, e
gittando questo, conservare o richiamar quello, massime circa il linguaggio. In
ordine alla teologia molto peggio. La teologia s'è abbandonata {+da chiunque ora influisce cogli studi
sullo spirito d'europa ec.} non per migliorarla
o rinnovarla, ma del tutto, come scienza vecchia, e
1469 quasi come l'alchimia. Ora quanto sia il numero degli scrittori e pensatori
teologici diversissimi di tempo, di paese, di lingua, di opinioni ancora e di
sistemi e di sette, e conseguentemente quanta debba esser la ricchezza del
linguaggio di questa scienza, linguaggio tutto astratto perchè la scienza è
tale, linguaggio che s'è tutto abbandonato e dimenticato insieme con lei,
facilmente si comprende. (8. Agos. 1821.).
[1477,2]
{+(Molte cose e da molti sono state dette
in proposito delle voci sinonime, altri negando che ve n'abbia
effettivamente, altri affermando; e questo e quello chi d'una chi
d'altra lingua, e chi di tutte in genere.).} Molto s'è
disputato circa i sinonimi. Ecco la mia opinione. Le lingue primitive piuttosto
dovevano significar molte cose con una sola parola, che aver molte parole ec. da
significare una stessa cosa. Formandosi appoco
1478
appoco le lingue, e modificandosi in mille guise le prime scarsissime radici,
per adattarle stabilmente e distintamente alle diverse significazioni, le lingue
vennero a crescere, le parole (non radicali, ma derivate o composte) a
moltiplicarsi infinitamente, si acquistò la facoltà di esprimere colla favella e
colla scrittura, sino alle menome differenze, varietà, specie, accidenti ec.
delle cose, ma i sinonimi (se non forse qualcuno per caso, o per commercio con
altre lingue) ancora non esistevano. Ciascuna parola che si formava modificando
le prime radici, o le altre parole già formate; ciascun genere costante di
modificazioni, derivazioni, inflessioni, composizioni, formazioni che
s'introduceva (come quello de' verbi frequentativi o diminutivi presso i latini
ec.) aveva per oggetto di arricchir la lingua ed accrescerne la potenza, non
colla meschina facoltà di poter dire una stessissima cosa in più modi, ma con
quella importantissima di poter distintamente significare le menome differenze
delle cose, differenze o già note fin da principio, ma non sapute esprimere,
ovvero osservate solamente col tempo: o anche idee nuove
1479 ec. Quindi nasceva una grandissima varietà nelle lingue, ben più
sostanziale di quella che deriva dall'uso dei sinonimi. Giacchè se per mezzo di
questo, noi possiamo ad ora ad ora, capitandoci la stessa cosa da dire, variare
il modo di esprimerla; agli antichi capitava assai di rado la stessa cosa, e
quindi la necessità della stessa parola, perchè ogni menoma differenza che la
cosa da esprimersi avesse con la cosa già detta, bastava per mutarne il segno, e
la lingua somministrava puntualmente {una diversa e
propria} espressione di quella benchè leggerissima differenza.
[1494,1] Qual lingua è più varia della latina? (se non forse
la greca). E quale è più propria? neppur forse la greca. E dalla proprietà
deriva naturalmente la varietà, come ho detto p. 1479. Ella era {strettamente} propria per legge, e non avrebbe scritto latino ma
barbaro, chi non avesse scritto con proprietà: laddove la greca potendo essere
altrettanto e più propria, era più libera, ed ho già osservato altrove p.
244 come ciascuno scrittor greco, abbia un vocabolarietto particolare,
cioè faccia uso continuo delle stesse voci, e si restringa ad una sola parte
della sua lingua, con che la proprietà non può esser perfetta. Ai latini
bisognava una perfetta cognizione ed uso della loro lingua, non solo in grosso
ma in particolare, e quindi il vocabolario che si può formare a ciascun {buono} scrittore latino è
1495
generalmente molto più ampio che a qualunque greco classico. E pur la lingua
greca era più ricca della latina. Ma la lingua di ciascun latino era più ricca
che di ciascuno scrittor greco. Eccetto gli scrittori greci più bassi, come Luciano, Longino ec. i quali sono ricchissimi, e tanto più
quanto il loro stile è meno antico, perchè i contemporanei, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo, sono più antichi di stile, e
meno ricchi di lingua. La stessa {immensa} ricchezza
della lingua greca impoveriva gli scrittori, finch'ella non fu studiata con
un'arte perfetta ch'è sempre propria de' tempi imperfetti e scaduti.
[1499,2] Dalla teoria che abbiamo dato dei sinonimi si
deducono alcune osservazioni intorno alla
1500
diramazione e diversità delle lingue nate da una stessa madre, massime da una
madre già formata, colta, ricca, letterata ec. Nata appoco appoco la sinonimia
nella lingua madre, e quindi diffusa questa in diverse parti, non tutti i
sinonimi passano a ciascuna lingua figlia, ma solamente alcuni a questa, altri a
quella. E questa è pur una delle cagioni della maggior ricchezza e proprietà
delle lingue antiche. Le lingue figlie di una madre già formata, per lo più sono
meno ricche di lei. Il tempo dopo aver soppresso le differenze de' significati
(sia prima della diffusione, e presso la nazione originariamente partecipe di
quella lingua, sia molto più dopo, e presso le nazioni che sempre corrottamente
la ricevono e sempre mancante e povera, per la ignoranza e la difficoltà
d'imparare una lingua nuova, e l'impossibilità di ricevere e praticar tutta
intera una {tal} lingua ricca ec. ec.), il tempo, dico,
sopprime quindi naturalmente una buona parte de' sinonimi, conservandone solo
uno o due per significato, che prevalendo appoco appoco nell'uso, fanno
dimenticar gli altri ec. Così le lingue perdono
1501
appoco appoco necessariamente di ricchezza e di proprietà, a causa della
sinonimia. Oltre che le lingue figlie, nascendo da corruzione, e dagli stessi
danni che il tempo reca alla sostanza materna, non la possono mai di gran lunga
ereditar tutta intera. {+E così il fondo
delle lingue si va sempre scemando se per altra parte non si accresce, e le
lingue che nascono sono sempre più povere di
quelle che le producono, almeno nei principii.}
[1513,1] I costumi delle nazioni cambiano bene spesso
d'indole, massime coll'influenza del commercio, de' gusti, delle usanze ec.
straniere. E siccome l'indole della favella è sempre il fedelissimo ritratto
dell'indole della nazione,
1514 e questa è determinata
principalmente dal costume, ch'è la seconda natura, e la forma della natura;
perciò mutata l'indole de' costumi, inevitabilmente si muta, non solo le parole
e modi particolari che servono ad esprimerli individualmente, ma l'indole, il
carattere, il genio della favella. Pur troppo è certissimo che l'indole de'
costumi italiani essendo affatto cambiata, massime dalla rivoluzione in poi, ed
essendo al tutto francese, è perduta quasi effettivamente la stessa indole della
lingua italiana. Si ha un bel dire. Una conversazione del gusto,
dell'atteggiamento, della maniera, della raffinatezza, {della
leggerezza, dell'eleganza} francese, non si può assolutamente fare in
lingua italiana. Dico italiana di carattere; e piuttosto la si potrebbe tenere
con parole purissime italiane, che conservando il carattere essenziale di questa
favella. Così dico dell'indole dello scrivere che oggi piace universalmente. È
troppo vero che non si può maneggiare in lingua italiana, e meno quanto
all'indole che quanto alle parole. È {{troppo}} vero che
l'influenza generale del
1515 costume francese in
europa, deve ed ha realmente mutata l'indole di tutte
le lingue colte, e le ha tutte francesizzate, ancor più nel carattere, che nelle
voci. E in tutta europa si travaglia a richiamar le
lingue e letterature alla loro proprietà nazionale. Ma invano. Nelle parole ch'è
il meno importante si potrà forse riuscire: ma nell'indole, ch'è il tutto, è
impossibile, se ciascheduna nazione non ripiglia il suo proprio costume e
carattere; e se noi italiani massimamente (che siamo più soggetti all'influenza,
e a pigliar l'impronta straniera, perchè non siamo nazione, e non possiamo più
dar forma altrui) non torniamo italiani. Il che dovremmo pur fare: e coloro che
ci gridano, parlate italiano, ci gridano in
somma siate italiani, che se tali non saremo,
parleremo sempre forestiero e barbaro. Ma non essendo nazione, e perdendo il
carattere nazionale, quali svantaggi derivino alla società tutta intera, l'ho
spiegato diffusamente altre volte pp. 865-66.
[1518,1] Da queste osservazioni si deduce che dopo che i
costumi greci furono radicati in Roma; dopo che i romani
andavano ad imparar le maniere del bel vivere in grecia,
come si va ora a Parigi; dopo che la moda, la bizzarria,
l'ozio derivato dalla monarchia, l'influenza della letteratura greca ec. ebbe
grecizzati i costumi e la conversazione di Roma; dopo che
le case de' nobili eran piene di filosofi, di medici, di precettori, di
domestici e uffiziali greci d'ogni sorta;
1519 dopo che
la letteratura Romana fu definitivamente modellata sulla greca, come la russa,
la svedese, la inglese del secolo d'Anna sulla francese; dopo tutto ciò la lingua romana
doveva necessariamente (quando anche non si sapesse di fatto) imbarbarire a
forza di grecismo, sì quanto ai particolari, sì quanto all'indole. E bisogna
attentamente osservare che il grecismo di que' tempi, non era già quello d'Erodoto o di Senofonte, e perciò la lingua e stile romano non fu
mai semplice nè inartifiziato; ma quello di Luciano, di Polibio ec.
cioè contorto, lavorato, elegante artifiziosamente, e similissimo all'andamento
del latino. (v. p.
1494-6. ) Il quale andamento molto si sbaglierebbe chi lo credesse
passato dal latino nel greco. Fu tutto l'opposto, e derivò dall'influenza del
greco di allora, il quale nè allora nè mai fu soggetto all'influenza del latino.
E se {+la lingua} e lo stile latino
classico fu sommamente più artifiziato per indole, che il greco classico, ciò si
deve attribuire all'indole della grecità contemporanea al classico latino.
(18. Agos. 1821.)
[1525,1] Degli stessi tre soli scrittori letterati del
trecento, un solo, cioè Dante, ebbe
intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si
fa manifesto sì dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma
come impresa di gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della
filosofia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e insomma
dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta nel
Volgare
Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato sempre considerato, e per
intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana.
1526 Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e
tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non
iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne
della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui
miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome
giudicavano (ancor dopo Dante, ed
espressamente contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petr.) che la lingua italiana fosse
indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non
vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai
farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento circa il poema eroico,
del quale pochi anni dopo la morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si
credeva in italia che la lingua italiana non fosse
capace: onde il Caro prese a tradurre
l'Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è
notissima l'opinione che portava il Petr. del suo canzoniere: ed egli lo scrisse
1527 in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento
delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li
cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura.
ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino,
e storie ec. (19. Agos. 1821.).
[1579,3] Per un esempio e in conferma di quanto ho detto
altrove p. 1420
pp.
1434. sgg.
pp. 1449-50
pp.
1456-57, che l'eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la
semplicità de' concetti e de' modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto
o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall'assuefazione e dall'opinione,
relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi
antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si
può addurre il Petrarca,
1580 e il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti
volgari, apprezzando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in
quella lingua illetterata e spregiata ch'egli maneggiava, in quello stile
ch'egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell'eleganza, di
quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi
sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura
e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè
elegante ec. ec. L'opinione, l'assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse
glielo impedivano. (28. Agos. 1821.).
[1581,3] La letteratura italiana fu per alcun tempo
universale in modo che per cagione di essa si studiava {e
sapeva} la nostra lingua nelle altre nazioni civili, anche dalle
donne, come oggi il
1582 francese. E nondimeno la
lingua italiana ha bensì lasciato alle altre parecchie voci spettanti alla
nomenclatura di quelle scienze o arti che l'italia ha
comunicato agli stranieri, ma poche o quasi nessuna appartenente alla
letteratura. Questo accade perchè la lingua italiana non è stata mai universale
se non a causa della letteratura, e in quanto letterata. Ed è una nuova prova
che la letteratura è debolissima fonte di universalità. Le altre lingue
letterate, state universali non per questa sola, ma per altre cagioni insieme,
hanno introdotto e introducono, hanno perpetuato ec. nelle altre lingue non
poche voci e modi spettanti alla letteratura. Forse anche il detto effetto
deriva dal poco tempo che durò l'influenza della letteratura italiana, dalla
poca coltura delle nazioni che la risentirono, dal poco stretto commercio delle
nazioni in que' tempi, dallo scarso numero de' letterati che v'avevano allora
tra' forestieri, e quindi di coloro che coltivarono la nostra lingua ec. sebbene
ho detto ch'ell'era coltivata anche dalle donne, e ciò fino al tempo di Luigi 14. I costumi sono la principal
1583 fonte della universalità di una lingua. La
letteratura può servire a introdurre i costumi e le opinioni ec. Senza ciò, la
lingua per mezzo suo poco si propaga. E piuttosto rimangono alle altre lingue
qualche voce spettante a qualche costume ec. ec. venuto di qua più o meno
anticamente, che alla nostra letteratura. (28. Agos. 1821.).
[1629,1] Ho detto [p. 933] che dilatandosi le nazioni, le lingue si
dividono. Ciò principalmente accade nel volgo, perchè il volgo di un luogo, poco
o nessun commercio conserva con quello di un altro, benchè nazionale. Le altre
classi ve lo conservano o immediato o mediato, per la civiltà che gli unisce, le
scritture ec. ec. 1. Quanto più una nazione è nazione, {+e per ispirito e per istato politico,}
{2.} quanto più il volgo è in commercio colle altre
classi della stessa popolazione, 3. colle altre popolazioni {nazionali,} 4. quanto più una nazione, ed in essa il volgo, è civile,
{+5. quanto più i costumi, i
caratteri ec. sono per conseguenza conformi, sì nel volgo che nelle altre
classi;} tanto i dialetti vernacoli sono minori di numero, e meno
distinti di forma, ec. Applicate queste osservazioni
all'Italia, alla Francia,
Inghilterra, Germania ec.
[1657,1] Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà.
L'intelletto non potrebbe niente senza la favella, perchè la parola è quasi il
corpo dell'idea la più astratta. Ella è infatti cosa materiale, e l'idea legata
e immedesimata nella parola, è quasi materializzata. La nostra memoria, tutte le
nostre facoltà mentali, non possono, non ritengono, non concepiscono esattamente
nulla, se non riducendo ogni cosa a materia, in qualunque modo, ed attaccandosi
sempre alla materia quanto è possibile; e legando l'ideale col sensibile; e
notandone i rapporti {più o meno lontani,} e servendosi
di questi
1658 alla meglio. (9. Sett.
1821.). {{V. p. 1689. capoverso
2.}}
[1679,1] L'italiano il francese lo spagnuolo i quali parlano
(massime l'italiano) poco differentemente da quello che parlavano i latini, non
perciò scrivono come i latini scrivevano. Vale a dire che delle due lingue
Romane distinte da Cicerone, la rustica
è sopravvissuta alla colta, l'una vive alterata, l'altra {è} morta del tutto. Tanta è la tenacità del popolo, tanta la
difficoltà di conservare e
1680 perpetuare quello a cui
la moltitudine non partecipa. Questo però per le mutazioni de' tempi per la
barbarie, per la dimenticanza del buono scrivere ec. quello, non solo si
conservò per la tenacissima natura del popolo, malgrado le tante vicende delle
nazioni, influenze e inondazioni di forestieri ec. ma s'introdusse anche, e
resta in luogo del latino scritto. E il ridurre a letteratura la lingua italiana
ec. fu in certo modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta
l'altra letteratura del latino colto. E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e
500. per ravvivare questa seconda, (e ciò tanto in italia
che altrove) ella s'è perduta, e l'altra s'è propagata, accresciuta, e vive.
(12. Sett. 1821.).
[1683,1] Perciò appunto che la lingua francese non ammette se
non il suo proprio (unico) stile, esso è ammissibile (non però senza guastarlo,
quando si faccia senza giudizio), o certo più universalmente facile ad essere
ammesso in tutte le lingue, che qualunque altro. Perch'ella è incapace di
traduzioni, ella è più facilmente di qualunque altra, traducibile in tutte le
lingue colte. Viceversa per le contrarie ragioni
1684
accade proporzionatamente alle altre lingue, e sopra tutte le moderne
all'italiana, perch'ella sovrasta a tutte nella moltiplicità degli stili, e
capacità di traduzioni. Le altre lingue contengono in certo modo lo stile
francese, come un genere, il qual genere nella lingua francese è tutto. Vero è
che in questo tal genere ella primeggia di gran lunga su tutte le antiche e
moderne. Sviluppate e dichiarate questo pensiero: ed osservate che infatti le
bellezze le più minute della lingua francese si ponno facilmente rendere; e
com'ella abbia corrotto facilmente quasi tutte le lingue
d'europa, ed insinuatavisi; laddove ella {(quale ora è ridotta)} non sarebbe stata certo
corrompibile {da niun'altra,} nemmeno in qualsivoglia
circostanza si possa immaginare. (12. Sett. 1821.).
[1701,1] Le idee concomitanti che ho detto pp. 109-111 esser destate dalle parole {anche} le più proprie, a differenza dei termini, sono 1. le infinite
idee {ricordanze ec.} annesse a dette parole, derivanti
dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro particolare natura,
ma legate all'assuefazione, e alle diversissime circostanze in cui quella parola
si è udita o usata. S'io nomino una pianta o un animale col nome Linneano, invece del
nome usuale, io non desto nessuna di queste idee, benchè dia chiaramente a
conoscer la cosa. Queste idee sono spessissimo legate alla parola (che nella
mente umana è inseparabile dalla cosa, è la sua immagine, il suo corpo, ancorchè
la cosa sia materiale, anzi è un tutto con lei, e si può dir che la lingua
riguardo alla mente di chi l'adopra, contenga non solo i segni delle cose, ma
quasi le cose stesse)
1702 sono dico legate alla parola
più che alla cosa, o legate a tutte due in modo che divisa la cosa dalla parola
(giacchè la parola non si può staccar dalla cosa), la cosa non produce più le
stesse idee. {+Divisa dalla parola, o
dalle parole usuali ec. essa divien quasi straniera alla nostra vita. Una
cosa espressa con un vocabolo tecnico non ha alcuna domestichezza con noi,
{+non ci destano[desta] alcuna delle infinite ricordanze della vita,
ec. ec.} nel modo che le cose ci riescono quasi nuove, {e nude} quando le vediamo espresse in una lingua
straniera e nuova per noi: nè si arriva a gustare perfettamente una tal
lingua, finchè non si penetra in tutte le minuzie e le piccole parti e idee
contenute nelle parole del senso il più semplice.} 2. Le idee
contenute nelle metafore. La massima parte di qualunque linguaggio umano è
composto di metafore, perchè le radici sono pochissime, e il linguaggio si
dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte
di queste metafore, perduto il primitivo senso, son divenute così proprie, che
la cosa ch'esprimono non può esprimersi, o meglio esprimersi diversamente.
Infinite ancora di queste metafore non ebbero mai altro senso che il presente,
eppur sono metafore, cioè con una piccola modificazione, si fece che una parola
significante una cosa, modificata così ne significasse un'altra di qualche
rapporto colla prima. Questo è il principal modo in cui son cresciute tutte le
lingue. Ora sin tanto che l'etimologie di queste originariamente metafore, ma
oggi, o anche da principio, parole effettivamente proprie, si ravvisano e
sentono, il
1703 accade almeno nella maggior parte
delle parole proprie di una lingua,
l'idea ch'elle destano, è quasi doppia, benchè la parola sia proprissima, e di
più esse producono nella mente, non la sola concezione ma l'immagine della cosa,
ancorchè la più astratta, essendo anche queste in qualsivoglia lingua, sempre in
ultima analisi espresse con metafore prese dal materiale e sensibile (più o men
vivo, ed esprimente e adattato, secondo i caratteri delle lingue e delle nazioni
ec.). Per esempio il nostro costringere che significa
sforzare, serba ancora ben chiara la sua
etimologia, e quindi l'immagine materiale da cui questa che in origine è
metafora, derivò. ec. ec. Il complesso di tali immagini nella scrittura o nel
parlare, massime nella poesia, dove più si attende all'intero valore di ciascuna
parola, e con maggior disposizione a concepire {e
notare} le immagini ch'elle contengono, ec. questo complesso, dico,
forma la bellezza di una lingua, e la differente forza ec. sì delle lingue
rispettivamente a loro, sì dei diversi stili ec. in una stessa lingua. Ma se p.
e. la cosa espressa da costringere, l'esprimessimo
1704 con una parola presa da lingua straniera, e la cui
origine ed etimologia non si sapesse generalmente, o certo non si sentisse,
ella, quando fosse ben intesa, desterebbe bensì l'idea della cosa, ma nessuna
immagine, neppur {quasi} della stessa cosa, benchè
materiale. Così accade in tutte le parole derivate dal greco, delle quali
abbondano le nostre lingue, e massime le nostre nomenclature. Esse, quando siano
usuali, e quotidiane, come filosofo ec.
possono appartenere alla classe che ho notate[notata] nel primo luogo, ma non mai a questa seconda. Esse e le altre
simili prese da qualsivoglia lingua, e non proprie della nostra rispettiva, saranno sempre, come altrove ho detto
pp.
109-111
pp. 951-52, parole tecniche, e di significato nudo ec. Similmente le
parole moderne, che o si derivano da parole già stanziate nella nostra lingua,
ma d'etimologia pellegrina, o si derivano da parole anche proprie della lingua;
essendo per lo più, stante la natura del tempo, assai più lontane dal materiale
e sensibile che non sono le antiche, e di un carattere più spirituale, sono
quindi ordinariamente termini e non parole, non destando verun'
1705 immagine concomitante, nè avendo nulla di vivo.
ec. Tali sono i termini de' quali altrove ho detto pp. 109-110
p. 1226,1 che abbonda la lingua francese, massime la moderna, e ciò
non solo per natura del tempo, ma anche per la natura di essa lingua, e del suo
carattere e forma.
[1705,1] Certo e notabilissimo si è che tutte le parole di
qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci
destano sempre una folla d'idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle
impressioni che accompagnavano quelle parole in quella età, e dalla fecondità
dell'immaginazione fanciullesca; i cui effetti, e le cui concezioni si legano a
dette parole in modo che durano più o meno vive e numerose, ma per tutta la
vita. Quindi è certo che le dette idee concomitanti intorno ad una stessa
parola, ed alle menome parti del suo stesso significato, variano secondo
gl'individui: e quindi non c'è forse un uomo a cui una parola medesima (dico fra
le sopraddette) produca una concezione precisamente
1706 identica a quella di un altro: come non c'è nazione le cui parole esprimenti
il più identico oggetto, non abbiano qualche menoma diversità di significato da
quelle delle altre nazioni. Il detto effetto delle prime concezioni
fanciullesche intorno alle parole a cui sono abituati i fanciulli, si stende
anche ai diversi e nuovi usi delle stesse parole, che ne fanno gli scrittori o i
poeti, alle parole analoghe in qualsivoglia modo (o per derivazione, o per
semplice somiglianza {ec.}) a quelle a cui da fanciulli
ci abituammo, ec. ec. e quindi influisce su quasi tutta la propria lingua, anche la più ricca, e la meno capace di
esser ben conosciuta da' fanciulli. (15. Sett. 1821.).
[1728,2]
Il me semble que nous
avons tous besoin les uns des autres; la littérature de chaque pays
découvre, à qui sait la connaître, une nouvelle sphère d'idées. C'est
Charles-Quint lui-même qui
a dit qu'un homme qui sait quatre langues vaut
quatre hommes. Si ce grand génie politique en jugeait ainsi
pour les affaires, combien cela n'est-il pas plus vrai pour les lettres?
Les étrangers savent tous le français, ainsi leur point de vue est plus
étendu que celui des Français qui ne savent pas les langues étrangères.
Pourquoi
1729 ne se donnent-ils pas plus
souvent la peine de les apprendre? Ils conserveraient ce qui les
distingue, et découvriraient ainsi quelquefois ce qui peut leur
manquer.
*
Corinne liv. 7. ch. 1. dernieres
lignes.
(18. Sett. 1821.).
[1754,1] Una persona niente avvezza alla buona lingua
italiana, chiama e giudica affettato tutto ciò che ha qualche sapore d'italiano,
ancorchè disinvoltissimamente scritto, e lontanissimo dall'anticato. E gli
antichi scrittori italiani, se non può chiamarli affettati, li giudica però
stranissimi, e di pessimo gusto in fatto di lingua; e così forse accade a tutti
noi italiani moderni, finchè non ci avvezziamo a quella lingua, e appoco appoco
la troviamo meno strana,
1755 e finalmente bellissima.
Qual è dunque il tipo dell'affettato e inaffettato, e del buon gusto in
letteratura ec. ec.? La sola assuefazione ch'è tanto varia quanto gl'individui,
e mutabile in ciascun individuo. (21. Sett. 1821.).
[1755,1] Ho detto altrove pp. 1301-302 che
quasi ciascun individuo ha una lingua propria. Aggiungo che queste lingue
individuali non solo si distinguono in certe parole o frasi abituali affatto
proprie di questo o quel parlatore, ma anche nell'uso abituale di certe voci o
frasi fra le molte o vere o false sinonime che ha una lingua (massime se ricca,
come l'italiana) per esprimere una stessa cosa. La quale ogni volta che capita,
eccoti il tal parlatore con quella tal parola o frase, e quell'altro con
quell'altra diversissima, ciascuno secondo il suo costume. Così che il
vocabolario di ciascun parlatore, è distinto dagli altri, come ho detto pp. 244-45
pp. 766-67 di quello degli scrittori greci e italiani individuali.
Questi vocabolari composti
1756 sì di queste voci o
frasi scelte invariabilmente fra le sinonime, sì di quelle che ho detto essere
assolutamente proprie di questo o quell'individuo, si perpetuano nelle famiglie,
perchè il figlio impara a parlare dal padre e dalla madre, e come ne imita i
costumi e le maniere, molto più la lingua. Il qual effetto massimamente ha luogo
nelle famiglie degli artigiani, de' poveri, ec. e molto più in quelle di
campagna, come più separate dalla società non domestica. Ha luogo pur
grandemente nelle famiglie delle classi elevate, che si tengono in un piede
assai casalino, o dove i figli si educano in casa, dove poco si studia e si
legge, e quindi poco s'ingrandisce la lingua abituale (la quale anche è poco
soggetta all'influenza dello studio), dove poco si tratta ec. E se bene
osserverete troverete sempre in queste tali famiglie un vocabolarietto proprio,
composto ne' modi che ho detto. E potrete anche osservare in molte di queste,
1757 parecchie parole antichissime, e uscite
dell'uso corrente, ma conservate e trasmesse di generazione in generazione in
dette famiglie. Cosa che a me è successo più volte di osservare, e quelle parole
o frasi non le ho mai sentite fuori o di quella {tal}
famiglia, o di quella tal parentela. Negli altri generi di famiglie il detto
effetto sarà minore, ma pur sempre avrà luogo proporzionatamente. Così le lingue
si van dividendo appoco {appoco} nel seno di una stessa
società, di uno stesso paese; il costume del padre si comunica al figlio, e si
perpetua; il figlio pure inventa qualche parola ec. ec. e parimente la
partecipa; le figlie le portano nelle famiglie in cui entrano; e la lingua umana
si va tuttogiorno diversificando e cangiando faccia; e ciascuna famiglia viene a
differire alquanto dalle altre nella significazione de' suoi pensieri. (o
parlata o anche scritta). (21. Sett. 1821.).
[1768,1] Ho lodato l'italia appetto
alla Francia
pp.
343-45
pp. 1243-44 perchè non ha rinunziato alla sua lingua antica, ed ha
voluto ch'ella fosse composta di cinque secoli, in vece di un solo. Ma la
biasimerei sommamente se per conservare l'antica intendesse di rinunziare alla
moderna, mentre se l'antica è utile, questa è necessaria; e molto più se in
luogo di compor la sua lingua di 5 secoli, la componesse come i francesi di un
solo, ma non di quello che parla (il che alla fine è comportabile), bensì di
quello che
1769 parlò quattro secoli fa: ovvero anche
se la volesse comporre de' soli secoli passati, escludendo questo, il quale
finalmente è l'unico che per essenza delle cose non si possa escludere. Certo è
lodevole che non si sradichi la pianta, conservando i germogli, e
trapiantandoli, ma perchè s'ha da conservare il solo tronco spogliandolo de'
germogli, delle foglie, de' rami; anzi la sola radice tagliando il tronco, e
guardando bene che non torni a crescere, e che le radici se ne stieno senza
produr nulla? E sarebbe ben ridicolo che conservando sulla nostra favella
l'autorità agli antichi che più non parlano, la si volesse levare a noi che
parliamo: e sarebbe questa la prima volta che le cose de' vivi fossero proprietà
intera de' morti. {+Sarebbe veramente
assurdo che mentre una parola {o frase} superflua
nuovamente trovata in uno scrittore antico, si può sempre
incontrastabilmente usare quanto alla purità, una parola o frase utile o
necessaria, e che del resto abbia tutti i numeri, nuovamente introdotta da
un moderno, non si possa usare senza impurità.} Anzi quanto più la
nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per
necessaria conseguenza, dev'essere industriosa nel guadagnare, per non
somigliarsi al pazzo avaro che {+per amor
del danaio} non mette a frutto il danajo, ma
1770 si contenta di non perderlo, e guardarlo senza pericoli.
(22. Sett. 1821.).
[1796,1] Sul proposito che una lingua nuova non s'impara se
non per mezzo della propria, osservate che noi siamo soliti a misurare la
regolarità o irregolarità di una lingua, tanto in genere, quanto in ordine a
ciascuna costruzione, frase ec. dalla conformità ch'essa lingua ha colla lingua
nostra e sue frasi ec. Onde ci sembra regolare, non ciò che lo è per natura, e
ragione analitica, ma ciò che corrisponde esattamente alla maniera della nostra
lingua,
1797 ed a quell'ordine di espressioni e d'idee
e di segni, al quale siamo abituati. E così proporzionatamente fino
all'irregolarità, la quale benchè sia regolarissima, ci pare generalmente
irregolare quando discorda dall'ordine abituale della nostra loquela. Applicate
queste osservazioni 1. al proposito dei francesi incapaci di ben conoscere
un'altra lingua, e giudicarla; e degl'italiani, capacissimi, perchè la loro
lingua si presta quanto è possibile fra le moderne, ad ogni maniera di
favellare, 2. alla debolezza e moltiplicità della ragione umana, alla mancanza
di tipo {universale} per lei, all'influenza che su di
essa esercita l'assuefazione.
[1800,1]
1800 La lingua tedesca si è veramente formata più
recentemente che la francese. Ma perch'ella non è stata formata da nessun
Accademia e da nessun Dizionario, perch'ella non ha quindi perduta la libertà
che è primitivamente propria di tutte le lingue, perciò ella acquistando il
moderno (come ha fatto il francese, e potrebbe far l'italiano), non ha perduto
l'antico (come ha fatto il francese); è divenuta propria alla filosofia, ed è
restata propria all'immaginazione; non si è impoverita nè intimidita {+nè fatta monotona,} (come la
francese, e la barbara italiana de' nostri tempi); e includendo nelle sue
facoltà il secolo presente non ha escluso i passati come la francese, nè
includendo i passati ha escluso il presente, come l'italiana. Grand'esempio per
noi, e conferma della possibilità di ciò ch'io propongo. (28. Sett.
1821.).
[1806,3] Una parola {o frase}
difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare.
Intendo che difficilmente le converrà l'attributo di elegante, non già ch'ella
debba perciò essere inelegante, e che una
1807
scrittura elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo.
Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote
dall'uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e
peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e
convenienza loro colle parole e frasi moderne.
[1822,1] Quanto una lingua è più ricca e vasta, tanto ha
bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto
più le conviene largheggiare in parole per comporre un'espressione perfetta. Non
si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si
dà brevità di espressione senza proprietà. Quindi la lingua francese che certo
non può gloriarsi di vastità (altrimenti non sarebbe universale), si gloria
indarno di brevità; quasi che la brevità de' periodi fosse lo stesso che la
brevità dell'espressione, o che slegatura e
1823 e
brevità fossero una cosa. V. il Sallustio di Dureau Delamalle. t. 1. p. CXIV. (1.
Ott. 1821.).
[1843,1] Tutta l'europa e tutte le
colte lingue hanno riconosciuto la lingua greca per fonte comune alla quale
attingere le parole necessarie per significare esattamente le nuove cose, per
istabilire, formare,
1844 ed uniformare le nuove
nomenclature d'ogni genere, o perfezionarle e completarle ec. Sola
l'italia ricusa di conformarsi a questo costume; dico
l'italia che non si sa in che consista, perchè i suoi
figli vi si uniformano come gli altri; ma ciò ch'essi fanno in questo
particolare, non si vuol riconoscere dall'universalità della nazione (o da'
pedanti) come bene e convenientemente fatto in punto di lingua, {+all'opposto di ciò che accade nelle altre
nazioni.} Convengo che quando in luogo di una parola greca ch'è sempre
straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o nuova o nuovamente
applicata, che perfettamente esprima la nuova cosa, questa si debba preferire a
quella; (purchè la greca o altra qualunque non sia universalmente prevalsa in
modo che sia immedesimata coll'idea, e non si possa toglier quella senza
distruggere o confondere o alterar questa; giacchè in tal caso una diversa
parola, per nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa ch'ella fosse, non
esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso ec. e
fratanto[frattanto] non saremmo intesi.) Ma
fuori di
1845 questo caso che di rarissimo si verifica,
perchè l'italia sola vorrà rinunziare primo al costume
generale di questo e d'altri secoli e dell'europa, che
avrebbe diritto di farsi adottare quando anche non fosse necessario nè buono;
secondo al benefizio universale di quella maravigliosa lingua, che benchè morta
da tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a denominare e
significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto ciò che nasce o si scuopre o
nuovamente si osserva nel mondo? (5. Ott. 1821.).
[1845,1] Moltissime parole si trovano, comuni a più lingue, o
perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate con lei, o perchè venute da
origine comune, le quali parole in una lingua sono eleganti, in
un[un'] altra no; in una affatto nobili anzi
sublimi, in un'altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è
la differenza dell'uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo facilmente
osservare
1846 nella lingua spagnuola, la più affine
alla nostra che esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza non si
trova forse fra due altre lingue colte; non poche parole e frasi {+o significazioni, o metafore ec.}
proprie della sola poesia, che nella nostra son proprie della sola prosa, e
viceversa: parte derivate dalla comune madre di ambe le lingue, parte dalla
italiana alla spagnuola, parte viceversa. Così pure possiamo osservar noi, e
possono pur gli spagnuoli, non poche altre notabilissime differenze di nobiltà
di eleganza di gusto ec. in parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella
medesima significazione. Similmente discorrete dell'inglese e del tedesco, del
francese rispetto alle tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due
sue sorelle ec. del greco ancora rispetto al latino ec. (5. Ott.
1821.).
[1862,1] Ho detto pp. 1350. sgg.
p. 1609 che i greci furono i più filosofi e profondi tra gli antichi,
perchè la loro lingua si presentava mirabilmente (sì come si presta ancora forse
meglio di ogni altra) alla filosofia ed alla precisione, come ad ogni altra cosa
e qualità. Bisogna osservare che questo pregio non l'ebbe ella dalla filosofia,
così che questo si debba attribuire alla filosofia de' greci, piuttosto che
questa al detto pregio. Poichè la lingua greca fu formata, e resa onnipotente
assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora che si fosse
intrapresa l'analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle quali cose i
greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua loro. Ma la
lingua greca era tal quale noi la vediamo, e l'ammiriamo, assai prima della
gramatica, inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne' tempi in cui la loro
lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse anche in forza delle
regole ritrovate o osservate) il suo nativo
1863 colore
ec. Anzi la lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole, dopo le
circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de' gramatici, divenne forse meno atta
alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perchè meno libera, e meno capace
(secondo il parere e il desiderio de' pedanti) di novità. Altrettanto nè più nè
meno si può dire della lingua italiana. La libertà è la prima condizione di una
lingua sì filosofica, che qualunque. I francesi l'hanno quanto alle parole. Ma
ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua libertà e fecondità. Allora ella varia
quanto alle forme che riceve, secondo che alla sua formazione presiede la
ragione o la natura ec. Primitivamente l'indole di tutte le lingue è appresso a
poco la stessa, almeno dentro una stessa categoria di climi e caratteri
nazionali. (7. Ott. 1821.).
[1887,1] Ho detto pp. 343-45
pp. 1243-44
p. 1768
p. 1807 che la lingua italiana non ha mai rinunziato alle sue
ricchezze antiche. Ecco come ciò si deve intendere. Tutte le nazioni, tutte le
lingue del mondo antiche e moderne, formate ed informi, letterate e illetterate,
civili e barbare, hanno sempre di mano {in mano}
rinunziato, e di mano in mano incessantemente rinunziano alle parole e frasi
antiche, come, e perciò, {ed in proporzione} che
rinunziano ai costumi antichi, opinioni ec. Quelle ricchezze alle quali io dico
che la lingua italiana non ha mai rinunziato, sono le ricchezze sue {più o meno} disusate, che sono infinite e bellissime, e
ponno esserle ancora d'infinito uso; ma non propriamente le voci e locuzioni
antiche, cioè quelle che oggi o non si ponno facilmente e comunemente intendere,
o comunque intese non ponno aver faccia di naturali, e spontanee, e non pescate
nelle Biblioteche de' classici. A queste l'italia come
tutte le altre nazioni nè più nè meno, intende di avere rinunziato; e i soli
pedanti
1888 lo negano, o non riconoscono per buona
questa rinunzia, e le protestano contro, e non vi si conformano, nè
l'ammettono.
[1900,1] Insomma la lingua italiana è facilmente
corruttibile, perchè può far moltissimo; laddove p. e. la lingua francese,
pochissimo. Ora il poco s'impara più facilmente del molto. (10-12. Ott.
1821.).
[1916,1] Molte parole che in una lingua sono triviali e
volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono
ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e
nobilissime ec. trasportandole in un'altra lingua, a causa del pellegrino.
Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell'italiano, voci o
frasi latine. Sarebbe ben poco accorto chi trovandole volgari e dozzinali in
latino, le credesse per ciò tali in italiano. Se in latino sono comuni e plebee,
in italiano possono essere del tutto divise dal volgo e nobilissime.
Elegantemente il Petrarca nel Proemio:
1917
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
[1917,2] Moltissime volte o l'eleganza o la nobiltà (quanto
alla lingua) deriva
1918 dall'uso metaforico delle
parole o frasi, quando anche, come spessissimo e necessariamente accade, il
metaforico appena o punto si ravvisi. Moltissime volte per lo contrario deriva
dalla proprietà delle stesse parole o frasi, quando elle non sono usitate nel
senso proprio, o quando non sono comunemente usitate in nessun modo, o essendo
usitate nella prosa non lo sono nella poesia, o viceversa, o in un genere di
scrittura sì, in altra no, ec. (La precisione sola non può mai produrre nè
eleganza nè nobiltà, nè altro che precisione e angolosità di stile.). {{V. p. 1925. fine.}}
[1926,1] La lingua italiana è certo più atta alle traduzioni
che non sarebbe stata la sua madre latina. Fra le lingue ch'io conosco non v'è
che la greca alla quale io non ardisca di anteporre la nostra in questo
particolare, nel quale però poca esperienza fecero i greci della lor lingua.
(16. Ott. 1821.).
[1936,1] Tutto può degenerare e degenera, fuorchè le parole e
le lingue astrattamente considerate. Quella parola mutata di significazione e di
forma in modo che appena o non più si ravvisi la sua origine e la sua qualità
primitiva, non è men buona (in tutta l'estensione del termine) di quella ch'era
nel suo primissimo nascere. Così una lingua. Non v'è dunque propriamente nè
degenerazione nè corruzione per le parole o per le lingue. E ciò che s'intende
per corruzione di esse non è altro che allontanamento dal loro stato e forma
primitiva, o da quello che presero quando furono
1937
stabilite e formate. Altrimenti le lingue {e le voci}
non si corromperebbero mai. Purità di lingua non può dunque essere, e non è
altro che uniformità colla sua indole primitiva. (17. Ott. 1821.).
{{v. p. 1984.}}
[1937,1] Quando si comincia a gustare una nuova lingua, le
cose che più ci piacciono e ci rendono sapor di eleganza, sono quelle proprietà,
quelle facoltà, modi, forme, metafore, usi di parole o di locuzioni, che si
allontanano dal costume e dalla natura della nostra lingua, senza però esserle
contrarie, e senza discostarsene di troppo. {(Così anche nel pronunziare o nel
sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei
suoni che non sono propri della nostra, o del nostro costume, nel qual
proposito v. la p. 1965.
fine.} (Ecco appunto la natura della grazia: lo
straordinario fino a un certo segno, e in modo ch'egli faccia colpo senza choquer le nostre assuefazioni ec.) {+Questo ci accade nel leggere, nel parlare
nello scrivere quella tal lingua. (In tutti tre i casi però può aver luogo
un'altra sorgente di piacere, cioè l'ambizione o la compiacenza di sapere
intendere o adoperare quelle tali frasi, di parer forestiere a se stesso, di
aver fatto progressi, vinto le difficoltà ec.)} E ciò accade quando
anche in quella lingua o in quel caso, quelle tali forme non sieno per verità
eleganti. E dove noi vediamo una decisa e per noi eccessiva conformità colla
nostra lingua, quivi noi proviamo un senso
1938 di
trivialità ed iẽleganza[ineleganza], quando
anche ella sia tutto l'opposto: come alla prima giunta ci accade
nell'elegantissimo Celso, il quale ha
molti modi ed si similissimi all'indole italiana: e così spesso ci accade negli
scrittori latini antichi, o moderni massimamente (perchè questi non hanno in
favor loro la prevenzione, e la certezza che dicono bene.) (17. Ott.
1821.). {{V. p.
1965.}}
[1946,1] Ho detto pp. 244-45
p.
321
pp. 685-86
p. 766
pp.
1313-15 che la lingua italiana è suscettibile di tutti gli stili, e ho
detto pp. 1513-15 che la conversazione francese non si può mantenere in
italiano. Questa non è contraddizione. L'indole della nostra lingua è capace di
leggerezza, spirito, brio, rapidità ec. come di gravità ec. è capace di
esprimere tutte le nuances della vita sociale, ec. ma non è capace, come nessuna
lingua lo fu, di
1947 un'indole forestiera. Così
riguardo alle traduzioni. Ell'è capace di tutti i più disparati stili, ma
conservando la sua indole, non già mutandola; altrimenti la nostra lingua
converrebbe che mancasse d'indole propria, il che non sarebbe pregio ma difetto
sommo. L'originalità della nostra lingua (ch'è marcatissima) non deve soffrire,
applicandola a qualsivoglia stile o materia. Questo {appunto} è ciò di cui ella è capace, e non di perderla ed alterare il
suo carattere per prenderne un altro forestiero, del che non fu e non è capace
nessuna lingua senza corrompersi. E il pregio della lingua italiana consiste in
ciò che la sua indole, senza perdersi, si può adattare a ogni sorta di stili. Il
qual pregio non ha il tedesco, che ha la stessa adattabilità e forse maggiore,
non però conservando il suo proprio carattere. Or questo è ciò che potrebbero
fare tutte le lingue le più restie, perchè rinunziando alla propria indole, e in
somma corrompendosi, facilmente possono adattarsi a questo o quello stile
forestiero.
1948
L'art de traduire est
poussé plus loin en allemand que dans aucun autre dialecte européen.
Voss a
transporté dans sa langue les poëtes grecs et latins avec une étonnante
exactitude; et W. Schlegel les
poëtes anglais, italiens et espagnols, avec une vérité de coloris dont
il n'y avoit point d'exemple avant lui. Lorsque l'allemand se prête à la
traduction de l'anglais, il ne perd pas son caractère naturel, puisque
ces langues sont toutes deux d'origine germanique; mais quelque mérite
qu'il y ait dans la traduction d'Homère par Voss, elle fait de l'Iliade et
de l'Odyssée, des poëmes dont le style est grec, bien que
les mots soient allemands. La connoissance de l'antiquité y gagne;
l'originalité propre à l'idiome de chaque nation y perd nécessairement.
Il semble que c'est une contradiction d'accuser la langue allemande tout
à la fois de trop de flexibilité et de trop de rudesse; mais ce qui
1949 se concilie dans les caractères peut aussi
se concilier dans les langues; et souvent dans la même personne les
inconveniens de la rudesse n'empêchent pas ceux de la
flexibilité.
*
Mme la Baronne de Staël -
Holstein, De l'Allemagne t. 1. 2.de
part. ch. 9. p. 248. 3.me édit. Paris 1815.
[1962,1]
Un des grands avantages
des dialectes germaniques en
poésie, c'est la variété et la beauté de leurs épithètes. L'allemand
sous ce rapport aussi, peut se comparer au grec; l'on sent dans un seul
1963
mot plusieurs images, comme, dans la note fondamentale d'un
accord, on entend les autres sons dont il est composé, ou comme de
certains couleurs réveillent en nous la sensations de celles qui en
dépendent. L'on ne dit en français
que ce qu'on veut dire, et l'on ne voit point errer autour des
paroles ces nuages à mille formes, qui entourent la poésie des langues
du nord, et réveillent une foule de souvenirs. A la liberté de former une seule épithète de deux
ou trois, se joint celle d'animer le langage en faisant avec
les verbes des noms:
*
(proprietà egualmente del greco, dell'italiano, e dello spagnuolo) le vivre, le vouloir, le sentir, sont des expressions
moins abstraites que la vie, la volonté, le sentiment; et tout ce qui
tend à changer la pensée en action donne toujour plus de mouvement au
style. La facilité de renverser à son gré la construction
1964 de la phrase
*
(ho detto altrove
pp. 109-11
pp.
950-52
pp. 1226-28 che come le parole, così le frasi e costruzioni ec.
possono esser termini, e che quella
lingua che più abbonda di termini,
{in pregiudizio delle parole,} suole per
analogia esser matematica nella frase ec., e che la francese è tutta un gran
termine) est aussi très-favorable à la poésie, et permet d'exciter, par les
moyens variés de la versification, des impressions analogues à celles de la peinture et de la
musique
*
. (impressioni vaghe.) Enfin l'esprit général des dialectes teutoniques, c'est l'indépendance:
les écrivains cherchent avant tout à
transmettre ce qu'il sentent; ils diroient volontiers à la
poésie comme Héloïse à son amant: S'il
y a un mot plus vrai, plus tendre, plus profond encore pour exprimer
ce que j'éprouve, c'est celui-là que je veux choisir. Le
souvenir des convenances de société poursuit en
France le talent
*
1965
jusques dans ses émotions les plus intimes; et la
crainte du ridicule est l'épée de Damoclès, qu'aucune fête
de l'imagination ne peut faire oublier.
*
De l'Allemagne, tome 1. 2.de part. ch. 9.
vers la fin.
(21. Ott. 1821.).
[1969,1] La lingua ebraica non è solamente povera riguardo a
noi, per la scarsezza di scritture che abbiamo in quella lingua, ma è povera
quanto a se stessa, povera nelle stesse scritture che abbiamo, e in proporzione
della stessa loro scarsezza, nella qual proporzione potrebb'essere assai più
ricca, anzi potrebb'essere in quella proporzione tanto ricca quanto le più
ricche del mondo. Male pertanto si riferisce la sua povertà alla detta cagione,
facendone una povertà relativa a noi soli. Le vere cagioni le dico altrove p.
806
pp. 1289-91
{+Bensì è vero che l'essere stata poco
scritta ne' suoi buoni tempi, n'è la principale, ma non relativa,
cagione.}
(23.[22.] Ott. 1821.).
[1970,1]
1970 La minuziosità della punteggiatura usata da'
francesi, corrisponde, ed è analoga, conseguente e conveniente all'indole delle
loro parole, costruzioni ec. e di tutta la loro lingua, e scrittura. (22.
Ott. 1821.).
[1973,1] Io credo possibile il tradurre le opere moderne o
filosofiche o di qualunque argomento, in buon greco (massime le italiane o
spagnuole o simili), come son certo che non si potrebbero mai tradurre in buon
latino. Se le circostanze avessero portato che la lingua greca avesse nei nostri
paesi prevaluto alla latina, e che quella in luogo di questa avesse servito ai
dotti nel risorgimento degli studi, l'uso di una lingua morta, avrebbe forse
potuto durare più lungo tempo, o almeno esser più felice (nè solo negli studi,
ma in tutti gli altri usi in cui s'adoprò la lingua latina fino alla sufficiente
formazione delle moderne europee); i nostri eleganti scrittori latini del 500.
ec. avrebbero potuto esser quasi moderni, se avessero scritto in greco, laddove
scrivendo in latino si assicurarono di non poter esser lodati se non dagli
antichi, e di servire ai passati
1974 in luogo de'
posteri, e di potersi piuttosto ricordare che sperare; e se la lingua che oggi
si studia tuttavia da' fanciulli, e quella che molti, massime in
italia, si ostinano a voler ancora adoperare in
questa o quella occasione, fosse piuttosto la greca che la latina, essa
servirebbe molto più alla vita moderna, faciliterebbe molto più il pensiero, e l'immaginazione ec. e sarebbe
alquanto più possibile il farne un qualche uso pratico ec. (23. Ott.
1821.). {{V. p.
2007.}}
[1975,1] Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a
pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore
corporale, di entusiasmo, {+di
disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di
quasi ubbriachezza, e furore,} ec. scopre delle verità che molti
secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che
annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo
spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e
comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto
tutta la strada che ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua
marcia, e il suo progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello
stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente,
ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento
1976 tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e
così chiaramente concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse
esso stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea concepite
e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con egual chiarezza, i
rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro concatenazioni che l'avevano
portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e
le verità scoperte nel calore, per grandi che siano non mettono radici nella
mente umana, finchè non sono sanzionate dal placido progresso della fredda
ragione, arrivata che sia dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità
scoprivano certamente gli antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti
facevano nel cammino della ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti
mezzi che abbisognano al puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi
altrettanto, grandi spazi occupati poi da' loro posteri, preoccupavano essi e
1977 conquistavano in un baleno, ma questi
progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo abbisognava
a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi erano piuttosto
viaggi che conquiste, perchè l'individuo penetrava solamente in quei nuovi
paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse
il suo dominio; i progressi de' grandi individui non giovavano gli uni agli
altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel mondo, che li
rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a
stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente chiaro quello che
ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi spiriti penetravano
nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro,
e quando anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo
1978 punto, e quivi casualmente si riunissero, non si
riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola altrui, non
s'accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n'avvedeva, perchè non le
dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre
che le stesse ragioni che impedivano all'universale di riconoscere quelle
proposizioni per pienamente vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità
che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo.
E così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non producevano
frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e di aiutare e
legare una verità coll'altra mediante il commercio de' pensieri, e della società
pensante. (23. Ott. 1821.).
[1985,1] La lingua francese è propriamente, sotto ogni
rapporto, per ogni verso, la lingua della mediocrità. {+Ella non è nè sarà mai la lingua della grandezza in
nessun genere, nè della originalità. (Qual è la lingua tali sono sempre i
sentimenti, e gli scrittori.)} E non per altra cagione, ella è oggi
universale; non per altra si adatta all'intelligenza, ed all'uso pratico de'
forestieri d'ogni genere; non per altra si adatta così bene all'uso de' meno
colti nazionali, ed è ben parlata e scritta da quasi tutti i francesi; non per
altra l'andamento, il tour di essa lingua è preferito
dalla gente comune, in tutte le lingue d'europa, a quello
della propria lingua; non per altra una donna, un cavaliere italiano
mezzanamente colto, che s'imbarazza e cade in dieci spropositi, non dico contro
la purità, ma contro la gramatica, se nello scrivere o nel parlare s'impegna in
un periodo all'italiana, riesce facilmente e scampa da ogni pericolo, usando il
periodo francese. ec. ec. Vero
1986 periodo, andamento,
genio, indole, spirito della mediocrità. Ed a che altra categoria che alla
mediocrità poteva appartenere la lingua della ragione e della società? Nè la
lingua francese sarebbe divenuta universale, e sarebbe stata così celebrata ed
esaltata sopra tutte, se non nel secolo della mediocrità cioè della ragione,
qual è il nostro; nè un tal secolo potrebbe preferire alcuna lingua alla
francese, o alcun genio ed indole di favella a quello della francese, anche
nelle proprie rispettive lingue.
[1993,2] La lingua francese ricevette una certa forma, e
venne in onore prima dell'italiana, e forse anche della spagnuola, mercè de'
poeti provenzali che la scrivevano ec. Onde sulla fine stessa del ducento, e
principio di quel trecento che innalzò la lingua italiana su tutte le vive
d'allora, si stimava in italia
la
parlatura francesca
*
esser la più dilettevole e comuna di tutti gli altri
linguaggi parlati
*
;
1994
si scriveva in quella piuttosto che nella nostra, stimandola più bella e
migliore
*
ec. v. Perticari, del 300. p.
14-15. Ma la buona fortuna dell'italia volle
che nel 300, cioè prima {assai} che in nessun'altra
nazione, sorgessero in essa tre grandi scrittori, giudicati grandi anche poscia,
indipendentemente dall'età in cui vissero, i quali applicarono la nostra lingua
alla letteratura, togliendola dalle bocche della plebe, le diedero stabilità,
regole, andamento, indole, tutte le modificazioni necessarie per farne una
lingua non del tutto formata, ch'era impossibile a tre soli, ma pur tale che già
bastasse ad esser grande scrittore adoperandola; la modellarono sulla già
esistente letteratura latina ec. Questa circostanza, indipendente affatto dalla
natura della lingua italiana, ha fatto e dovuto far sì che l'epoca di essa
lingua si pigli necessariamente
1995 d'allora in poi,
cioè da quando ell'ebbe tre sommi scrittori, che l'applicarono decisamente alla
letteratura, {all'altissima poesia,} alle grandi e
nobili cose, alla filosofia, alla teologia (ch'era allora il non plus ultra, e
perciò Dante col suo magnanimo ardire,
pigliando quella linguaccia greggia ed informe dalle bocche plebee, e volendo
innalzarla fin dove si può mai giungere, si compiacque, anche in onta della
convenienza e buon gusto poetico, di applicarla a ciò che allora si stimava la
più sublime materia, cioè la teologia). Questa circostanza ha fatto che la
lingua italiana contando oggi, a differenza di tutte le altre, cinque interi
secoli di letteratura, sia la più ricca
di tutte; questa che la sua formazione e la sua indole sia decisamente antica,
cioè bellissima e liberissima, con gli altri infiniti vantaggi delle lingue
antiche (giacchè i cinquecentisti che poi decisamente la formarono, oltre
1996 che sono antichi essi stessi, e che si modellarono
sugli antichi classici latini e greci seguirono ed in ciò, e in ogni altra cosa
il disegno e le parti di quella tal forma che la nostra lingua ricevette nel
300. e ch'essi solamente perfezionarono, compirono, e per ogni parte regolarono,
uniformarono, ed armonizzarono); questa circostanza ha fatto che la
nr̃a[nostra] lingua non abbia mai
rinunziato alle parole, modi, forme antiche, ed all'autorità degli antichi dal
300 in poi, non potendo rinunziarvi se non rinunziando a se stessa, perchè
d'allora in poi ell'assunse l'indole che la caratterizza, e fu splendidamente
applicata alla vera letteratura. Questa circostanza è unica nella lingua
italiana. La spagnuola le tenne dietro più presto che qualunqu'altra, ma solo
due secoli dopo. Dal 500. dunque ella prende la sua epoca, ed ella è la più
antica di fatto e d'indole, dopo
1997 l'italiana. La
lingua francese non ebbe uno scrittore assolutamente grande e da riconoscersi
per tale in tutti i secoli, prima del secolo di Luigi 14. o in quel torno. (Montagne nel 500. o non fu tale, o non bastò, o non
era tale da formare e fissare bastantemente una lingua.) Quindi la sua epoca non
va più in là, ella conta un secolo e mezzo al più, l'autorità degli antichi è e
dev'esser nulla per lei. Dove comincia la vera e propria letteratura di una
nazione quivi comincia l'autorità de' suoi scrittori in punto di lingua.
[1999,2] Lo spirito, il costume della nazione francese è, fu,
e sarà precisamente moderno rispetto a ciaschedun tempo successivamente, e la
nazione francese sarà (come oggi vediamo che è) sempre considerata come il tipo,
l'esemplare,
2000 lo specchio, il giudice, il
termometro di tutto ciò ch'è moderno. La ragione si è che la nazione francese è
la più socievole di tutte, la sede della società, e non vive quasi che di
società. Ora, lasciando stare che lo spirito umano non fa progressi generali o
nazionali se non per mezzo della società, e che dove la società è maggiore per
ogni verso, quivi sono maggiori i
progressi del nostro spirito; e quella tal nazione si trova sempre, almeno
qualche passo, più innanzi delle altre, e quindi in istato più moderno;
lasciando questo, osservo che la società e la civiltà tende essenzialmente e
sempre ad uniformare. Questa tendenza non si può esercitare se non su di ciò che
esiste, e l'uniformità che deriva sempre dalla civiltà, non può trovarsi nè
considerarsi che in quello che successivamente esiste in ciaschedun tempo.
Quindi è che la nazione francese essendo sempre più
2001 d'ogni altra uniformata nelle sue parti, in virtù della eccessiva società, e
quindi civiltà di cui gode, ella non può esser mai in istato antico, perchè
altrimenti non sarebbe uniforme a se stessa. Cioè que' francesi che in ciascun
tempo esistono sono sempre uniformi tra loro, e non agli antichi, altrimenti non
sarebbero uniformi agli altri francesi contemporanei. E così ogni novità di
costumanze o di opinioni, ogni progresso dello spirito umano divien subito
comune ed universale in Francia, mercè della società che
in un attimo equilibra fra loro, e diffonde, e uniforma, e generalizza e
pareggia il tutto.
[2005,1] L'ebraico manca si può dire affatto di composti, e
scarseggia assaissimo di derivati in proporzione delle sue radici e dell'immenso
numero di derivati che nella[nello] stesso
ragguaglio di radici, hanno le altre lingue. Ciò vuol dire, ed è effetto e segno
che la lingua ebraica è se non altro l'una delle più antiche. L'uso dei composti
(de' quali mancano pure, cred'io, tutte le lingue orientali affini all'Ebraica,
l'arabica ec.) non è infatti de' più naturali
2006 nè
facili ad inventarsi, e non sembra che sia stato proprio delle lingue primitive,
nè l'uno di quei mezzi, co' quali esse da principio si accrebbero. Infatti lo
spirito umano trova per ultimi i mezzi più semplici, qual è questo di comporre
con pochi elementi un vasto {vocabolario,}
diversissimamente combinandoli. Siccome appunto accadde nella scrittura, dove da
principio parvero necessari tanti diversi segni quante sono le cose o le idee.
Così dunque nelle radici ec. Bensì naturalissimo e primitivo, e l'uno de' primi
mezzi d'incremento che adoperò il linguaggio umano, è l'uso della metafora, o
applicazione di una stessa parola a molte significazioni, cioè di cose in
qualche modo somiglianti, o fra cui l'uomo trovasse qualche analogia più o meno
vicina o lontana. E di metafore infatti abbonda il vocabolario ebraico, e gli
altri orientali, cioè quasi ciascuna parola ha una selva di significati, e
sovente
2007 disparatissimi e lontanissimi, fra' quali
è ben difficile il discernere il senso proprio e primitivo della parola. Così
portava la vivezza dell'immaginazione orientale, che ravvicinava cose
lontanissime, e trovava rapporti astrusissimi, e vedeva somiglianze e analogie
fra le cose più disparate. Del resto senza quest'abbondanza di significazioni
traslate, e questo cumulo di sensi per ciascuna parola, la lingua Ebraica e le
sue affini, non avrebbero abbastanza da esprimersi, e da fare un discorso ec.
(28. Ott. 1821.).
[2007,1]
{Alla p.
1974.} La lingua latina è fra tutte quante la
meno adattabile alle cose moderne, perch'essendo di carattere antico, {e proprissimo, e
marcatissimo,} è priva di libertà, al contrario delle altre antiche, e
quindi incapace d'altro che dell'antico, e inadattabile al moderno, a differenza
della greca. Quindi venne e ch'ella
2008 si corrompesse
prestissimo a differenza pur della greca, e ch'ella dovesse cessare di esser
lingua universale, per intendersi scambievolmente, come oggi col francese, e
molto più di servire agli usi civili e diplomatici ec. ed essere adoperata dai
letterati e dai dotti in luogo delle parlate; dovesse dico cessare appena i
tempi presero uno spirito determinato e proprio, al quale il latino era
inadattabile. Ciò forse non sarebbe accaduto alla lingua greca, e s'ella ne'
bassi tempi fosse stata universale in europa, come lo fu
la latina, e com'essa l'era stata anticamente, e massime in
oriente, forse ella non avrebbe perduto ancora questa
qualità, e noi ci serviremmo ancora tra nazione e nazione di una lingua antica,
e in questa scriveremmo ec. Nel che saremmo in verità felicissimi per la
infinita capacità, potenza, e adattabilità di quella lingua,
2009 unite alla bellezza ec. che la fanno egualmente propria e
bastante e all'immaginazione e alla ragione di tutti i tempi. Così sarebbe
accaduto se l'armi greche avessero prevaluto in europa
alle latine. Ed infatti la lingua tedesca che è similissima alla greca ec. - v.
appresso un mio pensiero su questo particolare pp. 2176-77.
(28. Ott. 1821.)
[2012,2] Non bisogna confondere la purità {della lingua} la quale è di debito in tutte le scritture di qualunque
nazione, coll'eleganza, la quale non è di debito se non in alcune
2013 scritture, ed in altre non solo non necessaria ma
impossibile; nè perchè la lingua italiana è capacissima di eleganza, e perchè ne
sentiamo un grandissimo sapore nella più parte de' nostri buoni scrittori,
credere che gli scritti didascalici ec. se e dove non ci riescono eleganti, non
sieno italiani. Torno a dire che la precisione moderna ch'è estrema, e che in tali scritti e generi è
di prima necessità, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità ec. è
assolutamente di sua natura incompatibile colla eleganza: ed infatti il nostro
secolo che è quello della precisione, non è certo quello della eleganza in
nessun genere. Bensì ell'è compatibilissima colla purità, come si può vedere in
Galileo, che dovunque è preciso e
matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano. Perocchè la
nostra lingua, come qualunque altra è incapace di uno stile
2014 che abbia due qualità ripugnanti e contrarie essenzialmente, ma è
capacissima dello stile preciso, non meno che dell'elegante, a somiglianza della
greca, e al contrario della francese, ch'essendo capacissima di precisione è
incapace di eleganza (quella che noi, i latini i greci intendevano per
eleganza), e della latina, capacissima di eleganza e incapace di precisione, e
però corrotta appena fu applicata alle sottigliezze teologiche, scolastiche ec.
(fra le quali fu allevata per lo contrario la nostra, e crebbe la greca) ed
anche a quelle della filosofia greca, dopo Cicerone; e quindi affatto inadattabile alle cose moderne, ed alle
traduzioni di cose moderne. (30. Ott. 1821.)
[2014,1] La mancanza di libertà alla lingua latina, venne
certo o dall'esser ella stata perfettamente applicata ne' suoi buoni tempi a
pochi generi di scrittura, ad altri imperfettamente e poco e da pochi, ad altri
punto;
2015 o dall'esser ella, come lingua formata, la
più moderna delle antiche, ed essere stata la sua formazione contemporanea ai
maggiori incrementi dell'arte che si vedessero tra gli antichi ec. ec.; o
dall'aver ella avuto in Cicerone uno
scrittore e un formatore troppo vasto
per se, troppo poco per lei, troppo eminente sopra gli altri, alla cui lingua
chi si restrinse, perdette la libertà della lingua, chi ricusollo, perdette la
purità, ed avendo riconquistata la libertà colla violenza, degenerolla in
anarchia. Perocchè la libertà e ne' popoli e nelle lingue è buona quando ella è
goduta pacificamente e senza contrasto relativo ad essa, e come legittimamente e
per diritto, ma quando ella è conquistata colla violenza, è piuttosto mancanza
di leggi, che libertà. Essendo proprio delle
cose umane dapoi che son giunte
2016
ad una estremità, saltare alla contraria,
poi risaltare alla prima, e non sapersi mai più fermare nel mezzo, dove la
natura sola nel primitivo loro andamento le aveva condotte, e sola potrebbe
ricondurle. Un simile pericolo corse la lingua italiana nel 500. quando
alcuni volevano restringerla, non al 300. come oggi i pedanti, ma alla sola
lingua e stile di Dante, Petr. e Bocc. per la eminenza di questi scrittori, anzi la prosa alla sola
lingua e stile del Boccaccio, la lirica
a quello del solo Petrarca ec. contro i
quali combatte il Caro nell'Apologia.
[2025,1] Gli antichi poeti e proporzionatamente gli scrittori
in prosa, non parlavano mai delle cose umane e della natura, se non per
esaltarle, ingrandirle, quando anche parlassero delle miserie {+e di argomenti, e in istile
malinconico.} ec. Così che la grandezza costituiva il loro modo di
veder le cose, e lo spirito della loro poesia. Tutto al contrario accade ne'
poeti, e negli
2026 scrittori moderni, i quali non
parlano nè possono parlare delle cose umane e del mondo, che per deprimerne,
impiccolirne, avvilirne l'idea. Quindi è che i linguaggi antichi sempre
innalzano e ingrandiscono, massime quelli de' poeti, i moderni sempre
impiccoliscono e abbassano {e annullano} anche quando
sono poetici. {+Anzi appunto in ciò
consiste lo spirito poetico d'oggidì (che ha sempre, e massime oggi, grandi
rapporti col filosofico di ciascun tempo). Gli antichi si distinguevano dal
volgo coll'inalzare le cose al di sopra dell'opinione comune; i moderni
poeti col deprimerle al di sotto di essa. In ciò pure v'è grandezza, ma del
contrario genere.} Onde avviene che gli scritti moderni tradotti p. e.
in latino, o le cose moderne trattate in latino, suonano tutt'altro da quello
che intendono, e ne segue un effetto discordante tra la grandezza e l'altezza
del linguaggio, e la strettezza e bassezza delle idee, ancorchè fra noi
poeticissime. (Come accaderebbe trasportando le nostre letterature in
Oriente). E viceversa traducendo gli antichi
negl'idiomi moderni, o trattando in questi le cose antiche.
[2037,1] Questi pensieri ci possono condurre a grandi
risultati intorno all'acutezza naturale de' primi parlatori, alla vivezza e
disparatezza de' rapporti ch'essi scoprivano, alla loro penetrazione, metafisica
ec. Infatti quante volte il fanciullo è più metafisico ed anche sofistico, che
l'uomo maturo il più versato in tali materie ec. Puoi vedere la p. 2019. fine, seg.
(2. Nov. dì de' morti. 1821.).
[2057,1] La poca libertà {+e la somma determinazione e precisazione del carattere e
della forma} della lingua latina che può parere strana 1. in una
lingua antica, 2. in una lingua parlata {e scritta} da
tanta moltitudine e diversità di gente e di nazioni, 3. in una lingua d'un
popolo liberissimo, e formata e ridotta a letteratura, nel tempo che la sua
libertà era anzi sì eccessiva da degenerare in anarchia, oltre le cagioni dette
altrove pp. 2014-15, ebbe certo fra le principali la
seguente.
[2065,1] Le dette circostanze della lingua latina, rendendola
poco libera, siccome necessariamente accade a tutte le lingue scritte, e
letterature che sono strettamente influite dalla società, il che le rende strette suddite dell'uso, come in
Francia, dovevano render la lingua latina {scritta, e la letteratura,} come la francese,
facilissima a corrompersi, ossia a degenerare, o perdere l'indole sua primitiva,
o quella della sua formazione; perocchè l'uso cambia continuamente, massime
cambiandosi le circostanze dei popoli, come accadde in
Roma; e la lingua scritta, e letteratura latina,
dipendendo
2066 in tutto da quest'uso, doveva per
necessità cambiar presto di faccia, come ho predetto alla francese, e l'evento
della lingua e letteratura latina, conferma la mia predizione. E le circostanze
avendo portato che gli scrittori che succedettero al secolo di Cic. e di Aug. non fossero gran cosa, perciò noi (come quelli che
in quei tempi furono di buon gusto) chiamiamo questo cambiamento (per altro
inevitabile) della lingua e letteratura latina, corruzione, e molto più quello,
parimente inevitabile, che accadde, e venne continuamente accadendo ne'
successivi tempi. In somma la lingua latina {scritta}
doveva per necessità, cambiar di forma di secolo in secolo continuamente, e così
fece, ma siccome i secoli seguenti furono corrotti, e poveri o scevri di buoni
scrittori e letterati, {(dico buoni per se stessi, come un
Cic. o un Virg.)} perciò i cambiamenti ch'ella
inevitabilmente dovea soffrire e soffrì, si chiamano
2067 e furono corruzioni. (7. Nov. 1821.).
[2067,1] Come la lingua così la letteratura francese è
schiava, e la più schiava di quante sono o furono (qualità naturale in una
letteratura d'indole moderna) e nemica o poco adattabile all'originalità, e
quindi alla vera poesia, e quindi anche ella appena può dirsi letteratura,
essendo serva dell'uso e della società, non della sola immaginazione ec. come
dovrebbe. Nè poteva accadere che la lingua fosse schiava e la letteratura no,
siccome non poteva e non può in nessun luogo {o tempo}
accadere viceversa. Dico la letteratura, la quale sola, insieme coi costumi
(parimente schiavi della società, e dell'uniformità in
Francia, e nemici di originalità) segue o accompagna
l'andamento della lingua, e ne ha tutte le qualità; non la filosofia, la quale
non è in questo caso in Francia, nè per se stessa in
verun luogo, poich'ella ha un
2068 tipo e una ragione
indipendente da ogni circostanza, cioè la verità, incapace d'essere influita, e
sempre libera ec. {+Così dico delle
scienze ec.}
(7. Nov. 1821.).
[2068,1] Del resto le sopraddette considerazioni provano che
mentre la lingua francese, (come fu la latina) la letteratura, e i costumi
francesi, sono nemici della novità per natura, giacchè escludono l'originalità,
ed esigono l'uniformità, nondimeno, e perciò stesso, detta lingua (come la
latina) letteratura e costumi, sono più soggetti di qualunque altro alla novità,
e mutabili fino all'ultimo grado, come abbiam veduto nel fatto quanto alla
lingua latina, e come vediamo parimente in tutto ciò che spetta alla nazione
francese, la più mutabile delle esistenti, {(nel carattere
generale come nell'individuale, e in questi come in tutto il resto)} e
continua maestra e fonte di novità alle altre nazioni colte. Così che v'ha una
contraddizione essenziale nella natura di essa nazione, lingua, letteratura ec.
ossia un principio elementare che necessariamente produce due
2069 contrarii effetti. Fonte inevitabile d'inconvenienti, di
corruzione, d'istabilità ec. (7. Nov. 1821.).
[2075,1] Molte volte riescono eleganti delle parole
corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre
incorrotte o meno corrotte, e meno popolari. Per es. commessi in vece di commisi, potrà riuscire
più elegante in una scrittura, benchè sia una pura corruzione di commisi che viene dirittamente dal commisi latino. Ma questa corruzione sebben popolare,
essendo antica, ed avendo cessato oggi di essere in uso frequente, o presso il
popolo, o presso gli scrittori, e trovandosi ne' buoni scrittori antichi, essa
riesce, in una scrittura, elegante perchè fuori dell'ordinario, e più elegante
di commisi (ch'è incorrotto) perciò appunto che questo
è in uso commune, e che nell'uso la parola più antica; e non corrotta ha
prevaluto alla corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere più
antica e meno ordinaria della stessa antica. E quante volte le eleganze non
derivano e non sono altro
2076 che pure corruzioni di
voci, frasi ec. ec. ec. E chi perciò le condannasse, o stimasse più eleganti le
corrispondenti voci o frasi incorrotte, e più regolari, più corrispondenti
all'etimologia ec. non saprebbe che cosa sia eleganza per sua natura. ec.
(9. Nov. 1821.).
[2103,1] Le stesse circostanze sociali e politiche e
cronologiche che renderono la lingua latina tanto più determinata, e meno libera
della greca, e tanto più legata rispetto a questa, quanto più perfetta rispetto
alla medesima, resero ancora la letteratura latina assai più determinata,
perfetta, formata e raffinata della greca, e forse di qualunque altra siasi mai
vista, anche (senza dubbio) fra le moderne. Ma queste medesime circostanze, e
queste medesime perfezioni la resero (siccome la lingua) assai meno originale e
varia della greca. I latini scrittori furono grandi per arte, i greci per
natura, parlando di ambedue generalmente. {+I latini ebbero un gusto certo, formato, ragionato, i
greci più naturale che acquisito, e però vario, e originale ec. Qual è la
lingua tale è sempre insomma la letteratura, e viceversa.}
[2112,1] Come anche le costruzioni, l'andamento, la struttura
ch'io chiamo naturale in una lingua, distinguendola dalla ragionevole, logica,
geometrica, abbia una proprietà universale, e sia da tutti più o meno facilmente
appresa (almeno dentro una stessa categoria di nazioni e di tempi), e come per
conseguenza la semplicissima e naturalissima (sebbene perciò appunto
figuratissima) struttura della lingua greca, dovesse facilitare la di lei
universalità; si può vedere in questo, che le scritture le più facili in
qualunque lingua per noi nuova o poco nota, sono quasi sempre e generalmente
2113 le più antiche e primitive, e quelle al cui tempo,
la lingua o si veniva formando, e non era ancor pienamente formata, o non
peranche era incominciata a formare. Così accade nello spagnuolo, così ne'
trecentisti italiani (i più facili scrittori nostri), così nella stessa
oscurissima lingua tedesca, i cui antichi romanzi (come di un certo Romanzo del 13.zo sec. intitolato Nibelung, dice espressamente la Staël) sono anche oggi assai più facili e
chiari ad intendersi, che i libri moderni. Accade insomma il contrario di quello
che a prima vista parrebbe, cioè che una lingua non formata, o non ben formata e
regolata, {e poco logica,} sia più facile della
perfettamente formata {, e logica.} (Eccetto le minuzie
degli arcaismi, che abbisognano di Dizionario per intenderli ec. difficoltà che
per lo straniero apprentif è nulla, e
non è sensibile se non al nazionale ec. ec. {+Eccetto ancora certi ardiri propri della natura, e
diversi secondo l'indole delle nazioni delle lingue, e degl'individui in
que' tempi, i quali ardiri piuttosto affaticano, di quello che impediscano
di capire. v. p. 2153.})
Parimente infatti
2114 i più antichi scrittori greci
sono i più facili e chiari, perchè i più semplici, e di costrutti e frasi le più
naturali, e lo studioso che intende benissimo Senofonte, Demostene, Isocrate ec. si
maraviglia di non intendere i sofisti, e Luciano, e Dion Cassio, e i
padri greci, e altri tali; e molto sbaglierebbe quel maestro che facesse
incominciare i suoi scolari dagli scrittori greci più moderni, credendo, come
può parere a prima giunta, che i più antichi, e più perfettamente greci, debbano
esser più difficili. Così pure accade nel latino, che i più antichi sono i più
facili, e di dizione più somigliante di gran lunga alla greca, che tale fu
infatti la letteratura latina ne' suoi principii, e la lingua latina, anche
prima della letteratura, e l'una e l'altra indipendentemente ancora
dall'imitazione e dallo studio degli esemplari e letteratura greca. Son più
facili gli antichi poeti latini, che i prosatori del secol d'oro. (18.
Nov. 1821.).
[2150,1]
2150 Lo stile, e la lingua di Cic. non è mai tanto semplice quanto nel Timeo,
perocch'egli è tradotto dal greco di Platone. E pure Platone fra i
greci del secol d'oro è (se non vogliamo escludere Isocrate) senza controversia il più elegante e
lavorato di stile e di lingua, e il Timeo è delle sue opere più astruse, e forse anche più lavorate,
perch'esso principalmente contiene il suo sistema filosofico. Platone il principe della raffinatezza nella lingua e
stile greco {prosaico,} riesce maravigliosamente
semplice in latino, e nelle mani di Cicerone, a fronte della lingua e stile originale degli altri latini,
e di esso Cicerone principe della
raffinatezza nella prosa latina. {+La
maggiore raffinatezza ed eleganza dell'aureo tempo della letteratura greca,
riesce semplicità trasportata non già ne' tempi corrotti ma nell'aureo della
letteratura latina, e per opera del suo maggiore scrittore.}
(23. Nov. 1821.).
[2166,1] Può far meraviglia molto ragionevole che Marcaurelio scrivesse i suoi libri τῶν εἰς
2167 ἑαυτόν, delle considerazioni di se
stesso
come lo chiama il Menagio, piuttosto in greco che in latino,
essendo romano, non allevato in grecia (nè credo che mai
ci fosse), ed avendo posto molto e felice studio nelle lettere e nella lingua
nativa, come apparisce sì da altre notizie che danno di lui gli Storici, sì
massimamente da ciò ch'egli scrive a Frontone e Frontone a
lui. Non poteva aver egli di mira, cred'io, la maggior diffusione del
suo lavoro, scrivendolo in una lingua più divulgata. Ma io credo certissimo che
egli non fosse indotto a preferir la lingua greca alla latina se non per la
maggiore libertà di quella. Della quale libertà egli aveva bisogno in un'opera
profondamente ed intimamente filosofica, e attenente alla scienza della vita e
del cuore umano, ed alle sottili speculazioni psicologiche. Non dubito ch'egli
non disperasse di potere riuscire
2168 a trattare un
tale argomento in latino, a parlare a se stesso, e di se stesso, cioè del cuor
suo ec. (non delle sue cose pubbliche come fa Cic.) in latino. Questa lingua aveva già avuto un Cic. e un Seneca, e un Tacito, eppure ancor non bastava a una certa filosofia veramente
intima. La lingua greca aveva avuto scrittori filosofici profondi, ma senza ciò,
la sua pieghevolissima e liberissima indole, si prestava a qualsivoglia genere
di argomento, grado di filosofia, {ec.} ancorchè nuovo.
La lingua latina per lo contrario: ed oltracciò quello era un tempo, dove, come
accade dopo una decisa corruzione e licenza, che richiamandosi gl'istituti umani
alla buona strada, essi cadono nell'eccesso contrario; la lingua latina e il
gusto di quel tempo (come oggi in italia) peccava di
servilità, timidità (in
vitium ducit culpę fuga
*
), come si può vedere nelle opere
di Frontone, e come dicevano i maestri
di devozione,
2169 che le anime recentemente
convertite, sogliono patire di scrupoli, e sarebbe anzi mal segno se non ne
patissero. Questo durò poco, perchè la lingua e letteratura colle cose latine
tornò a precipitare indietro ben presto. Ma in quel tempo lo stile di Seneca, e altri tali stili filosofici si
condannavano altamente dai letteratori latini, come oggi dagli italiani quello
di Cesarotti ec. e ciò serviva
d'impaccio e di spauracchio a chi volesse scrivere filosoficamente in latino,
come oggi volendo scriver buon italiano, nessuno s'impaccia più di pensare. Marcaurelio pertanto dovè sentire questo
pericolo, disperare di poter essere profondo filosofo nella lingua nativa voluta
dal suo tempo, e senza violare il gusto corrente, e dar nel naso ai critici, i
quali già lo riprendevano di cattiva {e negligente}
lingua, e di licenza dopo ch'egli s'era dato alla filosofia, e dallo studio
delle parole a quello delle cose,
2170 come apertamente
lo riprende Frontone
de
Orationibus. Trovossi adunque obbligato per esprimere
i suoi più intimi sentimenti, a sceglier la lingua greca, a creder più facile di
esprimere le cose sue più proprie, in una lingua forestiera ed altrui, che nella
propria e nativa. (Il qual bisogno pur troppo si farebbe molte volte sentire
agl'italiani rispetto al francese, se gl'italiani pensassero, ed avessero cose
proprie da dire.)
[2181,1] La lingua greca rassomiglia certo alla latina
(generalmente però e complessivamente parlando) più che all'italiana, com'è
naturale di due sorelle. Ma sebbene
2182 di queste due
sorelle la sola latina ci è madre, nondimeno l'italiana e la spagnola somigliano
più alla greca che alla latina. Siccome la lingua francese benchè figlia della
latina e sorella delle due sopraddette, somiglia più all'inglese, che a queste
altre ec. ec. (28. Nov. 1821.).
[2197,3] Quello che altrove ho detto della lingua del Bartoli
pp.
1313-15, dimostra quanto la nostra lingua si presti all'originalità
dello stile e degli stili individuali, in tutti i generi, e in tutta
l'estensione del termine. Originalità
2198 strettamente
vietata dalla lingua francese allo stile ec. dell'individuo, se non pochissima,
che a' francesi pare gran cosa, come la lingua di Bossuet. Perocchè è molto una piccola differenza, in
una nazione, in una letteratura, in una lingua, avvezza, e necessariamente
conducẽte[conducente] all'uniformità, che
non può essere alterata se non se menomamente, senza dar bruttamente negli
occhi, e uscir de' limiti del lecito. Laddove nella lingua italiana lo scrittore
individuo può essere uniforme agli altri, e difforme se vuole, anzi tutt'altro,
e nuovissimo, e originalissimo, senza lasciar di essere e di parere italiano, e
ottimo italiano, e insigne nella lingua. Ciascuno colla lingua italiana si può
aprire una strada novissima, propria, ignota, e far maravigliare i nazionali di
parlare una lingua che si possa esprimere in modo si[sì] differente dal loro, e da loro non mai pensato,
2199 benchè benissimo l'intendano, per nuovo che sia.
(30. Nov. 1821.).
[2210,1] Se la lingua greca nel risorgimento delle lettere
avesse prevaluto alla latina, quanto all'uso de' dotti, alle cose diplomatiche
ec. ella sarebbe
2211 stata (oltre gli altri vantaggi)
più facile a trattare e a scrivere anche elegantemente, e con quella perfezione
con che in italia fu scritto il latino, e ciò non solo
per la sua adattabilità alle cose moderne, ma per la maggior facilità assoluta
della sua costituzione e proprietà, che resulta dalla sua naturalezza,
semplicità di frase di andamento ec. E la minore anzi niuna somiglianza che
avrebbe avuta col materiale delle lingue moderne e viventi, sarebbe stato uno
scoglio di meno alla sua purità, ed eleganza, alla conservazione della sua vera
indole, e in vece del latino barbaro, si sarebbe scritto un greco puro, e la
barbarie non avrebbe dovuto esser cagione di abbandonarla, come la latina,
barbara anche oggi negli scrittori tedeschi ec. che la usano.
[2212,1] Non si pensa se non parlando. Quindi è certissimo
che quanto la lingua di cui ci serviamo pensando, è più lenta, più bisognosa di
parole e di circuito per esprimersi, ed esprimersi chiaramente, tanto (in
proporzione però della rispettiva facoltà ed abitudine degl'intelletti
individuali) è più lenta la nostra concezione, il nostro pensiero, ragionamento
e discorso interiore, il nostro modo di concepire e d'intendere, di sentire e
concludere una verità, conoscerla, il processo della nostra mente nel
sillogizzare, e giungere alle conseguenze. Nella maniera appunto che una testa
poco avvezza a ragionare, più lentamente tira da premesse evidenti e ben
concepite, e legate ec. una conseguenza parimente manifesta (il che accade
tuttodì negli uomini volgari, ed è cagione della loro poca ragionevolezza, della
loro piccolezza, tardità nell'intendere le cose più ovvie, piccolezza,
volgarità, oscurità di
2213 mente ec.); e nella maniera
che la scienza e la pratica delle matematiche, del loro modo di procedere, e di
giungere alle conseguenze, del loro linguaggio ec. aiuta infinitamente la
facoltà intellettiva e ragionatrice dell'uomo, compendia le operazioni del suo
intelletto, lo rende più pronto a concepire, più veloce {e
spedito} nell'arrivare alla conclusione de' suoi pensieri, e
dell'interno suo discorso; insomma per una parte assuefa, per l'altra facilita
all'uomo l'uso della ragione ec. Quindi deducete quanto giovi la cognizione di
molte lingue, giacchè ciascuna ha qualche proprietà e pregio particolare, questa
è più spedita per un verso, quella per un altro, questa è più potente nella tal
cosa, quella in tal altra, questa può facilmente esprimere la tale precisa idea,
quella non può, o difficilmente. Egli è indubitato: la nuda cognizione di molte
lingue
2214 accresce anche per se sola il numero delle
idee, e ne feconda poi la mente, e ne facilita il più copioso e più pronto
acquisto. Quello che ho detto della lentezza o speditezza delle lingue si deve
estendere a tutte le altre loro proprietà; povertà o ricchezza, ec. ec. anche a
quelle che spettano all'immaginazione, giacchè da queste è influita la fantasia,
e la facoltà delle concezioni fantastiche (e ragionamenti fantastici) e la
qualità di esse, come da quelle è influito l'intelletto e la facoltà del
discorso. Vedete dunque s'io ho ragione nel dire che la pratica della lingua
greca avrebbe giovato agl'intelletti più che non fece quella della latina
(lingua non solo non filosofica nè logica, come non lo è neppur la greca, ma non
adattabile, senza guastarla, alla filosofia sottile, ed all'esattezza precisa
delle espressioni e delle idee, a differenza della greca.). V. la p. 2211. fine. E quello che dico
della lingua greca, dico di
2215 ciascun'altra per la
sua parte, massime di quelle ad essa più analoghe; lo dico dell'italiana,
massime in ordine alla facoltà immaginativa, e concettiva del bello, del nobile,
del grazioso ec. la qual facoltà da nessuna moderna lingua può tanto essere
aiutata come dall'italiana, avendola ben conosciuta e familiare, o materna o no
ch'ella ci sia. (3. Dic. dì di S. Franc. Saverio. 1821.)
[2227,1] Coloro che tengono la lingua italiana come morta,
vietandogli l'uso attuale, e continuato, e inalienabile delle sue facoltà fanno
cosa più assurda de' nostri libertini, e più dannosa. Gli uni e gli altri
tengono la vera lingua italiana per morta; ma questi con buona conseguenza ne
deducono che dobbiamo servirci di un'altra viva, cioè di quella barbara che ci
pongono avanti, e che adoprano; quelli (cosa stolta)
2228 vogliono che noi vivi scriviamo e parliamo, e trattiamo le cose vive in una
lingua morta. (5. Dic. 1821.).
[2231,2] Di quante parole o frasi forestiere antiche o
moderne, diciamo giornalmente fra noi stessi, o interrogati del loro valore, questa non si può esprimere in nostra lingua, il
significato non ve lo posso precisamente spiegare. Che cosa
sono esse? idee, o parti, o qualità e modificazioni d'idee, che quelle lingue e
quelle nazioni hanno, e che la nostra non ha, benchè ne sia capacissima, perchè
imparando quelle lingue, le comprende benissimo, e chiaramente. (6. Dic.
1821.)
[2239,2] Osservando bene, potrete vedere che la prosa (ed
anche la poesia) latina, nelle metafore,
2240 eleganze,
ardimenti abituali e solenni, giro della frase, costruzione ec. è molto più
poetica della greca, la quale (parlo della classica ed antica) ha un andamento
assai più rimesso, posato, piano, semplice, meno ardito, anzi non soffrirebbe in
nessun caso quelle metafore ardite e poetiche che a' prosatori latini sono
familiari, e poco meno che volgari. E se non le soffrirebbe, ciò non è
perch'ella ne abbia ed usi delle altre equivalenti, ma intendo dire ch'ella non
soffrirebbe un'egual misura e grado di ardimento ne' traslati e in tutta
l'elocuzione della prosa la più alta, come è quella di Demostene, a petto a cui Cicerone è un poeta per lo stile è[e] la lingua, laddove egli è quasi un prosatore ne'
concetti, passioni ec. rispetto a Demostene poeta, o certo più poeta di Cicerone. Quindi una frase prosaica latina sarebbe
poetica in greco, una frase epica
2241 o elegiaca in
latino sarebbe lirica in greco ec. Quasi gl'istessi rispetti ha la lingua latina
coll'italiana, similissima in queste parti alla greca, e però non è maraviglia
se il latinismo dello stile diede qualche durezza ai cinquecentisti, e sforzò e
snaturò alquanto il loro scrivere. (10. Dic. dì della Venuta della S.
Casa. 1821.).
[2266,1]
Alla p. 2250
marg. E il qu non formava sempre una sillaba
sola, qualunque vocale egli precedesse? aequus, aequa,
aequi, aequos, aeque ec. Non accade dire che il qu si considerava come consonante semplice. (v. il Forcell.
in U, e in Q.)
Nella pronunzia esso era (ed è anche oggi in italiano) non una semplice
consonante, ma una vera sillaba, come cu, e lo sarà
sempre per natura della
2267 favella umana; e quindi
aequus, era naturalmente parlando, assolutamente
trisillabo. E nondimeno i latini lo facevano sempre dissillabo.
[2277,3]
Alla p. 2079.
principio. I verbi latini semplici derivarono certo, almeno per la
massima parte, dai nomi: antichissimamente
2278 però,
ed in modo che grandissima parte delle loro radici nominative è ignota, e
passano essi per radici. In altri verbi si trova la radice nominativa, ed
alcuni, anzi non pochi di questi si veggono formati dai latini di {mano in} mano, anche in tempi recenti, cioè a' secoli di
Cicerone, degli Antonini, ec. Ma da poi che la
lingua formandosi e ordinandosi, adottò il costume de' verbi composti, essa
inclinò sempre a formarli da' verbi semplici, unendoli alle opportune
preposizioni avverbi, particelle, {nomi,} ec.
Pochissimo si compiacque di trar fuori di netto un verbo nuovo, composto di
preposizioni ec. e di un nome nuovamente e appostatamente ridotto a conjugazione
(Bella facoltà del greco italiano spagnolo) Se ne trovano alcuni di questi, ma
pochissimi (massime fatti da nomi sustantivi) in confronto specialmente della
immensa quantità degli altri verbi composti da verbi semplici. Dealbare (per altro la radice è aggettiva) è fra
questi
2279 pochi. (23. Dic. 1821.).
[2284,2] Qual autor greco più facile di Senofonte? anzi qual autor latino? e forse anche qual
autore in qualunque lingua, massime antica, può essere, o avrebbe potuto esser
più facile, figurandoci anche una lingua a nostro talento? E pure egli è
pienissimo di locuzioni, modi, forme figuratissime, irregolarissime. Ma esse
sono naturali, e ciascuno le comprende, e qualunque principiante di greco,
proverà gran facilità ad intender Senofonte (forse sopra qualunque altro autore, massime della stessa
antichità), di qualunque nazione egli sia, e quantunque quelle frequentissime e
stranissime figure di Senofonte, non
sieno meno contrarie alle regole della sintassi greca, che all'ordine
2285 logico universale del discorso. Tanto è vero che
la natura non è meno universale della ragione, e che adoperando naturalmente le
facoltà proprie di una lingua, per
molto ch'elle si allontanino dalla logica, non si corre rischio di oscurità, e
che una lingua di andamento naturale; se non è così facile come quella di
andamento logico, certo non è oscura, e fra le antiche poteva (e può) esser
giudicata facilissima, e servire anche alla universalità. (25. Dic. dì di
Natale. 1821.).
[2288,1] La lingua latina così esatta, così regolata, e
definita, ha nondimeno moltissime frasi ec. che per la stessa natura loro, e del
linguaggio latino, sono di significato così vago, che a determinarlo, e renderlo
preciso non basta qualsivoglia scienza di latino, e non avrebbe bastato l'esser
nato latino, perocch'elle son vaghe per se medesime, e quella tal frase e la
vaghezza della significazione sono per essenza loro inseparabili, nè quella può
sussistere senza questa. Come Georg. 1. 44. et Zephyro putris se gleba
resolvit.
*
Quest'è una frase regolarissima, e
nondimeno regolarmente e gramaticalmente indefinita di significazione, perocchè
nessuno potrà dire se quel Zephyro significhi al zefiro, per lo zefiro,
2289
col zefiro ec. Così quell'altra: Sunt lacrimę
rerum
*
ec. della quale altrove ho parlato p.
1337. E cento mila di questa e simili nature, regolarissime,
latinissime, conformissime alla gramatica, e alla costruzione latina, prive o
affatto, o quasi affatto d'ogni figura di dizione, e tuttavolta vaghissime e
indefinibili di significato, non solo a noi, ma agli stessi latini. Di tali
frasi abbonda assai più la lingua greca. Vedete come dovevano esser poetiche le
lingue antiche: anche le più colte, raffinate, adoperate, regolate. Qual è la
lingua moderna, che abbia o possa ricevere non dico molte, ma qualche frasi ec.
di significato indefinibile, e per la sua propria natura vago, senz'alcuna
offesa ec. della gramatica? La italiana forse alcun poco, ma molto al di sotto
della latina. La tedesca credo che in questa facoltà vinca la nostra, e tutte le
altre moderne. Ma ciò solo perch'ella non
2290 è ancora
bastantemente o pienamente formata; perch'ella stessa non è definita, è capace
di locuzioni indefinite, anzi, volendo, non potrebbe mancarne. Così accade in
qualunque lingua, nè solo nelle locuzioni, ma nelle parole. La vaghezza di
queste va in ragion diretta della poca formazione, {+uniformità, unità ec.} della lingua, e questa,
della letteratura e conversazione, e queste, della nazione. Ho notato altrove
pp. 1953-57
pp. 2080. sgg.
pp. 2087-89
pp. 2177-78 come la letteratura tedesca non avendo alcuna unità, non
abbia forma, giacchè per confessione dei conoscitori, il di lei carattere è
appunto il non aver carattere. Non si può dunque dir nulla circa le facoltà del
tedesco, che non può esser formato nè definito, non essendo tale la letteratura,
(per vastissima ch'ella sia, e fosse anche il decuplo di quel che è) e mancando
affatto la conversazione. Quindi anche le loro parole e frasi denno per
necessità avere (come hanno) moltissimo d'indefinito.
2291
(26. Dic. 1821.).
[2310,1] Eccoci dunque con questo hil nudo e manifesto nelle mani, e se attenderete alle
2311 cose dette di sopra, e se avrete niente di spirito
filosofico, vedrete quanto sia naturale e probabile che siccome ne homo cioè nemo, vuol dire
nessuna persona, così ne
hil cioè nihil volesse dire primitivamente
nessuna materia, cioè nessuna
cosa (v. p. 2309. mezzo, e
i miei vari pensieri pp. 601-602
p.1262
pp. 1388-91
pp. 1657-58 sulla necessaria e somma materialità di tutte le
primitive lingue, e di tutte le primitive idee umane, anzi non pur delle
primitive, ma di tutte le idee madri ed elementari); ovvero non materia, non cosa, cioè insomma, e formalmente ed espressamente,
nulla. (così i greci οὐδέν neque unum ec. non quidquam, μηδέν, οὔτι,
μήτι ec.)
[2311,1] Non vi par ella naturalissima questa etimologia? Non
vi par dunque probabilissimo che l'antico e quasi ignoto hilum volesse dir materia, e fosse tutt'una
radice con ὕλη, e silva adoprata pur essa in senso di
materia? Non è chiaro che l'um in hilum non è radicale, ma declinabile
ec. e per conseguenza la radice è solamente hil,
massime che da hilum abbiamo nihil e nil, parole inverisimili,
2312 e strane e mostruose se fossero un'apocope ec? Non
abbiamo dunque probabilmente trovato in realtà nell'antichissimo latino la
semplicissima radice di silva di ὕλη ec?
[2312,1] Osservate che in questo caso si renderebbe
verisimile che il primitivo e proprio senso di ὕλη silva ec. fra quelli ch'essi realmente hanno, fosse quello di
materia.
[2312,3] I greci conoscevano la letteratura latina appresso a
poco come i francesi conoscono oggidì le letterature straniere (specialmente
l'italiana), e com'essi le hanno conosciute da poi che la lingua letteratura e
costumi loro sono stati
2313 pienamente formati.
Eccetto quella differenza che è prodotta dalla diversità de' tempi e del
commercio fra le nazioni, per cui la Francia conosce
certo più le letterature forestiere, di quel che la
Grecia conoscesse la latina. Ma parlo
proporzionatamente. E non è questa la sola somiglianza (estrinseca però) che
passa fra lo spirito, il costume, la letteratura francese, e la greca. (31
Dic. 1821.).
[2335,2] Da ciò che altrove ho detto p. 774 sul Buonarroti che scrisse apposta per dar
vocaboli alla Crusca, sul Salvini che non fu niente parco di nuovissimi vocaboli, o tirati da
lingue forestiere, o antiche, o da radici italiane, in tutte le sue scritture, e
che scrisse contemporaneamente alla compilazione del vocabolario, anzi finchè
visse non permise d'esser citato ec. apparisce che i nostri pedanti vogliono
espressamente che in quell'atto medesimo che si pubblica il vocabolario
2336 di una lingua, restino per virtù di essa
pubblicazione, rivocate in perpetuo tutte le facoltà che tutti gli scrittori
fino a quel punto avevano avute intorno alla favella, e chiuse in quel momento
per sempre le fonti della lingua, fino allora sempre e incontrastatamente
aperte. (8. Gen. 1822.)
[2355,2] Noi diciamo leccare, i
francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i greci
λείχειν, i latini nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco
λείχω, cioè lecho, o licho è
tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si
dice licco. E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il χ greco. Queste parole sono
antichissimamente e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono
volgarissime, anzi plebee; nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per
dinotare la stessa azione.
2356 Antichissima e
proprissima della lingua greca è la voce λείχω. Come dunque questa conformità
fra l'antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano,
francese ec? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual
altra fonte che da un volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e
propria del nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino
può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla
comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma
come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi poi sino
all'ultimo, un'[un] antichissimo verbo greco?
Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili
che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella
primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due quando
nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle polite
scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre,
2357 (e come accade appunto nell'italiano che
parecchie voci volgari benchè derivate dalla purissima latinità, cioè dalla
nostra madre, si escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto
fatte troppo familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono
altre d'origine o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel
popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella
parentesi, poichè lingo
(v. il Forcell.) non è che corruzione
di λείχω, o lecho, o licho;
pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse
nella lingua latina, come abbiamo veduto. V.
il Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi
in un esempio, come al suo luogo. (23. Gen. 1822.).
[2386,3] La lingua italiana ha un'infinità di parole ma soprattutto di modi che
nessuno ha peranche adoperati. - Ella si riproduce illimitatamente nelle sue
parti. Ella è come coperta tutta di germogli, e per sua propria natura, pronta
sempre a produrre nuove maniere di dire. - Tutti i classici o buoni scrittori
crearono continuamente nove frasi. Il vocabolario ne contiene la menoma parte: e
per verità il frasario di un solo
2387 di essi, massime
de' più antichi ec. formerebbe da se un vocabolario. Laonde un vocabolario che
comprenda tutti i modi di dire, ottimi e purissimi, adoperati da' classici
italiani, e dagli stessi soli testi di lingua, sarebbe impossibile. Quanto più
uno che comprendesse tutti gli altri egualmente buoni che sono stati usati, o
che si possono usare in infinito! Usarli dico e crearli nuovamente, e nondimeno
con sapore e natura tutta antica: anzi non la moderna, ma la sola antica lingua
italiana possiede ed è capace di questa fecondità. - Deducete da ciò l'ignoranza
di chi condanna quanto non trova nel Vocabolario. E concludete
che la novità de' modi è così propria della lingua italiana, e così perennemente
ed essenzialmente, ch'ella non può conservare la sua forma antica, senza conservare in atto la facoltà di nuove fogge. (5. Feb.
1822.).
[2390,2] Della convenienza di conservare agli scrittori la
facoltà di fabbricar nuove parole e modi sopra le forme già proprie della
lingua, cioè sopra le varie facoltà per le quali essa n'ha prodotto degli altri
di quel tal genere, v. un
bello ed espressivo luogo del Caro, Apologia,
Parma 1558. p. 52. dopo aver parlato delle voci
Suo merto et tuo
valore
*
nel Predella, prima di entrare nelle opposizioni numerate. (18.
Feb. 1822.)
[2395,2] Nelle scritture de' moderni puristi italiani (p. e.
del Botta) per lo più si vede
chiaramente un moderno che scrive all'antica, e quindi non ha la grazia dello
scrivere antico, non avendone lo spontaneo. Una delle due, o s'ha da parere un
2396 antico che scriva all'antica, vale a dire che
questo scrivere paia naturale dello scrittore, e venuto da se; o s'ha da essere
un moderno che scriva alla moderna: e volendo parere un moderno, non si dee
volere scrivere altrimenti, se si vuol fuggire il contrasto ridicolo e
l'affettazione; e molto meno volendo scriver cose moderne, e pensieri di
andamento moderno (cioè insomma propri dello scrittore, che mentre vive non sarà
mai antico): le quali cose e i quali pensieri, da che mondo è mondo, in
qualsivoglia nazione non si sono scritti nè potuti scrivere in altra lingua che
moderna (perchè questa sola è loro connaturale, e perciò sola dà il modo di bene
e pienamente esprimerli), e non altrimenti che alla moderna. (19. Marzo dì
di S. Giuseppe. 1822.)
{Quando mai, se si potesse, dovressimo,
quanto allo stile, parere antichi che pensassero alla moderna. Laddove nei
nostri accade tutto il contrario.}
[2396,1] Il P. Dan.
Bartoli è il Dante della prosa
italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua, è tutto a risalti e
rilievi. (22. Marzo 1822.).
[2397,2] Il Vocab. della
Crusca non ha interi due terzi delle voci, {o significati e vari usi loro,} e nè pure un decimo dei
modi di quegli stessi autori e libri che registra nell'indice. E questi non sono
appena una terza o quarta parte di quegli autori e libri italiani de' buoni
secoli che secondo ogni ragione vanno considerati e sono autentici nella lingua,
anche nella pura lingua antica. Aggiungeteci ora i libri moderni bene scritti, e
le voci e modi che usati o non usati ancora da buoni scrittori, sono
necessarissimi a chi vuole scriver
2398 (com'è dovere)
delle cose presenti, e a' presenti o futuri, massime le spettanti alle scienze
immateriali o materiali, e che tutti mancano al Vocabolario; si
può far ragione che questo non contenga più d'una quarantesima parte della
lingua italiana in genere (a dir molto); e non più d'una trentesima dell'antica
in particolare, ossia di quella che s'ha per classica. Del che non si può far
carico ai compilatori, se non quanto alle mancanze relative agli autori de'
quali professano d'aver fatto spoglio e formatone il vocabolario. Perchè del
resto nessuna lingua viva ha, nè può avere un vocabolario che la contenga tutta,
massime quanto ai modi, che son sempre (finch'ella vive) all'arbitrio dello
scrittore. E ciò tanto più nell'italiana (per indole sua). La quale molto meno
può esser compresa in un vocabolario, quanto {ch'}ella
è più vasta di tutte le viventi: mentre veggiamo che nè pur la greca ch'è morta,
s'è potuta mai comprendere in un Vocabolario nè men quanto alle voci, che ogni
nuovo scrittore, ne porta delle nuove.
2399
{+Molto meno quanto ai modi ne' quali
ell'è infinita e a disposizione degli scrittori, come appunto la nostra, e
ciascuno scrittor greco ne forma de' nuovi a suo piacere, e in gran
numero.} Or non è cosa ridicolissima che mentre nessun'altra nazione
stima che la sua lingua sia determinata e prescritta dal suo vocabolario, non
ostante che questo sia molto meglio fatto, molto più esteso (relativamente) del
nostro, e che la lingua loro possa più facilmente o meglio esser compresa in un
vocabolario; noi la cui lingua è impossibile (sopra qualunque altra) che vi si
possa comprendere, che di più, abbiamo un vocabolario inesattissimo nelle cose
stesse che porta, molto più inferiore alla ricchezza della nostra lingua di
quello che le convenga o se le debba perdonare di essere, fatto sopra un piano
sopra cui nessun altro è fatto, cioè sopra il piano dell'antico, mentre noi
siamo moderni, e della pura autorità quando la lingua è viva; noi dico vogliamo
che un vocabolario così ridondante d'imperfezioni, e poco proprio della lingua
nostra {(e d'ogni lingua viva),} abbia su di questa una
virtù, {un'autorità} e un dominio, che i più perfetti
vocabolari delle altre nazioni (anche nazioni unite come la francese e
l'inglese) nè si arrogano, nè sognano, nè pensano che
2400 sia menomamente proprio dell'essenza loro, nè compatibile colla
natura delle lingue vive, e che nessuno s'immagina mai di riconoscere in essi.
(29. Marzo. Venerdì dell'Addolorata. 1822.).
[2400,2] Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua
nuova significazione (per forestiera o barbara ch'ella sia), quando la nostra
lingua non abbia l'equivalente, o non l'abbia così precisa, e ricevuta in quel
proprio e determinato senso; non è altro e non può esser meno che rinunziare o
sbandire, e trattar da barbara o illecita una nuova idea, e un nuovo concetto
dello spirito umano. (18. Aprile, Giovedì in Albis, 1822.).
[2402,1] Intorno alla gelosia che avevano i romani della
preminenza della loro lingua sulla greca, vedi Dione p. 946. nota 86.
(23. Aprile 1822.).
[2408,1] Che la lingua greca si conservasse incorrotta, o
quasi incorrotta, tanto più tempo della latina, e anche dopo scaduta già la
latina ch'era venuta in fiore tanto più tardi, si potrà spiegare anche
osservando, che la letteratura (consorte indivisibile della lingua) sebbene era
scaduta appresso i greci, pur aveva ancor tanto di buono, ed era eziandio capace
di tal perfezione, che talvolta non aveva che invidiare all'antica. Esempio ne
può essere la Spedizione di Alessandro, e l'Indica d'Arriano, opere di stile e di lingua così purgate, così
uguali in ogni parte e continuamente a se stesse, senza sbalzi, risalti, slanci,
voli o cadute di sorte alcuna (che sono le proprietà dello scriver sofistico e
guasto, in qualsivoglia genere, lingua, e secolo corrotto), di semplicità e
naturalezza e facilità {chiarezza, nettezza ec.} così
spontanea ed inaffettata, così ricche, così
2409
proprie, così greche insomma nella lingua, e nella maniera, e nel gusto, che
quantunque Arriano fosse imitatore,
cioè quello stile e quella lingua non fossero cose naturali in lui ma
procacciate collo studio de' Classici (come è necessario in ogni secolo dove la
letteratura non sia primitiva) e principalmente di Senofonte, non per questo si può dire ch'egli non le
avesse acquistate in modo che paiano e si debbano anzi chiamar sue, nè se gli
può negare un posto se non uguale, certo vicinissimo a quello degl'imitati da
lui. Ora il tempo d'Arriano fu quello
d'Adriano e degli Antonini, nel qual tempo la
letteratura latina, con tutto che fosse tanto meno lontana della greca dal suo
secol d'oro, non ha opera nessuna che si possa di gran lunga paragonare a queste
d'Arriano ne' suddetti pregi, come
anche in quelli d'una ordinata e ben architettata narrazione, e altre tali virtù
dello scriver di storie. Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezion della lingua non si
potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle doti di storico appartenenti
2410 al bello letterario, sebben egli l'avanza di molto
in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel che mantiene la
lingua, è la bella letteratura, non la filosofia nè le altre scienze, che
piuttosto contribuiscono a corromperla, come fece lo stile di Seneca. E però Plutarco contemporaneo di Tacito, e com'esso, alquanto più vecchio d'Arriano, non si può recar per modello nè
di lingua nè di stile, essendo però stato forse più filosofo di tutti i filosofi
greci, molti de' quali sono esempi di perfettissimo scrivere. Ma non erano così
sottili come Plutarco, siccome Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello
scrivere, e {{quegli}} perfettissimo. (1. Maggio
1822.).
[2415,3] Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima
analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec. del suono delle parole?
Quest'è una bellezza affatto esterna, e della quale poco o nulla si può
convenire, essendo diversissime in questo genere le opinioni e i gusti, secondo
le nazioni e i secoli. Per noi è bruttissimo il suono delle parole orientali, e
per gli orientali altrettanto sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa
intendiamo noi dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che
sentimento, che gusto
2416 ne proviamo noi, se non, per
dir poco, incertissimo, confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia
della lingua nostra, qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed
è sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non avremmo
alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca,
o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e
di modi non si dà se non in una lingua ardita, perchè di forme esatte e
matematiche, tutte le lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè
più nè meno: e questa ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima
per natura sua: giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova
alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa è una qualità quasi
estrinseca, e senza quasi accidentale alla lingua, la quale senza punto punto
alterarsi, o scomporsi in niun
2417 modo può essere ed
è, oggi più abbondante di parole, domani meno, secondo le circostanze nazionali,
commerciali, politiche, scientifiche ec. Infatti la lingua francese è in verità
ricchissima di parole, massime in filosofia, scienze, conversazione,
manifatture, e in ogni uso e materia di società, di commercio ec. ec. e non per
questo è bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La vera e
non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si può
perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una bellezza intrinseca, e
spetta all'indole della lingua; e questa non può consistere in altro che
nell'ardire. Or questo ardire che cos'è, fuorchè la libertà di non essere esatta
e matematica? Giacchè quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne
sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero
uniformi affatto nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà
se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua
non esatta, e non obbligata
2418 alle regole
dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso.
Osservate tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina,
italiana, spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che
ardire, e questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate
anche gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e
paragonateli con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma
ec. chiamata bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non
sia lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè
senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo
stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche tutte le prose
francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica,
2419 anzi contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita,
riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e
poeticissima.)
[2443,1] Di ciò che ho notato altrove p. 741. sgg.
pp.
805. sgg.
pp.
1076-77 che l'uso di fabbricar nuovi composti, e di supplir così al
bisogno di esprimer nuove idee, o nuove parti d'idee (ch'è tutt'uno, secondo le osservazioni della moderna
ideologia), essendo stato così comune alle lingue antiche, e alle stesse moderne
ne' loro principii, s'è poi quasi dimenticato, per utilissimo che sia; se ne
possono dar, fra l'altre, le seguenti ragioni.
[2451,3] Quanto sia più naturale e semplice l'andamento della
lingua greca (tuttochè poeticissima), che non è quello della latina; e quindi
quanto men proprio suo, e quanto la
lingua greca dovesse esser meglio disposta all'universalità che non era la
lingua latina, si può vedere anche da questo.
2452
Sebben l'italiana e la spagnuola son figlie vere e immediate della latina, pure
è molto ma molto più facile di tradurre naturalmente e spontaneamente in
italiano o in ispagnuolo gli ottimi autori greci, che gli ottimi latini. E tanto
è più facile quanto i detti autori greci son più buoni, cioè più veramente e
puramente greci. Siccome per lo contrario, quanto ai latini, è tanto meno
difficile, quanto meno son buoni, cioè meno latini, come p. e. Boezio tradotto
con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite de' SS. Padri (che non hanno
quasi più nulla del latino) tradotte egregiamente dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi
da F. Bartolomeo da S. Concordio ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito
Livio, difficilissimamente pigliano un sapore italiano, se non
lasciano affatto l'indole e l'andamento proprio. Al contrario di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora
essendo l'andamento delle lingue moderne generalmente assai più piano e meno
figurato ec. delle antiche, questo è un segno che la lingua greca, adattandosi
alle moderne molto più della latina, doveva esser molto più semplice e naturale
nella sua costruzione e forma. (30. Maggio 1822.).
[2458,1]
Alla p. 1660.
mezzo. Non so bene se il Salviati o il Salvini sia
quel che dice dell'antica falsa, e latina ortografia
degl'italiani, e particolarmente dell'et non mai pronunziato se non e, o ed. Tutte le lingue nascono, com'è
naturale appoco appoco, e per lungo tempo non sono adattabili alla scrittura e
molto meno alla letteratura. Cominciando ad adattarle alla scrittura,
l'ortografia n'è incertissima, per l'ignoranza di quei primi scrittori o
scrivani, che non sanno bene applicare il segno al suono: massime quando si
servano, com'è il solito, di un alfabeto forestiero, quando è certo che ciascuna
nazione o lingua ha i suoi suoni particolari, che non corrispondono a quelli
significati dall'alfabeto di un'altra nazione. Venendo poi la letteratura,
l'ortografia piglia una certa consistenza, ed è prima cura de' letterati di
regolarla, di ridurla sotto principii fissi, e generali, e di darle stabilità.
Ma anche questa opera è sempre imperfettissima ne' suoi principii. Per lo più la
letteratura di una nazione deriva da quella di un'altra. Quindi anche
l'ortografia in quei principii
2459 segue la forma e la
stampa di quella che i letterati hanno sotto gli occhi, troppo deboli ancora per
essere originali, e per immaginar da se, e seguire {e
conoscer bene} la natura particolare de' loro propri suoni ec: le
quali cose non son proprie se non di quello ch'è già o perfezionato o vicino
alla perfezione. Nel nostro caso poi, questa lingua letterata, e di ortografia
già regolatissima e costante, sopra la cui letteratura s'andavano formando le
moderne, era anche immediatamente madre delle lingue moderne. E benchè queste
(massime la francese), avessero perduto molti de' suoi suoni, e sostituitone, o
aggiuntone molti altri, contuttociò la somiglianza fra la madre e le figlie era
tanta, e la loro derivazione da lei era così fresca, che cominciando a scrivere
e poi a coltivare queste lingue non mai ancora scritte o coltivate, non si pensò
di potersi servire d'altra ortografia che della latina. La quale ortografia già
esisteva, e la nostra s'avea da creare: ma nessuna cosa si crea in un momento,
massime che tante altre ve n'erano da creare allo
2460
stesso tempo, le quali occupavano tutta l'attenzioni[attenzione] di quei primi formatori delle favelle {moderne.} Uomini che ad una materia putrida (giacchè tutte erano
barbarissime corruzioni) aveano a dar vita, e splendore.
[2468,1]
Nelle annotazioni alle mie Canzoni (Canzone 6. stanza 3. verso 1)
ho detto e mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica l'idea rappresentata
dal vocabolo. Questa è una delle principali cagioni per cui la metafora è una
figura così bella, così poetica, e annoverata da tutti i maestri fra le parti e
gl'istrumenti principalissimi dello stile poetico, o anche prosaico ornato e
sublime ec. Voglio dire ch'ella è così piacevole perchè rappresenta più idee in
un tempo stesso (al contrario dei termini). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno
notabilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica, e facoltà
inventrice e creatrice) la novità delle metafore. Perchè grandissima, anzi
infinita parte del nostro discorso è metaforica, e non perciò quelle metafore di
cui ordinariamente si compone risvegliano più d'una semplice idea.
2469 Giacchè l'idea primitiva significata propriamente
da quei vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal significato metaforico
il quale solo rimane, come ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa
parola non abbia perduto affatto, anzi punto, il suo suo significato proprio, ma
lo conservi e lo porti a suo tempo. P. e. accendere ha
tuttavia la forza sua propria. Ma s'io dico accender
l'animo, l'ira ec. che sono metafore, l'idea che risvegliano è una,
cioè la metaforica, perchè il lungo uso ha fatto che in queste tali metafore non
si senta più il significato proprio di accendere, ma
solo il traslato. E così queste tali voci vengono ad aver più significazioni
quasi al tutto separate l'una dall'altra, quasi affatto semplici, e che tutte si
possono {omai} chiamare ugualmente proprie. Il che non può accadere nelle metafore nuove,
nelle quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente tutto il diletto della
metafora: massime s'ell'è ardita, cioè se non è presa sì da vicino che le idee,
benchè diverse,
2470 pur quasi si confondano insieme, e
la mente del lettore o uditore non sia obbligata a nessun'azione ed energia più
che ordinaria per trovare e vedere in un tratto la relazione il legame
l'affinità la corrispondenza d'esse idee, e per correr velocemente e come in un
punto solo dall'una all'altra; in che consiste il piacere della loro
moltiplicità. Siccome per lo contrario le metafore troppo lontane stancano, o il
lettore non arriva ad abbracciare lo spazio che è tra l'una e l'altra idea
rappresentata dalla metafora; o non ci arriva in un punto, ma dopo un certo
tempo; e così la moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il
piacere, non ha più luogo. (10. Giugno 1822.). {{V. p.
2663.}}
[2474,1] Diciamo tuttogiorno in volgare: venir voglia a uno d'una cosa, venirgli pensiero, talento, desiderio,
ec. ec. V. la
Crusca e i Diz. francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir questo in latino? Chi non
lo stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or ecco appunto una tal frase
parola per parola nel poema più perfetto del più
2475
perfetto ed elegante poeta latino, e in un luogo che dovea necessariamente esser
de' più nobili, cioè nel principio e invocazione delle Georgiche: (l. 1. v. 37.)
Nec tibi regnandi veniat tam
dira cupido, Nè ti venga sì brutta voglia di
regnare
*
cioè nell'inferno. V. il Forcell. e il Gloss. se hanno
niente al proposito. (14. Giugno. 1822.).
[2484,1]
2484 I francesi non hanno poesia che non sia prosaica,
e non hanno oramai prosa che non sia poetica. Il che confondendo due linguaggi
distintissimi per natura loro, e tutti due propri dell'uomo per natura sua,
nuoce essenzialmente all'espressione de' nostri pensieri, e contrasta alla
natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente quando ragiona
coll'animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i francesi, se
vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa ed ornata ec.
(19. Giugno. 1822.).
[2487,1] Quel che si dice, ed è verissimo, che gli uomini per
lo più si lasciano governare dai nomi, da che altro viene se non da questo che
le idee e i nomi sono così strettamente legati nell'animo nostro, che fanno un
tutt'uno, e mutato il nome si muta decisamente l'idea, benchè il nuovo nome
significhi la stessa cosa? Splendido esempio ne furono i romani, esecratori del
nome regio, i quali non avrebbero tollerato un re chiamato re, e lo tollerarono
chiamato imperatore, dittatore, ec. e dichiarato inviolabile (cosa nuova) col
nome vecchio della potestà tribunizia. E che non avrebbero tollerato un re così
detto, si vede. Perocchè Cesare il
quale, bench'avesse il supremo comando, pur sospirava quel nome, non parendoli
essere re, se non fosse così chiamato, (e ciò pure per la sopraddetta qualità
dell'animo nostro, bench'egli fosse spregiudicatissimo), fattosi
2488 offerire la corona da Antonio ne' Lupercali, fu costretto rigettarla esso
stesso da' tumulti ed esecrazioni di quel popolo già vinto e schiavo, e che poi
chiamato di nuovo alla libertà, non ci venne. E gl'imperatori che furono dopo, e
che da principio (cioè finchè il nome d'imperatore non fu divenuto anche nella
immaginazion loro {e} del popolo, lo stesso e più che
re) ebbero lo stesso desiderio di Cesare, non crederono che quel popolo domo si potesse impunemente ridurre
a sostenere il nome di re, benchè non dubitarono di fargli avere {un re,} e di fargli tollerare ed anche amare la cosa
significata da questo nome. (22. Giugno. 1822.).
[2498,1] L'estrema possibile semplicità o naturalezza dello
stile, dello scrivere o del parlar francese civile, è sempre di quel genere
ch'essi medesimi (in altre occasioni) chiamano maniéré. {+Anche il Salvini lo chiama ammanierato. V. la definizione di maniéré ne' Diz. francesi, dove lo
diffiniscono per un'abitudine
viziosa che deforma tutto, e fa proprio al caso.}
V. p. e. il Tempio di Gnido, e le Favole di
La
Fontaine. (26. Giugno. 1822.).
[2500,2] Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente
agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all'eleganza?
Intendo per barbarismo l'uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto
alieni e discordi dall'indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e
delle abitudini ec. Perocchè
2501 se noi usassimo p. e.
delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane,
o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare
perchè questi barbarismi ripugnassero all'eleganza, quando sarebbero in
contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali.
Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell'italiano i gallicismi (cioè
parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse
forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del
caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso,
distrugga affatto l'eleganza delle scritture.
[2572,1] Dire che la lingua latina è figlia della greca,
perchè vi si trovano molte parole e modi greci introdottivi parte dalla letteratura, parte dal commercio e
vicinanza delle colonie greco-italiane, parte dall'antico commercio avuto colla
nazione greca sempre mercatrice, parte derivanti dalla stessa comune origine
d'ambe le lingue, è lo stesso appunto che vedendo la nostra presente
2573 lingua italiana piena di francesismi, e modellata
sulla francese, conchiudere che la lingua italiana è figlia della francese. Anzi
v'ha più di francese nella presente lingua italiana (che è quasi una traduzione,
e una scimia della francese) di quel che v'abbia di greco nella lingua latina,
massime poi dell'antica. Del resto la parità va molto bene a proposito, perchè
infatti le lingue italiana e francese sono appunto sorelle, come la greca e la
latina. (20. Luglio 1822.).
[2578,1] La lingua latina ebbe un modello d'altra lingua
regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non
n'ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L'aver avuto
un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina
fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno
dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta,
quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche
sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar
la dialettica, e l'ordine ragionato all'orazione. Non
2579 avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com'è
naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla
dialettica e dall'ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e
confermate nell'uso dello scrivere, sanzionate dall'autorità, e dallo stesso
errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse
medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà {della} lingua {greca.} Così è
accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch'ella fu molto e da molti scritta
nel 300, secolo d'ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in
modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a
quegli scrittori, {+presi in corpo e in
massa,} e farli seguire da' posteri. I greci o non avevano affatto
alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n'era, era molto lontana da
loro, come forse la sascrita, l'egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai
loro più dotti. Gl'italiani n'avevano, cioè la
2580
latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo
la latina, massime la latina buona e regolata. {+(Fors'anche molti conoscendo passabilmente il latino, e
fors'anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in
italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che
tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti
delle cose ec.)} Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero
con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F.
Bartolommeo, Cavalca ec.
Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e
vero latino, meno di tutti aberrarono dall'ordine dialettico dell'orazione.
Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a' loro scrittori
contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di
professione laici e illetterati, e che
non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali
abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d'ogni sorta.
[2584,1] Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee,
come negli anelli le gemme, anzi s'incarnano come l'anima nel corpo, facendo
seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole,
e divise non sono più quelle, sfuggono all'intelletto e alla concezione, e non
si ravvisano, come accaderebbe all'animo nostro disgiunto dal corpo. (27.
Luglio. 1822.).
[2589,1] La letteratura greca fu per lungo tempo (anzi
lunghissimo) l'unica del mondo (allora ben noto): e la latina (quand'ella sorse)
naturalissimamente non fu degnata dai greci, essendo ella derivata in tutto
dalla greca; e molto meno fu da essi imitata. Come appunto in[i] francesi poco degnano di conoscere e neppur pensano
d'imitare la letteratura russa o svedese, o l'inglese del tempo d'Anna, tutte nate
dalla loro. Così anche, la lingua greca fu l'unica formata e colta nel mondo
allora ben conosciuto (giacchè p. e. l'india non era ben
conosciuta). Queste ragioni fecero naturalmente che la letteratura e lingua
greca si conservassero tanto tempo incorrotte, che d'altrettanta durata non si
conosce altro esempio. Quanto alla lingua n'ho già detto altrove p.
996,1
pp.
1093-94
pp.
2408-10. Quanto alla letteratura, lasciando stare Omero, è prodigiosa la durata della letteratura greca
non solo incorrotta, ma nello stato di
creatrice. Da Pindaro, Erodoto, Anacreonte, Saffo, Mimnermo, gli altri
lirici ec. ella dura senza interruzione fino a Demostene; se non che, dal tempo di Tucidide a Demostene, ella si restringe alla sola
Atene per
2590 circostanze
ch'ora non accade esporre. V. Velleio lib. 1. fine. Nati,
anzi propagati e adulti i sofisti e cominciata la letteratura greca {(non la lingua)} a degenerare, (massime per la perdita
della libertà, da Alessandro, cioè da
Demostene in poi), ella con
pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in
Egitto, e ancora quasi in istato di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec. Finito il suo stato di creatrice, e dichiaratasi
la letteratura greca imitatrice e figlia di se stessa, cioè ridotta (come sempre
a lungo andare interviene) allo studio e imitazione de' suoi propri classici
antichi, l'esser questi classici, suoi, e questa imitazione, di se stessa, la
preserva dalla corruzione, e purissimi di stile e di lingua riescono Dionigi Alicarnasseo, Polibio, e tutta la ϕορά di scrittori greci
contemporanei al buon tempo della letteratura latina; i quali appartengono alla
classe, e sono in tutto e per tutto una ϕορά d'imitatori dell'antica letteratura
greca, e di quella ϕορά durevolissima di scrittori greci classici, ch'io chiamo
ϕορά creatrice. Corrotta già
2591 la letteratura
latina, e sfruttata e indebolita, la greca sopravvive alla sua figlia ed alunna,
e s'ella produce degli Aristidi, degli
Erodi attici, e altri tali retori
di niun conto nello stile (non barbari però, e nella lingua purissimi), ella pur
s'arricchisce d'un Arriano, d'un Plutarco, d'un Luciano, {ec.} che
quantunque imitatori, pur sanno così bene scrivere, e maneggiar lo stile e la
lingua antica o moderna, che quasi in parte le rendono la facoltà creatrice.
Aggiungi che in tal tempo la grecia, colla sua
letteratura e lingua incorrotta, era serva, e l'Italia
signora colla sua letteratura e lingua imbastardita e impoverita. (30.
Luglio 1822.).
[2591,1] La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli
che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente
umana. (L'histoire de chaque langue est l'histoire des peuples qui l'ont parlée
ou qui la parlent, et l'histoire des langues est l'histoire de l'esprit humain.)
(31. Luglio, dì di S. Ignazio Loiola. 1822.).
[2594,1] Ho detto altrove p. 111
pp. 950-52
pp. 1704 che le voci greche nelle lingue nostre non sono altro che
termini (in proporzione però del tempo da ch'elle vi sono introdotte: p. e. filosofia e tali altre voci greche venuteci mediante
il latino, sono alquanto più che termini), cioè ch'elle non esprimono se non se
una pura idea, senz'alcun'altra concomitante. Per questa ragione appunto, oltre
le altre notate altrove, le voci greche sono infinitamente a proposito nelle
nostre scuole e scienze, perocch'elle rappresentano costantemente e
schiettamente quella nuda, secca e semplicissima idea alla quale sono state
appropriate; e perciò servono alla precisione
2595
molto meglio di quello che possano mai fare le voci tolte dalle proprie lingue,
le quali voci benchè fossero formate, composte ec. di nuovo, sempre porterebbero
seco qualche idea concomitante. Ma per questa medesima ragione le voci greche
sono intollerabili nella bella letteratura (barbare poi nella poesia, benchè i
francesi si facciano un pregio, un vezzo e una galanteria d'introdurcele), dove
intollerabili sono le idee secche e nude, o la secca e nuda espressione delle
idee. (6. Agosto 1822.).
[2595,1] A ciò che ho detto altrove pp. 2455-56
di quel verso dell'Alfieri, Disinventore od inventor del nulla, soggiungi.
Quest'appunto è la mirabile facoltà della lingua greca, ch'ella esprime
facilmente, senza sforzo, senza affettazione, pienamente e chiarissimamente, in
una sola parola, idee che l'altre lingue talvolta non possono propriamente e
interamente esprimere in nessun modo, non solo in una parola, ma nè anche in più
d'una. E questo non lo conseguisce la detta {lingua}
per altro mezzo che della immensa facoltà de' composti.
[2608,1]
2608 Si può scrivere in italiano senza scrivere in
maniera italiana, laddove non si può quasi scrivere in francese che non si
scriva alla maniera francese. E si può scrivere e parlare in italiano e non
all'italiana: scrivere un italiano non italiano ec. (16. Agosto, dì di S.
Rocco. 1822.).
[2609,1] L'immenso francesismo che inonda i costumi e la
{letteratura e la} lingua degl'italiani e degli
altri europei, non è bevuto se non dai libri francesi, e dall'influenza delle
loro mode, e coll'andarli a trovare in casa loro, il che per quanto sia
frequente, non può mai esser gran cosa. Laddove Roma e
l'italia da' tempi del secondo Scipione in poi, e massime sotto i primi
imperatori, era piena di greci (greci proprii, o nativi d'altri paesi
grecizzati); n'eran piene le case de' nobili, dove i greci erano chiamati e
ricevuti e collocati stabilmente in ogni genere di uffici, da quei della cucina,
fino a quello di maestro di filosofia ec. ec. (V. Luciano
περὶ τῶν ἐπὶ μισϑῷ συνόντων,
2610 e l'epig. di
Marziale del graeculus esuriens ec. ec.); n'eran pieni i
palazzi e gli offici pubblici: oltre che tutti i ricchi mandavano i figli a
studiare in grecia, e questi poi divenivano i principali
in Roma e in italia, nelle
cariche, nel foro ec. Quindi si può stimar quale e quanto dovesse
necessariamente essere il grecismo de' costumi, e letteratura, e quindi della
lingua in italia a quei tempi. Aggiunto che anche le
donne avevano a sapere il greco, lo studio che tutti più o meno facevano de'
loro libri, e il piacere che ne prendevano, e le biblioteche che ne componevano
ec. ec. (18. Agosto. Domenica. 1822.).
[2619,1]
2619 È curioso l'osservare come l'universalità sia
passata dalla lingua greca ch'è la più ricca, vasta, varia, libera, ardita,
espressiva, potente, naturale di tutte le lingue colte, alla francese ch'è la
più povera, limitata, uniforme, schiava, timida, languida, inefficace,
artifiziale delle medesime. E più curioso che l'una e l'altra lingua abbiano
servito all'universalità appunto perchè possedevano in sommo grado le predette
qualità, che sono contrarie direttamente fra loro. E pur tant'è, ed anche oggidì
dalla lingua francese in fuori, non v'è, e mancando la lingua francese, non vi
sarebbe lingua meglio adattata all'universalità della greca, ancorchè morta,
(2. Settem. 1822.)
{{ed ancorch'ella sia precisamente l'estremo opposto alla
lingua francese. (2. Sett. 1822.).}}
[2622,1] Le nazioni civili dell'Asia,
dopo la conquista d'Alessandro erano
veramente δίγλωττοι cioè parlavano e scrivevano la lingua greca, non come
propria, ma come lingua colta, e nota universalmente,
2623 e letta da per tutto (e così deve intendersi il luogo di Cic.
pro
Archia), e come noi o gli svedesi o i russi o gli olandesi
scrivono il francese: noi (più di rado) per cagione della sua universalità;
quegli altri, come anche i polacchi, e al tempo di Federico i prussiani, per non aver lingua che sia
{o fosse} ancora abbastanza capace ec. Nè si dee
credere che le lingue patrie di quelle nazioni, fossero spente, neanche diradate
dall'uso, e sostituita loro la greca nella conversazione quotidiana, come
accadde della latina, nelle nazioni latinizzate. Restano anche oggi le lingue
asiatiche antiche, o dialetti derivati da quelle, o composti di quelle e d'altre
forestiere, come dell'arabica ec. E v. ciò che s'è detto altrove pp.
1000-1001 di Giuseppe Ebreo,
e Porfirio
Vit.
Plotini c. 17. nel Fabric.
B. G. t. 4. p. 119.-20. (e quivi la nota)
κατὰ μὲν πάτριον
διάλεκτον
*
. Di questi δίγλωττοι che scrivevano in lingua
non loro, e pure scrivevano anche egregiamente, fu Luciano da Samosata, {+v. le sue opp., dove fa cenno della sua
lingua patria,} e tali altri di que' tempi; anzi tutti gli Asiatici
2624 che scrissero in greco (eccetto quelli delle
Colonie, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo ec.), alcuni Galli
non Marsigliesi nè d'altra colonia greco-gallica (come Favorino), alcuni Africani, massime Egiziani (perchè
nel resto dell'Affrica, {esclusa la Cirenaica,} trionfò la lingua latina, ma
come lingua de' letterati e del governo ec. non come popolare, per quanto
sembra), alcuni italiani (come M.
Aurelio) ec. ec. (9. Sett. 1822.). {+Questo appunto fu quello che la lingua latina non
ottenne mai, o quasi mai, cioè d'esser bene intesa, parlata, letta, scritta
da quelli che non la usavano quotidianamente come propria, e così si deve
intendere il citato luogo di Cic.
latina suis finibus, exiguis
sane, continentur.
*
Pur non erano tanto
ristretti neppur allora, quanto all'uso quotidiano, essendo già stabilito il
latino in Affrica ec.}
[2630,2] Ho detto p. 244 che gli scrittori greci
hanno ciascuno un vocabolarietto a parte, dal quale
2631 non escono mai o quasi mai, e nella totalità del quale ciascun d'essi si
distingue benissimo da ciascun altro, e ch'esso vocabolario, massime ne' più
antichi è molto ristretto, e che la lingua greca ricchissima in genere, non è
più che tanto ricca in veruno scrittore individuo; e tanto meno è ricca quanto
lo scrittore è più antico e classico, e quindi i più antichi e classici si
distinguono fra loro nelle parole e frasi più di quel che facciano parimente fra
loro i più moderni, che son più ricchi assai, ed abbracciano ciascuno una
maggior parte della lingua, onde debbono aver fra loro più di comune che gli
antichi non hanno fra loro medesimi, come che le parole e frasi di ciascuno
generalmente prese, sieno tutte ugualmente proprie della lingua.
[2633,1]
2633 Dalle suddette cose si può conoscere che l'immensa
ricchezza della lingua greca, non pregiudicava alla facilità di scriverla, e
quindi non s'opponeva alla sua universalità, non essendo necessaria più che
tanta ricchezza (o usata o conosciuta e posseduta) non solo per iscrivere e
parlar greco, ma eziandio per iscriverlo e parlarlo egregiamente; e bastando
poche radici per questo; poichè restavano liberi i composti all'arbitrio dello
scrittore, o quando anche non restassero liberi, infiniti composti e derivati
portava seco ciascuna radice, onde lo scrittore pratico di poche radici veniva
subito ad avere una lingua molto sufficiente a tutti i suoi bisogni. Il che
scemava infinitamente la difficoltà che si prova nelle lingue, perchè un
vocabolario sufficientissimo
2634 allo scrittore o
parlatore si riduceva sotto pochi elementi, e procedeva da pochi principii ossia
radici, e quindi era molto più facile ad impararlo ed impratichirsene, che se
esso senza essere niente maggiore, avesse contenuto tutta la lingua, ma fosse
proceduto da più numerose e diverse radici. Tutte queste circostanze siccome
quelle notate nel pensiero precedente non si trovavano nella lingua latina, che
meno ricca della greca, era però per la sua ricchezza più difficile a scrivere e
a parlare che la greca non fu, perchè la ricchezza (ancorchè minore) della
latina, bisognava averla tutta in contanti, a volere scrivere e parlar latino, e
massimamente a farlo bene. E l'orecchie latine erano delicatissime come le
francesi, circa il vero e
2635 proprio andamento {(e la purità)} della loro lingua, che rispetto alla
greca era liberissimo, cioè sommamente vario, ed in gran parte ad arbitrio.
(8. Ottobre. 1822.).
[2635,1] La lingua greca ch'è la più antica delle colte ben
conosciute, è anche fra tutte le lingue colte la più capace di significar l'idee
e gli oggetti più propriamente moderni cioè i più difficili a significarsi e di
supplire ai bisogni d'espressioni, prodotti dall'ampiezza, varietà e profondità
delle nozioni moderne. E il fatto stesso lo dimostra, ricorrendosi tutto dì alla
lingua greca ec. come ho detto altrove pp. 735-38
pp.
1843-45. (10. Ottobre. 1822.)
[2639,1] Ho detto altrove pp. 1806. sgg.
pp.
2500. sgg. che gran parte delle voci che in poesia si chiamano
eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori
dell'uso comune e familiare, nel quale già furono una volta (o furono certo
nell'uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente per essere antiche
rispetto
2640 alla moderna lingua, benchè non sieno
antiquate. E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto
ancora che per tal cagione, non potendo {i primi} poeti
o prosatori di niuna lingua, aver molte voci nè frasi antiche da usare ne' loro
scritti, e quindi mancando d'un'abbondantissima fonte d'eleganza, è convenuto
loro tenersi per lo più allo stile familiare, come familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci
dell'eleganza Virgiliana.
[2643,3] È bello a paragonare il luogo di Cic.
pro Archia
da me recato altrove p. 240
p.
2623
p.
2735, sulla ristrettezza geografica
2644
della lingua latina al suo tempo, col luogo di Plutarco sulla sua immensa propagazione a tempo di
Traiano, il qual luogo è portato dal
Perticari l. sop. cit. c. 8. princip. p.
88.
(28. Ottob. 1822.). {{V. anche il med. Pertic. ib.
{p. 89. e} 92-94.}}
[2648,1]
La
formation d'une langue est l'oeuvre des grands écrivains;
l'Italie en compte trop peu: plus de la
moitié de l'esprit et du coeur humain n'a pas encore passé sous la plume
des Italiens, et par conséquent dans leur langue.
*
Lettres sur l'Italie par
Dupaty en 1785. {let. 41.} Tome 1. à Gênes
1810. p. 185. Non solo dello spirito e del cuore umano, ma neppur la
metà delle cognizioni che sopra queste materie s'avevano al tempo di Dupaty, e molto meno di quelle che
s'hanno presentemente. (30. Nov. 1822.
Roma.).
[2649,1]
2649 Sopra i dialetti della lingua latina. Estratto da
un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un Viaggiatore
oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie di Roma t. 2. p.
58-70. (Genn. 1821.) "L'antica lingua di
questi popoli (Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di
riconoscere dalle inscrizioni raccolte dal Maffei (1.): ed è probabile che gli
originarj dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in
Italia, sieno una rimota cagione della
varietà de' linguaggi che vi si parlano presentemente. {#(1) Le lapidarie inscrizioni Latine
ritrovate nelle città subalpine d'Italia ci
fanno spesso consocere di quale provincial ne fossero gli autori.
Così la lettera W che è uno de' segni più caratteristici
dell'alfabeto oltramontano, si trova in quelle che appartengono alle
Colonie Galliche."}
*
p. 58.
[2655,2]
Quin adeo de
fin. I. 3. ausus est Cicero latinam quoque linguam dicere
locupletiorem quam graecam, qua de re saepe se disseruisse confirmat.
Sed contradicunt merito primum ipse Cicero
tusc. II. 15. et apud
Augustinum
contra acad. II. 26;
tum Lucretius I. 140. 831; Fronto
apud Gellium II.
26.
*
Maius ad Cic.
de repub. p. 67. not.
(18. Dic. 1822.).
[2657,1]
Quoties g est ante n, toties
memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum
divideretur
*
(nel fine o della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori
vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone
Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba
videntur?
*
Maius
ad Cic. de re publ. II. 19. p. 165. v.
7. (dove la pagina del cod. finisce in mag,
e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic. 1822.). {+Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti
questi codd. come p. e. in ispagna.}
{{V. p. 3762.}}
[2658,2]
Eademque
*
(mens aut ratio aut sapientia, ut supplet
Maius in notis et in addendis,
nam superiora in cod. desiderantur) cum accepisset homines inconditis vocibus incohatum
quiddam et confusum sonantis
*
(sonantes), incidit
*
(incídit) has et distinxit in partes;
et ut signa quaedam, sic verba rebus
inpressit, hominesque antea dissociatos
iucundissimo inter se sermonis vinclo conligavit. A simili etiam
mente, vocis qui videbantur infiniti soni, paucis notis inventis,
sunt omnes signati et expressi, quibus et conloquia cum absentibus
et indicia voluntatum, et monumenta rerum praeteritarum
tenerentur.
Accessit eo numerus,
*
(post
interventas scil. voces et litteras) res cum ad vitam necessaria,
tum
2659 una inmutabilis
et aeterna: quae prima inpulit etiam ut suspiceremus in caelum, nec
frustra siderum motus intueremur, di numerationibusque noctium ac
dierum
*
...(desunt reliqua). Cic.
De re publica, l. 3. c. 2.
Rom. 1822. p. 218-9.
(22. Dic. 1822).
[2661,2]
E pensatamente io
chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion
della lingua, ma dal più ordinario modo de' parlatori presenti.
Imperocchè ciò che fu figura in un tempo,
2662
non riman poi figura quando è sì accomunato dall'uso, che divien la più
trivial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi
dall'arbitrio degli uomini, tanto nell'introdursi, quanto
nell'alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori, come alcun
pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria
dell'Uso ha prescritte.
*
Trattato dello stile e del dialogo
del Padre Sforza Pallavicino
della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p.
22. (26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.)
[2662,2] Il Padre Sforza
Pallavicino nel Trattato dello Stile e del
Dialogo, Capo 27, intitolato Si stabilisce quali Autori
deono esser seguiti nelle materie scientifiche da quelli che
scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena
1819. pag. 175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta
preferenza agli
2663
scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora, in cui egli scriveva)
sopra quelli e quella del 300. (5. Gennaio 1823.).
[2663,1]
In ristretto
*
(in somma), la favella e la Scrittura sono
indirizzate a' coetanei, ed a' futuri, non a' defunti.
*
Pallavic. loc. sup. cit. pag.
181. fine. (5. Gen. 1823.).
[2664,2]
Transferenda tota dictio
est ad illa quae nescio cur, quum Graeci κόμματα et κῶλα nominent, nos
non recte incisa et membra dicamus. Neque enim esse possunt rebus ignotis nota
nomina; sed, quum verba aut suavitatis aut inopiae causa transferre
soleamus, in omnibus hoc fit artibus, ut, quum id appellandum sit quod,
propter rerum ignorationem ipsarum, nullum habuerit ante nomen,
necessitas cogat aut novum facere verbum, aut a simili mutuari.
*
Cic.
Orator, n. 209. (11. Gen.
1823.).
[2666,1]
2666 La prosa francese (nazione e lingua la più
impoetica fra le moderne, che sono le più impoetiche del mondo) è molto più
poetica della stessa prosa antica scritta nelle lingue le più poetiche
possibili. Lo stesso mancare affatto di linguaggio poetico distinto dal prosaico
fa che lo scrittor francese confonda quello ch'è proprio dell'uno con quel ch'è
proprio dell'altro, e che come il poeta francese scrive prosaicamente così il
prosatore scriva poeticamente, e che la lingua francese manchi non solo di
linguaggio e stile poetico distinto per rispetto al prosaico, ma anche di
linguaggio e stile veramente prosaico, e ben distinto e circoscritto e definito
per rispetto al poetico. Questa è l'una delle cagioni della poeticità della
prosa francese. Altre ancora se ne potranno addurre, ma fra queste, una che ha
del paradosso e pure è verissima. La prosa francese è poetica perchè la lingua
francese è poverissima. Quindi la necessità di metafore di metonimie di
catacresi di mille figure di dizione che rendono poetica la lingua della prosa,
e secondo il nostro gusto,
2667 gonfia, concitata ed
aliena da quella semplicità, riposatezza, calma, sicurezza ed equabilità e
gravità di passo che s'ammira nelle prose latina e greca, le più poetiche lingue
dell'occidente. P. e. non avendo i francesi una
parola che significhi unitamente il padre e la madre, (come noi, che diciamo i genitori), sono obbligati a dire spesso les auteurs de ses jours, des
jours de quelqu'un, de celui-là etc. Queste
tali frasi necessarie e forzate, obbligano poi lo scrittor prosaico francese a
formar loro un contorno conveniente, a seguire una forma di dire, uno stile,
dove queste frasi, figure ec. non disdicano, e quindi a innalzare il tuono della
sua prosa, e dargli un color poetico tanto nello stile quanto nella lingua: e
così la povertà della lingua francese rende poetica la sua prosa, e per le
figure che l'obbliga ad usare in cambio delle parole che le mancano, e per le
figure che queste medesime figure forzate richiedono intorno a se, e quasi
portano con se, e per lo stile e il linguaggio {e il
tuono} che queste figure forzate
2668
domandano per non disdire. (2. Feb. 1823.).
[2683,1]
Nè altro vuol dir il
parlar antico, che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa
sarebbe amar il parlar antico, non per altro che per voler più presto
parlare come si parlava, che come si parla.
*
Il medesimo, ivi, p.
64. (15. Marzo 1823.).
[2694,1]
2694 Formata una volta una lingua illustre, cioè una
lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde più
finchè la nazione a cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata
della civiltà di una nazione è la misura della durata della sua lingua illustre
e viceversa. E siccome una medesima nazione può avere più civiltà, cioè dopo
fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna
sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta,
decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di lingua
illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo piuttosto dire,
nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della nazione italiana.
Perchè niuna delle altre nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà
moderna e presente, e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile
(che si sappia) in antico, se non l'italiana. Così niun'altra nazione può
mostrare due lingue illustri da
2695 lei usate e
coltivate generalmente, (come può far l'italiana) se non in quanto la nostra
antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per
l'europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo
italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie,
le Spagne, la Numidia (che non
è più risorta a civiltà) ec.
[2700,1] La cagione per cui negli antichissimi scrittori
latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana,
che non se ne trova negli scrittori latini dell'aureo secolo, e tanto maggiore
quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non
v'è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea,
fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme
plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più
vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui
si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della
lingua plebea ch'è la sola ch'esista allora nella nazione, o che
2701 non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e
cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com'è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì
perchè allora i cortigiani ec. non hanno l'esempio e la coltura derivante dalle
Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto
diversamente dalla plebe. Ora l'unica lingua che possano seguire e prendere in
mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor
non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal
latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma
principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre
lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43.
pag. 430. (20. Maggio 1823).
[2705,1] Di alcune cagioni che anche ne' bassi tempi poterono
introdurre vocaboli e modi greci nel volgare o ne' volgari
d'Italia, vedi Perticari
Apologia di Dante, capo 39.
p. 386. (21. Maggio 1823.).
[2722,1]
2722
Delle lingue vive
non accade quello che delle lingue le quali più non si parlano. Queste,
a guisa di pianta che più
non vegeta, non possono ricevere accrescimento; e tutto quello, che a
lor riguardo si può fare da noi, si è di serbarle diligentemente nello
stato in cui sono; perciocchè in esse ogni alterazione tende a
corrompimento. Al contrario le lingue che sono
vive, vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in esse
le piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non
sono segnali certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e
vigoria. E però coloro, i quali non vorrebbon che i nostri
scritti avessero altro sapore che di Trecento, nocciono alla lingua,
perchè si sforzano di ridurla alla condizione di quelle che sono morte,
e, in quanto a loro sta, ne diseccano i verdi rami,
sicch'ella non possa, contro all'avviso d'Orazio, più vestirsi di
nuove foglie. Quest'autore vivea pure nel secol d'
2723 oro della lingua latina, e nel tempo in
cui essa era nel suo più florido stato: e tuttavia perch'ella era ancor
viva, egli pensava ch'essa potesse arricchirsi vie maggiormente e
ricevere nuove forme di favellare.
*
Nota dell'Abate Colombo alle Lezioni sulle Doti di una
colta favella
con una non più stampata sullo
stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo
autore
*
(cioè dell'Abate Colombo). Parma
per Giuseppe Paganino
1820. (edizione 2da delle tre prime Lezioni e delle altre operette,
fuorchè d'una). Lezione IV. Dello Stile che dee
usare oggidì un pulito Scrittore. pag. 96.
(antepenultima delle Lezioni). nota a.
(25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.).
[2723,1] I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di
arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch'essa è già perfetta. Ma lo stesso
contrasto facevano nei cinquecento quand'essa si stava perfezionando,
2724 anzi nel momento ch'ella cominciavasi a
perfezionare, come fece il Bembo, il
quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer
mai più, e 'l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio.
Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d'Orazio, cioè nel
secolo d'oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al
quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini
impotenti presto, anzi subito credono {e vogliono} che
sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel
tanto, più o manco, di buono ch'è stato fatto, per dispensarsi
dall'oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch'essi non si sentono capaci di farlo.
(25. Maggio 1823.). {{E come pochissimo ci
vuole a superare l'abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio,
e pochissima bontà basta a fare ch'essi la credano insuperabile, qual è
veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che
2725 al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il
mediocre pare ottimo, e l'ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al
contrario. (27. Maggio. 1823.).}}
[2725,1] Per quanto voglia farsi, non si speri mai che le
opere degli scienziati si scrivano in bella lingua, elegantemente e in buono
stile {(con arte di stile.)}
Chiunque si è veramente formato un buono stile, sa che immensa fatica gli è
costato l'acquisto di quest'abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo
studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò,
quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi
inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima
assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello
scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e
finalmente l'arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta
difficoltà
2726 è giunto a riconoscere e sentire ne'
grandi maestri, {{arte}} difficilissima ad acquistare, e
che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensì
la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza
l'arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la
loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi,
come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far questo
si richiede un'arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l'uomo, e
tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli scienziati si
assoggettino a questi studi e fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo
tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro
assolutamente il tempo necessario per un'arte che domanda più tempo d'ogni
altra? Oltre di ciò i più perfetti possessori di quest'arte, dopo le
2727 lunghissime fatiche spese per acquistarla, non
sono mai padroni di metterla in opera senza che lo stesso adoperarla riesca loro
faticosissimo e lunghissimo, perchè certo neppure i grandi maestri scrivono bene
senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime
ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale
è tanto indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l'arte di bene
scrivere?
[2771,3] Come la lingua latina abbia conservato l'antichità
più della greca, si dimostra ancora con queste considerazioni. 1. La lingua
latina conserva nell'uso comune de' suoi buoni tempi e de' seguenti (non solo
degli anteriori) i temi, o altre voci regolari di verbi che tra' greci, avendo
le stesse radici che in latino, ma essendo però difettivi o anomali, non
conservano i loro primi temi o quelle tali voci regolari, o non le usano se non
di rarissimo,
2772 o talmente ch'essi temi ed esse voci
non si trovano se non presso gli antichissimi autori, o presso i poeti soli, i
quali in ciascuna lingua che ha favella poetica distinta, conservano sempre gran
parte d'antichità per le ragioni che ho detto altrove pp. 2639. sgg. Dovechè la lingua latina
usa essi temi ed esse voci universalmente sì nella prosa come nel verso, ed
usale ne' secoli in ch'ella era già formata e piena, ed usale eziandio non come
rare, nè come quasi licenze o arcaismi, ma tutto dì e regolarmente e come temi e
voci proprie e debite di quei verbi a' quali appartengono. Per esempio il verbo
do, si è il tema di δίδωμι (e nota che questo
verbo in greco non è neppure anomalo nè difettivo, {+ma l'uso l'ha cangiato interamente dal suo primo stato,
a differenza del verbo latino do.).} Il qual
tema conservasi nel latino in tutti i composti d'esso verbo, come {credo, edo, trado,}
addo, {subdo,
prodo, vendo, perdo,}
indo, condo, reddo, dedo, {ec.}
{+(ne' quali per istraordinaria anomalia è mutata la
coniugazione di do dalla prima nella terza:
non così in circumdo as, venundo as, pessundo as
ec.).} Ma in nessun composto del verbo δίδωμι comparisce nel
greco il suo vero tema. ῎Eδω voce e tema di verbo anomalo o difettivo, non si
troverà,
2773 credo, in greco se non presso i poeti, ma
tra' latini edo e il suo composto comedo sono voci e verbi di tutti i secoli e di tutte le scritture.
Eo ἔω tema da cui nascono in greco tanti verbi,
non si trova nè fra' poeti greci nè fra' prosatori ma egli è comune e proprio ai
latini, e ne nasce un verbo usitatissimo, co' suoi composti, che tutti
conservano il tema intatto {e conservano altresì tutta la sua
coniugazione perfettamente,}
redeo, abeo, exeo, ineo, subeo, coeo,
{adeo, circumeo, pereo, intereo, obeo, prodeo,
introeo, veneo, prętereo, transeo,} ec. Nessun
composto greco conserva il tema ἔω. Lateo è il
medesimo che λήϑω, voce, {e} tempo ben raro negli
scrittori greci, e verbo difettivo in greco, ma {tema}
comune e usitatissimo, e verbo quasi perfetto e regolare in latino. {Il tema λήϑω trovasi espressamente in Senofon.
Simpos. c. 4. §. 48.} I Dori e gli
Eoli dicevano probabilmente λάϑω. Patior che sta in
luogo dell'attivo patio (il quale pur si trova
nell'antica latinità) è più vicino al πήϑω, (Dor. ed Eol. πάϑω) inusitato in
greco, che non è l'usitato πάσχω. {Composti, per-petior ec.} Il verbo fero, s'io non m'inganno, ha più voci in latino che in
greco. Del tema sto equivalente all'inusitato στάω, altrove pp. 2142. sgg.
{+Il tema στάω non si trova, ch'io sappia in greco. Il
verbo si trova, cioè ἔστην ἕστηκα στήσας, στάς ec. ma è difettivo. Il
verbo sto è intero.}
[2781,1]
2781 Chi può saper le varie vicende dei commerci
antichissimi fra le lingue latina e greca, dopo che l'una e l'altra nacquero
dalla stessa madre; quando la storia delle due nazioni comincia per noi così
tardi, e massime la storia veridica, e certa; e la storia non alterata dalle
favole ambiziose di cui è tutta piena l'antica istoria greca? Chi può con
certezza negare che in quel lunghissimo tratto di tempi oscurissimi non vi
fossero delle epoche nelle quali la lingua greca si arricchisse delle spoglie
della sorella, ed altre, o successivamente o anche allo stesso tempo, in cui la
lingua latina si arricchisse, come certo fece, delle spoglie della greca, ed
anche ricevesse sotto nuova forma alcune di quelle medesime voci ch'erano nate
da lei e da lei passate nella lingua greca, o alcuni derivati di quelle? Come
sarebbe nella nostra supposizione; cioè che sto, nato
nella lingua latina dal participio di sum, passato in
grecia sotto forma di στάω,
2782 ridotto quivi per paragoge alla forma di ἱστάω, e per contrazione
a quella d'ἱστῶ, {e mutata significazione per
affinità,} ritornasse nel latino colla forma di sisto, il qual verbo verrebbe così ad essere originalmente il medesimo
che sto.
[2793,2] Gli scrittori greci de' secoli medii e bassi, cioè
dal terzo inclusive in poi, sono pieni d'improprietà di lingua (com'è quella di
Coricio sofista del sesto secolo nell'Orazione εἰς Σοῦμμον στρατηλάτην in Summum ducem, §. 11. ap. Fabric.
B. G. edit. vet. vol. 8. p. 869. lib. 5. cap. 31. di
usare la voce δικαστής in vece di κριτής o di μάρτυς), pieni di frasi strane
quanto alla lingua, pieni di solecismi, e di mille contravvenzioni alle antiche
regole della sintassi e grammatica greca, ma non hanno barbarismi. La loro
lingua per tutto ciò che appartiene all'eleganza, è diversissima da quella degli
antichi scrittori: ma per tutto il resto è la stessa. Si può dir ch'essi
ignorino il buon uso della lingua che scrivono, che non la sappiano adoperare;
ma la lingua che scrivono è quella degli antichi: quella che gli antichi
scrissero
2794 bene, essi la scrivono male. Molte {loro} parole che non si trovano negli antichi, sono però
cavate dal fondo della lingua greca o per derivazione o per composizione ec.;
rade volte ripugnano all'indole d'essa lingua, e per esser chiamate buone,
greche, pure e di buona lega, non manca loro se non la sanzione dell'antichità.
In somma il grecismo di questi scrittori è per lo più cattivo o pessimo, ma la
loro lingua è pura. Le voci e frasi poetiche versate a due mani nelle prose, le
voci o frasi antiquate, le metafore o strane affatto e barbare, o poetiche, non
offendono la purità della lingua, ed appartengono piuttosto al conto dello
stile. Il periodo di questi scrittori, il giro della dicitura, per lo più rotto,
slegato, saltellante, ineguale, ovvero intralciato, duro, aspro, monotono, e
lontanissimo dalla semplicità e dalla maestà dell'antica elocuzione greca,
appartiene certo in gran parte alla lingua, al cui genio è contrarissima la
struttura dell'orazione di quei bassi scrittori, ma non nuoce alla purità. Il
numero e l'armonia è diversissimo
2795 in questi
scrittori da quel ch'egli è negli antichi, ma ciò non solo per la negligenza di
quelli, bensì ancora per la diversa pronunzia introdotta appoco appoco nella
lingua greca, massimamente estendendosi ella a tanti e sì diversi e tra se
lontani paesi, e subentrando a sì diverse favelle, o prendendo luogo accanto ad
esse e in compagnia di esse, o in mezzo ad esse: giacchè bisogna considerare che
la più parte degli scrittori greci dal 3. secolo in poi, non furono greci di
nazione, o certo non furono greci di paese, ma Asiatici ec., e greci solamente
di lingua, e questo ancora non sempre dalla nascita, ma per istudio, come p. e.
Porfirio, della cui lingua patria,
vedi la Vita di
Plotino, capo 17. e l'Holstenio
de Vita et scriptis Porphyrii cap.
2.
(17. Giugno. 1823.). {V. p. 2827.}
[2811,2]
Institutum autem
eius
*
(Moeridis in ᾽Aττικιστῇ) est annotare
et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis
dialectis, maxime illa κοινῇ utebantur: interdum notat et κοινὸν vulgi,
illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam ἑλληνικῷ, ut in
ἐξίλλειν, εὐϕήμει, κάϑησο, λέμμα, οἰδίπουν, οἶσε, σχέατον.
*
Fabric.
B. G. edit. vet. l. 5. c. 38. §. 9. num.
157. vol. 9 p. 420. (23. Giugno. 1823.).
[2829,1] Ho detto altrove p. 999 che il greco
moderno è senza paragone più simile al greco antico che non l'italiano al
latino. Fra le altre moltissime particolarità basti osservare che una delle cose
che massimamente distinguono le lingue moderne dalle antiche, e fra queste
l'italiana, spagnuola ec. dalla latina, si è che le moderne mancano dei casi de'
nomi; il che
2830 basterebbe quasi per se solo a
diversificare il genio e lo spirito delle nostre lingue, da quel delle antiche.
Ora il greco moderno conserva gli {stessi} casi
dell'antico. Conserva ancora l'uso della composizione fatta coi vocaboli
semplici e colle preposizioni e particelle. Ma già non v'è bisogno d'altra prova
che di gittar l'occhio sopra una pagina di greco vernacolo correttamente
scritto, per conoscere la visibilissima e, direi quasi, totale somiglianza
ch'esso ha coll'antico, e quanto ella sia maggiore, anzi di tutt'altro genere
che non è quella che passa tra l'italiano e il latino, giacchè questa consiste
principalmente nel materiale de' vocaboli e delle radici, e quella, oltre di
ciò, in grandissima parte dell'indole e dello spirito. Ho detto, correttamente
scritto, perchè certo fra il greco {moderno} scritto o
parlato da un ignorante e quello scritto da un uomo colto, ci corre tanto
divario quanto fra questo e il greco antico. Vedi il contratto in greco moderno
barbaro pubblicato da Chateaubriand nell'Itinerario. Ma ciò è naturale, e succede in tutte le
lingue e nazioni, e certo il greco antico parlato, anche dai non plebei, e
scritto
2831 dagl'ignoranti era ben diverso da quello
che scrivevano i dotti, come il latino rustico, dall'illustre. Vedi la pag. 2811. Il greco moderno colto,
giacchè {ed} ogni lingua può esser colta, e niuna
lingua non colta può valer nulla, potrebbe certo divenire una lingua bella,
efficace, ricca, potente, e forse, per la gran parte che conserva sì delle
ricchezze come delle qualità e della natura dell'antico, una lingua superiore o
a tutte o a molte delle moderne colte e formate. (27. Giugno.
1823.).
[2845,1] Vantano che la lingua tedesca è di tale e tanta
capacità e potenza, che non solo può, sempre che vuole, imitare lo stile e la
maniera di parlare o di scrivere usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia
autore, in qualsivoglia possibile genere di discorso o di scrittura; non solo
può imitare qualsivoglia lingua; ma può effettivamente trasformarsi in
qualsivoglia lingua. Mi spiego. I tedeschi hanno traduzioni dal greco, dal
latino, dall'italiano, dall'inglese, dal francese, {dallo
spagnuolo,} d'Omero, dell'Ariosto, di Shakespeare, di Lope, di Calderon ec. le
quali non solamente conservano (secondo che si dice) il carattere dell'autore e
del suo stile tutto intero, non solamente imitano, esprimono, rappresentano il
genio e l'indole della rispettiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola
per parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni, all'ordine preciso
2846 delle parole, {al numero
delle medesime, al metro, {al numero e} al ritmo di
ciascun verso, membro di periodo,} all'armonia {imitativa,} alle cadenze, a tutte le possibili qualità estrinseche
come intrinseche, che si ritrovano nell'originale; di cui per conseguenza elle
non sono imitazioni, ma copie così compagne com'è la copia d'un quadro di tela
fatta in tavola, o d'una pittura a fresco fatta a olio, o la copia d'una pittura
fatta in mosaico, o tutt'al più in rame {inciso,} colle
medesimissime dimensioni del quadro.
[2866,1] Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha, per
così dire, il suo Vocabolarietto proprio pp. 244-45
pp. 2630-32
pp. 2716-17. Ciò vale non solamente in ordine all'usare ciascun
d'essi sempre o quasi sempre quelle tali parole per esprimere quelle tali cose,
laddove gli altri altre n'usano, o in ordine ai loro modi e frasi familiari e
consuete, ma eziandio in ordine al significato delle stesse parole o frasi che
anche gli altri usano, o che tutti usano. Perocchè chi sottilmente attende e
guarda negli scrittori greci, vedrà che le stesse parole e frasi presso un
autore hanno un senso, e presso un altro un altro, e ciò non solamente
trattandosi di autori {vissuti in} diverse epoche, il
che non sarebbe strano, ma eziandio di autori contemporanei, e compatriotti
ancora, come p. e. di Senofonte e
2867
Platone, i quali furono di più
condiscepoli, e trattarono in parte le stesse materie, e la stessa Socratica filosofia.
Dico che il significato delle parole o frasi in ciascuno autore è diverso: ora
più ora meno, secondo i termini della comparazione, e secondo la qualità d'esse
parole; e per lo più la differenza è tale che i poco accorti ed esercitati non
la veggono, ma ella pur v'è, benchè picciolissima. Un autore adoprerà sempre una
parola nel significato proprio, e non mai ne' metaforici. Un altro in un
significato simile al proprio, o forse proprio ancor esso, e non mai negli altri
sensi. Un altro l'adoprerà in un senso traslato, ma con tanta costanza, che
occorrendo di esprimere quella tal cosa, non adoprerà mai altra voce che quella,
e adoprando questa voce, non la piglierà mai in altro senso, onde si può dire
che presso lui questo significato è il proprio di quella voce: {+(come accade che i sensi metaforici de'
vocaboli pigliano spesse volte assolutamente il luogo del proprio, che si
dimentica)} e questo caso è molto frequente. Un altro adoprerà quella
voce colla stessa costanza, o con poco manco, in
2868
un altro senso traslato, più o meno diverso, e talvolta vicinissimo {e similissimo} ma che pur non è quel medesimo. E tutta
questa varietà (con altre molte differenze simili a queste) si troverà nell'uso
di uno stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso avverbio in autori
contemporanei e compatriotti. Alla qual varietà, come ben sanno i dotti in
queste materie, è da por mente assai, e da notar sempre in ciascuno autore,
massime ne' classici, qual è il preciso senso in cui egli suole o sempre o per
lo più adoperare ciascuna parola o frase. Trovato e notato il quale, si rende
facile la intelligenza dell'autore, e se ne penetra la proprietà e
l'intendimento vero delle espressioni, e si spiegano molti suoi passi che senza
la cognizione del significato da lui solito d'attribuirsi a certe parole, non
s'intenderebbero; com'è avvenuto a molti interpreti e grammatici ec. che
spiegando {{questi passi}} secondo l'uso ordinario di
quelle tali parole o frasi, e non considerandole in quello particolare ch'esse
sogliono aver presso quello scrittore, o non hanno saputo
2869 strigarsi o si sono ingannati. E così accade anche ai ben dotti,
che però non abbiano pratica di quel tale autore, e vi sieno principianti, o che
ne leggano qualche passo spezzato. Certo non prima si arriva a pienamente e
propriamente intendere qualunque autor greco che si abbia presa pratica del suo
particolar Vocabolario, e de' significati di questo: e tal pratica è necessario
di farla in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo lungo intervallo a
leggere: benchè in alcuni costa più in altri meno, e in certi costa tanto, che
solo i lungamente esercitati e familiarizzati colla lezione e studio di quel
tale autore sono capaci di bene intenderne e spiegarne la proprietà delle voci e
frasi, e della espressione {sì} generalmente, sì in
ciascun passo. Insomma questi solo conoscono la sua grecità, la quale, {si può
dire,} in ciascuno autor {greco,} più o meno
è diversa. (1. Luglio 1823.).
[2869,1] Non è maraviglia che la scrittura francese sia così
diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto pp. 2462-63 , a tutte le ortografie delle
lingue figlie della latina, ed anche, almeno in parte, della inglese e della
tedesca, servì
2870 di modello e di guida la scrittura
latina, che apparteneva all'unica letteratura che si conoscesse quando prima si
cominciarono a formare e regolare le moderne ortografie, anzi era altresì quasi
l'unica scrittura nota, perchè le lingue moderne poco fino allora s'erano
scritte, e quando conveniva scrivere, s'era per lo più scritto in latino, benchè
barbaro. Ora la pronunzia francese, è tra le pronunzie delle lingue nate dalla
latina, quella che più s'è discostata dal latino. Ond'è che la lingua francese è
altresì fra queste lingue la più diversa dalla madre, così di spirito, di
costruzioni, di maniere, di frasi, {e di assai
vocaboli,} come di suoni. {#(1.) V. p.
2989.} Egli è certissimo che da principio la
lingua francese si pronunziava nel modo stesso che si scriveva, ossia la
pronunzia delle sillabe nelle parole francesi corrispondeva al valore che
avevano nell'alfabeto le lettere con cui esse parole si scrivevano. I versi che
si trovano ancora de' poeti provenzali, pronunziavansi indubitatamente in questo
modo {o con poca differenza,} come ne fa fede la loro
misura, le loro rime ec. che si perderebbero l'une e l'altra pronunziando quei
versi altramente, o alla moderna. Ma le irruzioni e i commerci de'
settentrionali
2871 avendo cangiata la pronunzia
francese, e diradata di vocali e inspessita di consonanti e resa più aspra, e
così diversificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo della francese,
mutata eziandio la provenzale, (v. Perticari
Apologia di Dante cap. 11.
principio, p. 106. fine - 108. principio, e cap. 12. principio, p. 111. 112.
e ivi fine, p. 119. e Capo 16. fine, p. 158.) la lingua francese si
allontanò sommamente dalla latina, sì per li nuovi vocaboli e forme che acquistò
da popoli che non avevano mai parlato latino, sì per li suoni di cui vestì, e
con cui pronunziò quegli stessi vocaboli tolti dal latino ch'ella aveva, e che
tuttora conserva. Quindi per due ragioni la pronunzia francese dovette riuscir
diversa dalla scrittura. Primo, per la sopraddetta, cioè perchè non avendovi
scrittura nota, o almeno scrittura appartenente a lingua letterata e formata,
fuori della latina, l'ortografia francese dovette pur prendere, come l'altre,
per suo modello la latina, ed essendo già la pronunzia francese fatta
diversissima dalla latina, e certo assai più diversa che non erano o non furono
poi la spagnuola e l'italiana,
2872 perciò la scrittura
francese dovette molto più differire dalla pronunzia, che non differiscono la
spagnuola e l'italiana che presero e usarono lo stesso modello. Secondo: questa
diversificazione e settentrionalizzazione di pronunzia, avendo avuto luogo, o
acquistato forza ed estensione in Francia piuttosto
tardi, e di più trovandosi che i poeti di cui la Provenza
abbondò, scrivevano il provenzale, stato già tutt'uno col francese, ed allora
tuttavia analogo, ma più latino, (v. Perticari l. c. p. 107. principio) lo scrivevano, dico, in
modo simile ed analogo al latino; ed essendo così vero come naturale che i primi
che scrissero qualche cosa in francese, riguardarono ai provenzali, e se li
proposero per guide, come quelli ch'erano in quei tempi i più dotti {forse} della Francia, ed avevano
contribuito a spargere in essa il gusto della poesia volgare e dello scrivere in
volgare; da tutto questo ne seguì che la scrittura francese si accostò al
latino, come ci si accostava e la scrittura pronunzia provenzale; ci si accostò
dico, non ostante che la pronunzia francese ogni dì più se ne scostasse, con che
si venne anche a scostare dalla scrittura.
2873
Perciocchè veramente si può dire che la pronunzia francese da se, e movendosi
essa, si allontanò {{e divise}} dalla scrittura,
piuttosto che la scrittura dalla pronunzia. Benchè veramente sia debito de'
buoni e filosofi ortografi di far che la scrittura in qualunque modo tenga
sempre dietro alla universale pronunzia, regolata, o riconosciuta per regolare;
e non far che la scrittura stia ferma, e lasci andare questa tal pronunzia al suo viaggio, senza darsene alcun
pensiero. Ma questi discorsi non si potevano nè fare nè seguire in quei primi e
confusi tempi e ignoranti, nè dopo fatti, sono stati effettuabili, avendo preso
piede l'usanza contraria in modo che non si potea più scacciare nè mutare;
abbisognando ella di troppe e troppe grandi ed essenziali mutazioni, non di
poche e lievi e quasi accidentali come ne abbisognò e ne ricevette l'usanza
italiana.
[2876,2] Dico altrove pp. 740. sgg.
che l'uso di crear giudiziosamente e parcamente nuovi composti, fu mantenuto
dagli autori latini, e massime da' poeti, non solo fino alla intera formazione
della lingua e della letteratura, ma nello stesso secolo d'oro della latinità, e
nel tempo che immediatamente gli succedette. Di quest'uso parla Macrobio
2877
Saturn. VI.
5. mostrando che alcuni epiteti composti che si credevano fatti da
Virgilio sono di fabbrica più
antica. Segno qui alcuni composti {latini} de' quali
ch'io sappia non si trova esempio negli autori anteriori al secolo aureo. E
saranno tutti composti di due nomi, l'uno sostantivo e l'altro addiettivo, o
tutti e due sostantivi ec. {+o d'un nome
e d'un verbo o participio o verbale, ec.}
{che sono i composti più rari}; lasciando stare i nomi
o verbi ec. composti con proposizioni[preposizioni] o particelle, de' quali si potrebbero addurre al caso
nostro esempi in troppa abbondanza. Alipes, aliger,
armifer, armipotens, armisonus, aeripes, aerisononus[aerisonus], aerifer, aerifodina, aequaevus,
aequidistans presso Frontino
ed altri, algificus presso Gellio, aequilatio[aequilatatio]
presso Vitruvio, aequilateralis presso
Censorino, aequilaterus presso Marziano
Capella, aequilibris ec., aequinoctium, della qual voce vedi Festo appo il Forcellini in aequidiale, aequipedus ed aequipollens presso Apuleio, aequipondium presso Vitruvio,
aequicrurius presso Marziano Capella, alticinctus,
altitonans, altitonus, altivolus presso Plinio il vecchio, {+anguitenens, aegisonus,}
auricornus, aurifer, aurifex, aurifodina presso Plinio il vecchio, aurigena, auriger, auripigmentum presso Plinio e Vitruvio,
2878
auriscalpium presso Marziale e Scribonio, bijugus e bijugis (ma qui
c'entra un avverbio) e altri tali composti con bis,
equifĕrus ed equisētum
presso Plinio il vecchio, {+2. fontigenę di
Marziano, ignigena, ignipotens, ignipes, gemellipara,}
mellifer, mellificium, mellificus presso Columella, mellifico e melligenus presso Plinio il
vecchio, nidifico presso il medesimo e Columella, nidificium presso Apuleio,
nidificus presso Seneca tragico, noctifer e simili, nubifer, {+3.
nubifugus di Columella, floriparus
d'Ausonio, securifer, securiger,}
nubivagus presso Silio, nubigena (in proposito del quale è
da notare che Macrobio nel citato
luogo, che merita d'esser veduto, volendo provare come molti epiteti creduti
fatti da Virgilio sono più antichi, recita quel dell'Eneide 8. 293. Tu nubigenas, invicte,
bimembres,
*
e mostra che bimembris è di Cornificio,
ma di nubigena non dice niente, sicchè pare che lo
conceda per moderno, e veramente nel Forcellini non se ne trova esempio se non d'autori posteriori a Virgilio, il quale appresso il medesimo
Forcell. in questa voce non è
citato), {+1. penatiger d'Ovidio,}
solivagus presso il Forcellini, i cui esempi son tolti da Cicerone, e presso il med. Cic.,
de republ. I. 25. p. 70. ed.
Rom. 1822.; ed altri tali moltissimi.
(2. Luglio 1823.).
[2906,2] In tutte le lingue tanto gran parte dello stile
appartiene ad essa lingua, che in veruno scrittore l'uno senza l'altra non si
può considerare. La magnificenza, la forza, la nobiltà, l'eleganza, la grazia,
la varietà, {la semplicità, la
naturalezza.} tutte o quasi tutte le qualità dello stile, sono così
legate alle corrispondenti qualità della
2907
{{lingua,}} che nel considerarle in qualsivoglia
scrittura è ben difficile il conoscere e distinguere e determinare quanta e qual
parte di esse (e così delle qualità contrarie) sia propria del solo stile, e
quanta e quale della sola lingua; o vogliamo piuttosto dire, quanta e qual parte
spetti e derivi dai soli sentimenti, e quanta e quale dalle sole parole; giacchè
rigorosamente parlando, l'idea dello stile abbraccia {così} quello che spetta ai sentimenti come ciò che appartiene ai
vocaboli. Ma tanta è la forza e l'autorità delle voci nello stile, che mutate
quelle, o le loro forme, il loro ordine ec. tutte o ciascuna delle predette
qualità si mutano, o si perdono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto,
cangia natura in modo che più non è quello nè si riconosce. {+1. Veggasi la p. 3397-9.}
[2948,1] Quanto mirabile sia stata l'invenzione
dell'alfabeto, oltre tutti gli altri rispetti e modi, si può anche per questa
via facilmente considerare. È cosa osservata che l'uomo non pensa se non
parlando fra se, e col mezzo di una lingua; che le idee sono attaccate alle
parole; che quasi niuna idea sarebbe {o è} stabile e
chiara se l'uomo non avesse, o quando ei non ha, la parola da poterla esprimere
non meno a se stesso che agli altri, e che insomma l'uomo non concepisce quasi
idea chiara e durevole se non per mezzo della parola corrispondente, nè arriva
mai a perfettamente e distintamente concepire un'idea, {anzi
neppure a} determinarla nella sua mente in modo ch'ella sia divisa
dall'altre, e divenga idea, oscura o chiara che sia, nè a fissarla in modo ch'ei
possa richiamarla, riprenderla, raffigurarla nella sua mente e seco stesso
quando che sia; non arriva, dico, a far questo mai, finch'egli non
2949 ha trovato il vocabolo con cui possa significar
questa idea, quasi legandola e incastonandola; o sia vocabolo nuovo, {o nuovamente applicato,} se l'idea è nuova, o s'egli non
conosce la parola con cui gli altri la esprimono, o sia questo medesimo vocabolo
che gli altri usano a significarla.
[3017,1] Come la lingua sascrita prodigiosamente ricca,
tragga e formi la sua ricchezza da sole pochissime radici, col mezzo del
grand'uso ch'ella fa della composizione e derivazione de' vocaboli, vedi l'Encyclop. méthodique, Grammaire et
littérature, article
Samskret, particolarmente il passo
3018 di M. Dow.
[3021,1] Alle molte cose da me dette altrove pp. 244
pp.
2004-205
pp. 2631-35 per mostrare come la lingua greca non ha bisogno che di
poche radici per essere ricchissima, stante l'infinito uso ch'ella fa delle
derivazioni e composizioni ec., e com'ella moltiplichi in infinito i suoi
vocaboli primitivi, ec. aggiungi la voce media ch'ella ha, e il bellissimo uso
ch'ella fa delle
3022 voci passive de' suoi verbi.
Perocchè di moltissimi verbi {{greci}} si può dire che
ciascuno di essi non è uno, ma tre, e serve per tre; avendo l'attivo, il medio,
e il passivo de' medesimi, ciascuno un significato diverso proprio, oltre ai
metaforici che ha per ciascuno di loro, e questi anche diversi, cioè l'attivo
diversi dal medio ec. O vogliamo dire che ciascuno di tali verbi ha tre ben
distinti significati propri, oltre ai metaforici. Nè questi significati si
possono confondere insieme, perocchè ciascuno di loro corrisponde a una diversa
e distinta inflessione. Onde non si accumulano i significati in una stessa
parola, e non ne segue l'oscurità e ambiguità, nè la povertà e uniformità che da
tale accumulamento deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre, non sono in
sostanza che un verbo, e non hanno che un tema. L'uso che i latini fanno del
passivo non è paragonabile a quello che ne fanno i greci (oltre che il passivo
latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran parte dell'ausiliare sum). Appresso i quali il passivo
3023 ha sovente una significazione propria attiva o neutra, diversa
però da quella dell'attivo, e da quella del medio {ec.}
ec. (24. Luglio. 1823.)
[3024,2]
Alla p. 2828.
fine. Notate che anche la vera pronunzia e la vera armonia della
lingua latina è da gran tempo e perduta e ignota. Contuttociò, quantunque sia
certissimo che questo rende assai difficile ai moderni di scrivere secondo la
vera indole della lingua, del giro, del periodo, della costruzione latina ec.,
nondimeno, siccome la lingua latina è morta, così lo scrittore che oggi vuole
scrivere in
3025 latino (e così quelli che scrissero in
latino dal 300. in poi) può trascurare affatto la pronunzia moderna, può anche
fino a un certo segno dimenticarsela, può astrarre affatto dall'armonia, e non
considerando negli antichi scrittori se non le pure costruzioni, i puri periodi
ec. indipendentemente sì dal ritmo che ne risultava sì da quello che oggi ne
risulta, seguirli e imitarli ciecamente tali quali sono essi, non facendo caso
della moderna pronunzia. Ma la lingua greca era ancor viva, benchè la pronunzia
fosse cambiata, e agli scrittori non era nè facile il dimenticare e astergersi
dagli orecchi il suono quotidiano e corrente della loro propria favella, nè
volendo ancora seguire (come molti vollero) strettamente e imitare esattamente
gli antichi, era loro possibile negare affatto ai loro periodi un numero che
fosse sentito dall'universale {{de' greci a}} quel
tempo. Poichè questi periodi avevano pure ad esser letti e pronunziati da
nazionali che quantunque non pronunziassero come una volta, intendevano però e
parlavano tuttavia quella lingua, come
3026 materna.
Onde non era quasi possibile dare {nelle scritture}
alla lingua, ch'era pur nazionale e volgare, un ritmo al tutto, si può dir,
forestiero, e ignoto a tutti, fino allo stesso scrittore; ch'è quanto dire non
darle in somma alcun ritmo, (24. Luglio. 1823.) cioè niun ritmo che
alla nazione a cui si scriveva, nè pure allo stesso scrittore, riuscisse tale.
(24. Luglio 1823.).
[3066,1] Che la lingua italiana mediante la letteratura sia
stata per più secoli divulgatissima in europa, e più
divulgata che niun'altra moderna a quei tempi, o certo per più lungo spazio
(perchè la lingua spagnuola per un certo tempo lo fu forse altrettanto, e in
italia nel 600 trovo stampate le
Novelle di Cervantes
in ispagnuolo, mentre oggi in tanta diffusione della lingua francese, che niuno
è che non la intenda, è ben difficile che tra noi si ristampi un libro francese
di letteratura o divertimento in lingua francese), raccogliesi da parecchi
luoghi e notizie da me segnate qua e là p. 242
pp. 1581-83, e da molte altre che si possono facilmente raccorre.
Vedi in particolare
Andrès, Stor. della letterat. parte
2. l. 1. poesia inglese, ed. Ven. del Loschi, t. 4. p. 116. 117.
119., la Vita di Milton, l'Orazione di Alberto Lollio in lode della lingua toscana, nelle
prose
fiorentine, part. 2. vol. 6. ed. Ven.
1730-43. p. 38-39, dov'è un passo molto interessante a questo
proposito. Ma si noti che in altre edizioni come in quella
3067 della Raccolta di prose ad uso delle regie
scuole, ed. 3.a Torino, 1753. p. 309. questo
passo, siccome tutta l'orazione, è notabilissimamente mutato; e
veggasi la prefazione al citato vol. delle
prose fior. p. X-XI.
{#1. Veggasi ancora Speroni Oraz. in morte del Bembo nelle Orazioni stampate in
Ven. 1596. p. 44-5.}
La
Canzone de' Gigli del Caro, mandata in Francia, e fatta
apposta per colà, come anche il Commento alla medesima secondo che
dice il Caro in una delle sue lettere al Varchi, il conto fattone in
Francia ec. (v. la Vita del Caro); la
Canzone del Filicaia per la liberazione di
Vienna, mandata in
Germania, e credo anche in
Polonia, e colà molto lodata, come si vede nelle lettere del Redi; {#2. V. p.
3816.}
i poemi dell'Alamanni fatti in
Francia ad istanza di quei principi ec. e colà
stampati (v. Mazzucchelli, Vita
dell'Alamanni), siccome molti altri libri italiani
originali o tradotti si pubblicavano allora o si ristampavano fuor
d'Italia, nella quale certo niun libro francese,
inglese, tedesco si pubblicava o ristampava originale, e ben pochissimi tradotti
(francesi o spagnuoli); tutte queste cose, e cento altre simili {notizie e indizi} di cui son pieni
3068 i libri del 500, del 600, e anche de' principii del 700,
dimostrano quanto la lingua italiana fosse divulgata. Nondimeno ella ha lasciato
ben poche o niuna parola agli stranieri (eccetto alcune tecniche, militari, di
belle arti ec. che spettano ad altro discorso) mentre la lingua francese tanti
vocaboli e frasi e modi e forme ha comunicato e comunica a tutte le lingue colte
d'europa, e in esse le {ha}
radicate e naturalizzate per sempre, e continuamente ne radica e naturalizza.
Segno che la letteratura è debol fonte e cagione e soggetto di universalità per
una lingua, perocchè una lingua universale per la sola letteratura (e per questo
lato fu veramente universale l'italiana a que' tempi, quanto mai lo sia stato
alcun'altra fra le nazioni civili) non rende διγλώττους le nazioni in ch'ella si spande, e non è mai se non materia
di studio e di erudizione (παιδείας). Quindi poco profonde radici mettono
nell'altre lingue le sue parole: e terminata l'influenza della sua letteratura
3069 termina la sua universalità (non così,
terminata l'influenza della nazion francese è terminata nè terminerà
l'universalità della sua lingua, nè così della greca ec.), e si dimenticano e
disusano ben presto quelle parole e modi che lo studio e l'imitazione della sua
letteratura aveva forse introdotto nelle letterature straniere, ma non più oltre
che nelle letterature. Quando in Francia a tempo di Caterina de' Medici, la nostra lingua
si divulgò per altro che per la letteratura, allora l'italianismo nel francese
non appartenne alla letteratura sola, e in questa medesima {eziandio} fu maggiore assai che negli altri tempi o circostanze,
onde, non so qual degli Stefani,
scrisse quel dialogo satirico del quale ho detto altrove più volte.
[3070,1]
Benedetto Buommattei nell'Orazione delle lodi della lingua
toscana detta da lui l'anno 1623. nell'Accademia Fiorentina
(Vita del Buommatt. in fronte alla sua
Grammat. ed. Napoli 1733. p. 22.
princ.), verso il fine, cioè nella succitata Raccolta di
Torino p. 299. fine - 300. e appiè
della sua Gramatica, edizione cit. p. 273. fine, dice
della universal
3071 diffusione della lingua toscana a quel tempo ciò che ivi puoi vedere.
(30. Luglio. 1823.).
[3192,1] Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o
dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall'esempio
de' latini classici che altrettanto
faceano dal greco, come Cicerone
massimamente e Lucrezio, nè
dall'autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano il farlo.
Perocchè i nostri pedanti coll'universale dei dotti e degl'indotti tengono la
lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch'ella non fu madre
della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno
sorelle dell'italiana. Ben è vero che la greca letteratura e
3193 filosofia fu, non sorella, ma propria madre della {+letteratura e filosofia} latina.
Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti
dell'italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa
attingere, per rispetto {alla} letteratura e filosofia
francese. La quale dev'esser madre della nostra, perocchè noi non l'abbiamo del
proprio, stante la singolare inerzia d'italia nel secolo
in che le {altre} nazioni
d'europa sono state e sono più attive che in
alcun'altra. E voler creare di nuovo e di pianta la filosofia, e quella parte di
letteratura che affatto ci manca (ch'è la letteratura propriamente moderna);
oltre che dove sono gl'ingegni da questa creazione? ma quando anche vi fossero,
volerla creare dopo ch'ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch'ell'è da più
che un secolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e
trattata continuamente da tutto il resto d'europa del
pari; sarebbe cosa, non sola[solo] inutile, ma
stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli
3194 altri in una medesima carriera, volersi collocare
sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la
meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche
impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c'intenderebbono se volessimo
trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e noi non
ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l'opera, vedendo nelle nostre mani
bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente matura e colorita;
e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che
accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e
filosofica. Erano ben altri ingegni tra' latini al tempo che s'introdussero e
crebbero gli studi nel Lazio; ben altri ingegni, dico,
che oggi in italia non sono. Nè però essi vollero
rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora poco
filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando l'una e
l'altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i
3195 greci, da questi le tolsero, e gli altrui
ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli ebbero,
allora, secondo l'ingegno di ciascheduno e l'indole della nazione, de' costumi,
del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane, modificarono ed
ampliarono le cose da' greci trovate, e diedero loro abito e viso e attitudini
domestiche e nuove. Se vuol dunque l'italia avere una
filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe mai,
le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori pigliandole, le
verranno principalmente dalla Francia (ond'elle si sono
sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima
{e di carattere} e di genio e di lingua ec. che
l'italiana), e vestite di modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta
l'europa universalmente accettate, e da buon tempo
usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la
moderna letteratura, come altrove ho ragionato pp. 1029-30, e
volendole ricevere, nol potrà altrimenti che ricevendo {altresì} assai parole e frasi {di là,} ad
esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie;
3196 siccome appunto convenne fare ai latini {delle voci e frasi greche} ricevendo la greca
letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa
giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo
la lingua lingua francese sorella dell'italiana siccome della latina il fu la
greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una
letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel
Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri
stranieri che dal francese attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura,
quanto che noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, com'essi, aliena e
di diversissima origine. (18. Agos. 1823.). {Noi sappiamo bene qual {e che
cosa} sia questa lingua latina madre dell'italiana, e possiamo
definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica o
la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire
in aria, benchè sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale
individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per
laceri avanzi, mostrarcela.}
[3235,2]
Platone nel Sofista
verso il fine, edizione dell'Astio, opp. di Plat.
Lips. 1819. sgg. t. 2. p. 362. v. 3. sgg. A. penult.
pagina del Dialogo. {+Πόϑεν οὖν ὄνομα ἑκατέρῳ τις ἂν λήψεται πρέπον; ἢ
δῆλον δὴ χαλεπὸν ὄν, διότι τῆς} τῶν γενῶν κατ᾽ εἴδη διαιρέσεως
παλαιά τις, ὡς ἔοικεν, αἰτία
*
(ἴσ. ἀηδία. Ast.) τοῖς
ἔμπροσϑεν καὶ ἀξύννους παρῆν, ὥστε μηδ᾽ ἐπιχειρεῖν μηδένα διαιρεῖσϑαι∙
καϑὸ δὴ τῶν ὀνομάτων ἀνάγκη μὴ σϕόδρα εὐπορεῖν
*
;
3236
Unde iam nomen utrique eorum
quisquam arripiet conveniens? an dubium non est quin difficile sit,
propterea quod ad generum in species distributionem vetustam
quandam, ut videtur, et inconsideratam superiores habebant
offensionem atque fastidium, ita ut ne conaretur quidem ullus
dividere; quocirca etiam nomina non satis nobis possunt in promptu
esse?
*
Astius. Vuol
dir Platone e si lagna, che gli antichi
greci (e così tutti gli antichi d'ogni nazione) ebbero poche idee elementari,
onde la loro lingua (e così tutte le lingue fino a una perfetta maturità e
coltura, e fino che la nazione non filosofa) mancava di termini esatti, e
sufficienti ai bisogni del dialettico {massimamente} e
del metafisico. Ond'è che Platone il
quale volle sottilmente filosofare, ed esercitare l'esatto raziocinio, e
considerare profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel formare de'
termini di questa fatta, ed abbonda sommamente di voci nuove e sue proprie,
esatte e logiche ovvero ontologiche, {#1.
Vedi la pref. di Timeo al suo Lessico Platonico
appo il Fabric.
B. G. edit. vet. 9. 419.} che da niuno altro
si trovano adoperate, o che da' suoi scritti furono tolte. E notisi che Platone faceva questa lagnanza della sua
3237 lingua, la più ricca, la più feconda, la più
facile a produrre, la più libera, la più avvezza e meno intollerante di novità,
ed oltre a questo, nel più florido, perfetto ed aureo secolo d'essa lingua, e
quasi ancora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone parve scarsa a' bisogni dell'esatto filosofare
la stessa lingua greca nel suo miglior tempo, e trattando materie sottili egli
ebbe bisogno di parere ardito agli stessi greci in quel secolo, e di fare scusa
e addur la ragione del suo coniar nuove voci. Nè certo {si
dirà che}
Platone le coniasse o per trascuratezza
{e poco amore} della purità ed eleganza della
lingua, di ch'egli è fra gli Attici il precipuo modello, nè per ignoranza d'essa
lingua, e povertà di voci derivante da questa ignoranza. (22. Agos.
1823.).
[3247,1]
3247 È cosa nota che le favelle degli uomini variano
secondo i climi. Cosa osservata dev'essere altresì che le differenze de'
caratteri delle favelle corrispondono alle differenze de' caratteri delle
pronunzie ossia del suono di ciascuna favella generalmente considerato: onde una
lingua di suono aspro ha un carattere e un genio austero, una lingua di suono
dolce ha un carattere e un genio molle e delicato; una lingua ancora rozza ha e
pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi, raddolcendosi e ripulendosi il
carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi, divenendo regolare, e
perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e raddolcisce e mitigasi e si
ammollisce eziandio la generale pronunzia ed il suono. Dev'esser parimente
osservato, che siccome il carattere della lingua al carattere della pronunzia,
così i caratteri delle pronunzie corrispondono alle nature dei climi, e quindi
alle qualità fisiche degli uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità
morali che dalle fisiche procedono e lor corrispondono. Onde ne' climi
settentrionali, dove gli uomini indurati dal freddo, da' patimenti, e dalle
fatiche di provvedere a' propri bisogni in terre
3248
naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo, e fortificati ancora dalla fredda
temperatura dell'aria, sono più che altrove robusti di corpo, e coraggiosi
d'animo, e pronti di mano, le pronunzie sono più che altrove forti ed energiche,
e richiedono un grande spirito, siccome è quella della lingua tedesca piena
d'aspirazioni, e che a pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant'altri
può avere in petto, onde a noi italiani, udendola da' nazionali, par ch'e'
facciano grande fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo
contrario accade nelle lingue de' climi meridionali, dove gli uomini sono per
natura molli e inchinati alla pigrizia e all'oziosità, e d'animo dolce, e vago
de' piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond'egli è proprio
carattere della pronunzia non meno che della lingua p. e. tedesca, la forza, e
dell'italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue queste proprietà
rispettive dell'una lingua all'altra, ne segue che anche assolutamente, e
considerando ciascuna lingua da {se} nella lingua p. e.
italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza,
3249
onde lo scrittore {o il parlatore} italiano appo cui la
lingua {+(sia nello stile, sia nella
combinazione delle voci, sia nella pronunzia)} è più delicata e più
dolce che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità non passino i
confini che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia per rispetto
alla stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia trattata), più si loda
che gli altri {italiani}, appunto perocchè la lingua
italiana nella dolcezza e delicatezza avanza l'altre lingue. Ma per lo contrario
fra' tedeschi dovrà maggiormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui la
lingua riesca più forte che appo gli altri tedeschi, perocchè la lingua tedesca
supera l'altre nella forza, e suo carattere è la forza, non la dolcezza: nè la
dolcezza è pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa,
considerandola rispetto alle {altre} lingue, è qualità
non pregio, e nello scrittore o parlatore italiano è pregio, non in quanto
dolcezza, ma in quanto propria e caratteristica della lingua italiana. Così
civilizzandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di
corpo, divenne altresì pregio negl'individui umani la maggior
3250 delicatezza delle forme, non perchè la delicatezza sia pregio per
se; che anzi la rispettiva delicatezza delle forme era certamente biasimo, e
tenuto per difetto, o per {causa di} minor pregio {d'esse forme,} appo gli uomini primitivi; ma solo perchè
la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della natura, e contro il vero ben
essere e il destino dell'umana vita, è fatta propria e caratteristica delle
nazioni e persone civili. {#1. Puoi vedere le pagg. 3084-90.}
Laonde ben s'ingannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Staël
nell'Alemagna) che cercarono di
raddolcire la loro lingua, credendo farsi {tanto più}
pregevoli degli altri {tedeschi} quanto più dolcemente
di loro la parlassero e scrivessero, e che la dolcezza, proccurandola alla
lingua tedesca, le avesse ad esser pregio, contro la natura, e contro il
carattere della lingua, il quale è la forza, e tanta forza richiede nello
scrittore e nel parlatore, quanta possa non varcare i confini prescritti dalla
qualità d'essa lingua, e da quella delle particolari materie in essa trattate;
ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come vizio nella lingua
tedesca e non pregio, perchè opposta alla sua natura.
[3253,1] Una lingua {strettamente}
universale, qualunque ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di necessità
e per sua natura, la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida e
brutta lingua, la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la più
impropria all'immaginazione, e la meno da lei dipendente, anzi la più da lei per
ogni verso disgiunta, la più esangue ed inanimata e morta, che mai si possa
concepire; uno scheletro {un'ombra} di lingua piuttosto
che lingua veramente; una lingua non viva, quando pur fosse da tutti scritta e
universalmente intesa, anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che più non
si parli nè scriva. Ma si può pure sperare che perchè gli uomini sieno già fatti
geralmente[generalmente] sudditi infermi,
impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati, languidi, e miseri della ragione, ei
non diverranno però mai schiavi moribondi e incatenati
3254 della geometria. E quanto a questa parte di una qualunque lingua
strettamente universale, si può non tanto sperare, ma fermamente e sicuramente
predire che il mondo non sarà mai geometrizzato, non meno di quel che si possa
con certezza affermare ch'ei non ebbe una tal favella mai, se non forse quando
gli uomini erano così pochi, e di paese così ristretti, e niente vari di
opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita, che la lingua era universale solo
perciò che più d'una nazione d'uomini, almeno parlanti, non v'aveva, onde
universale era la lingua perch'era una {al mondo,} nè
altra lingua mai s'era udita, ed una era e sempre era stata la lingua, perchè
una sempre la nazione infino allora, o una, se non altro, la nazione che di
lingua avesse uso e notizia. (23. Agosto. 1823.).
[3254,1] Quello {poi} che ho detto
che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi
un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene a
quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave
(nelle Riflessioni
intorno
3255 all'istituzione d'una lingua
universale, opuscolo stampato in
Roma, e poi dal med. autore rifuso
nell'Appendice 2.a al capo II.o del Libro 3o del Saggio filosofico di Gio. Locke su l'umano intelletto compendiato dal D. Winne tradotto, e commentato da Francesco Soave C. R. S.
tomo 2.do, intitolato Saggio sulla formazione di
una Lingua Universale), la qual lingua o maniera
di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le idee, bensì alcune delle
inflessioni d'esse parole (come quelle de' verbi), ma piuttosto come inflessioni
o modificazioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a niun suono {pronunziato,} nè significazione e dinotazione alcuna di
esso. Questa non sarebbe lingua perchè la lingua non è che la significazione
delle idee fatta per mezzo delle parole. Ella sarebbe una scrittura, anzi
nemmeno questo, perchè la scrittura rappresenta le parole e la lingua, e dove
non è lingua nè parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe un terzo
genere, siccome i gesti non sono nè lingua nè scrittura ma cosa diversa dall'una
e dall'altra. Quest'algebra di linguaggio (così nominiamola)
3256 la quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di
segni ch'è meno dell'altre impossibile ad essere strettamente universale, si può
pur confidentemente e certamente credere che non sia per essere nè formata ed
istituita, nè divulgata ed usata giammai. Dirò poi ancora, ch'ella in verità non
sarebbe strettamente universale, perch'ella lascerebbe a tutte le nazioni le
loro lingue, siccome ora la francese. Ella di più non sarebbe propria che dei
dotti o colti. Ma di tutti i dotti e colti lo è pure oggidì la francese. Quale
utilità dunque di quella lingua? la quale non sarebbe forse niente più facile ad
essere generalmente nella fanciullezza imparata, di quello che sia la francese,
che benissimo e comunissimamente nella fanciullezza s'impara. E tutti i vantaggi
che si ricaverebbero da quella chimerica lingua, tutti, e molto più e maggiori,
e forse con più facilità si caverebbero dalla lingua francese, divenendo, se pur
bisogna, più comune e più studiata e coltivata di quel ch'ella già sia.
[3318,1]
3318 Un francese, un inglese, un tedesco che ha
coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare, non ha che a
scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata, stabilita e
perfetta, imparata la quale, ei non ha che a servirsene. Nè dal principio della
loro letteratura in poi, è stato mai bisogno ad alcuno scrittore di queste
nazioni, qual ch'ei si fosse, il formarsi una lingua moderna, cioè tale che
volendo scrivere, come ognun deve, alla moderna, ei potesse col di lei mezzo
esprimere i suoi concetti in qualsivoglia genere. Come dal principio delle loro
letterature in poi, quelle nazioni non hanno mai intermesso di coltivar esse
medesime gli studi in esse introdotti; o creando e inventando nuovi generi o
discipline, con esse hanno naturalmente e sin dal loro principio creato o
formato il linguaggio che loro si conveniva; o accettando generi o discipline
forestiere, non mai per ancora in esse nazioni conosciute o trattate, insieme
con essi generi e discipline accettarono senza contrasto alcuno quei modi e quei
vocaboli, ancorchè forestieri, che con esse erano congiunte, e che a volerle
trattare indispensabilmente si richiedevano; così non è stato mai tempo alcuno
in
3319 cui gli scrittori di quelle nazioni, avendo che
scrivere, non avessero come scrivere; mai tempo alcuno in cui quelle nazioni non
avessero lingua nazionale moderna per qualunque genere di letteratura e per
qualsivoglia disciplina da loro trattata.
[3366,1] La lingua latina s'introdusse, si piantò e rimase in
quelle parti d'europa nelle quali entrò anticamente e si
stabilì la civilizzazione. Ciò non fu che nella Spagna e
nelle Gallie. Quella fino dagli antichi tempi produsse i
Seneca, Quintiliano, Columella, Marziale ec. poi
Merobaude, S. Isidoro ec. e altri moltissimi di mano in mano, i
quali divennero letterati e scrittori latini, senza neppure uscire, come quei
primi, dal loro paese, o quantunque in esso educati, e non, come quei primi, in
Roma. Le Gallie produssero
Petronio Arbitro, {Favorino ec.}
poi Sidonio, S. Ireneo ec. La civiltà v'era già innanzi i romani
stata introdotta da coloni greci. Di più la corte latina v'ebbe sede per alcun
tempo. La Germania benchè soggiogata anch'essa da'
Romani, e parte dell'impero latino, non diede mai adito a
civiltà nè a lettere, nè a' buoni nè a' mediocri nè a' cattivi tempi di
quell'impero. Ella fu sempre barbara. Non si conta fra gli scrittori latini di
veruna latinità
3367 (se non dell'infimissima) niuno
che avesse origine germanica o fosse nato in Germania,
come si conta pur quasi di tutte l'altre provincie e parti
dell'impero romano. Quindi è che la
Germania benchè suddita latina, benchè vicina
all'italia, anzi confinante, come la
Francia, e più vicina assai che la
Spagna, non ammise l'uso della lingua latina, e non
parla latino {(cioè una lingua dal latino derivata),}
ma conserva il suo antico idioma. (Forse anche fu cagione di ciò e delle cose
sopraddette, che la Germania non fu mai intieramente
soggiogata, nè suddita pacifica, come la Spagna e
le Gallie, sì per la naturale ferocia della nazione,
sì per esser ella sui confini delle romane conquiste, e prossima ai popoli
d'europa non conquistati, e nemici de' romani, e
sempre inquieti e ribellanti, onde ad essa ancora nasceva e la facilità, e lo
stimolo, e l'occasione, e l'aiuto e il comodo di ribellare). Senza ciò la lingua
latina avrebbe indubitatamente spento la teutonica, nè di essa resterebbe
maggior notizia o vestigio che della celtica e dell'altre che la lingua latina
spense affatto in Ispagna e in
3368
Francia. Delle quali la teutonica non doveva mica esser
più dura nè più difficile a spegnere. Anzi la celtica doveva anticamente essere
molto più colta e perfetta o formata che la teutonica, il che si rileva sì dalle
notizie che s'hanno de' popoli che la parlarono, e delle loro istituzioni (come
de' Druidi, de' Bardi, cioè poeti ec.), e della loro religione, costumi,
cognizioni ec. sì da quello che avanza pur d'essa lingua celtica, e de' canti
bardici in essa composti ec. L'inghilterra par che
ricevesse fino a un certo segno l'uso della lingua latina, certo, se non altro,
come lingua letterata e da scrivere. {Il latino si stabilì in
Inghilterra a un di presso come il greco
nell'alta Asia, e l'italiano in Dalmazia, nell'isole
greche e siffatti dominii de' Veneziani: cioè come lingua di qualunque
persona colta e della scrittura, ma non parlata dal popolo, benchè forse
intesa. Così il turco in grecia ec.}
Ella ha pure scrittori non solo dell'infima, ma anche della media latinità, come
Beda ec. Ma era già troppo tardi,
sì perchè la lingua latina era già corrotta e moribonda per tutto, anche in
italia sua prima sede, sì perchè l'impero
latino era nel caso stesso. Quindi i Sassoni facilmente
distrussero la lingua latina in inghilterra, ancora
inferma e mal piantata, propria solo dei dotti (com'io credo), e le sostituirono
la
3369 teutonica, trionfando allo stesso tempo (almeno
in molta parte dell'isola) anche dell'idioma nazionale, indigeno, ἐπιχώριος e
volgare, cioè del celtico ec., al qual trionfo doveva pure aver già contribuito
la lingua latina, soggiogata poi anch'essa, e più presto ed interamente
dell'indigena, da quella de' conquistatori. Laddove nelle
Gallie i Franchi non poterono mica introdurre la
lingua loro, benchè conquistatori, nè estirpar la latina, ben radicata, e per
lunghezza di tempo, e perchè insieme con essa erano penetrati e stabiliti nelle
Gallie, i costumi, la civiltà, le lettere, la
religione latina, e perchè {quivi} detta lingua non era
già propria ai soli dotti, ma comune al volgo, ond'essi conquistatori
l'appresero, e parlata ec. Così dicasi de' Goti, Longobardi ec. in
italia; de' Vandali {ec.} in
Ispagna. Che se la lingua latina in
italia, in Francia, in
ispagna, trionfò delle lingue germaniche benchè
parlate da' conquistatori, può esser segno ch'ella ne avrebbe pur trionfato
nella Germania ov'elle parlavansi da' conquistati, se non
l'avessero impedito le cagioni dette di sopra. Perocchè si vede che la lingua
latina trionfava
3370 dell'altre, non tanto come lingua
di conquistatori e padroni, superante quella de' conquistati e de' servi, nè
come lingua indigena o naturalizzata, superante le forestiere, avventizie e
nuove; quanto come lingua colta e formata, superante le barbare, incolte,
informi, incerte, imperfette, povere, insufficienti, indeterminate. Altrimenti
non sarebbe stato, come fu, impossibile ai successivi conquistatori
d'Italia, Francia,
Spagna, il far quello che i latini ne' medesimi
paesi, conquistandoli, avevano fatto; cioè l'introdurre le proprie lingue in
luogo di quelle de' vinti. Nel mentre che i Sassoni in
inghilterra, certo nè più civili nè più potenti de'
Franchi, de' Goti, {de' mori,} ec., i Sassoni, dico, in
inghilterra, e poscia i Normanni, trionfavano pur
senza pena delle lingue indigene di quell'isola, perchè mal formate ancor esse,
benchè non affatto barbare, ed {anzi} (p. e. la
celtica) più colte ec. delle loro. Ma queste vittorie della lingua latina sì
nell'introdursi fra' conquistati, e forestiera scacciare le lingue indigene; sì
nel mantenersi malgrado i conquistatori, e in luogo di cedere, divenir propria
anche di questi, si dovettero, come ho detto, in grandissima parte, alla civiltà
dei
3371 costumi latini e alle lettere latine con essa
lingue[lingua] introdotte o conservate: di
modo che detta lingua non riportò tali vittorie, solamente come colta e perfetta
per se, ma come congiunta ed appartenente ai colti e civili costumi, opinioni e
lettere latine. Perocchè, come ho detto, sempre ch'ella ne fu disgiunta, cioè
dovunque la civiltà e letteratura latina, e l'uso del viver latino, o non
s'introdusse, o non si mantenne, o scarsamente s'introdusse o si conservò; nè
anche s'introdusse la lingua latina, come in Germania, o
non si mantenne, come accadde in Inghilterra. E ciò si
vede non solo in queste parti d'europa, che non ammisero
la civiltà latina per eccesso di barbarie, o che non ammettendola, restarono
barbare; ma eziandio in quelle dove una civiltà ed una letteratura indigena
escluse la forestiera, in quelle che non ammettendo i costumi nè le lettere
latine, restarono però, quali erano, civili e letterate, cioè nelle nazioni
greche. Le quali non ricevendo l'uso del viver latino, non ricevettero neppur la
lingua, benchè la sede dell'
3372
impero romano, e Roma e il
Lazio, per così dire, fossero trasportate e
lunghissimi secoli dimorassero nel loro seno. Ma la
Grecia contuttociò non parlò mai nè scrisse latino,
ed ora non parla nè scrive che greco. Ed essa era pur la parte più civile
d'europa, non esclusa la stessa
Roma, al contrario appunto della
Germania. Sicchè da opposte, ma analoghe e
corrispondenti e ragguagliate e proporzionate, cagioni, nacque lo stesso
effetto.
[3372,2] Dialetti della lingua latina. Vedi Cic.
pro Archia poeta, c. 10. fine, dove parla
de' poeti di Cordova
pingue quiddam sonantibus atque
peregrinum.
*
Non avevano certamente questi poeti
scritto nella lingua indigena di Spagna, che i romani mai
non intesero, siccome niun'altro[niun altro]
idioma forestiero, eccetto il greco; ma in un latino che sentiva di Spagnolismo,
come quel di Livio parve
3373 sapere di Patavinità. E le parole di Cic., chi ben le consideri anche in se
stesse, non possono significare altro. Perocchè era fuor di luogo la nota di peregrino se si fosse trattato di una
lingua forestiera, che non in parte, o per qualche qualità, ma tutta è
peregrina; nè questo in lei sarebbe stato difetto, e volendolo considerar come
tale, soverchiamente leggiera e sproporzionata sarebbe stata quella semplice
espressione che la lingua e lo stile di quei poeti sapeva di forestiero.
Oltrechè l'una e l'altro sarebbero stati barbari, e per le orecchie romane
affatto strani, rozzi, insolenti, insopportabili, non così solamente macchiati
d'un non so che di pingue e di peregrino. Era in Cordova
introdotta già (siccome in altre parti della Spagna già
soggiogate, perchè quella provincia non fu sottomessa che appoco appoco, e con
grandissimo intervallo una parte dopo l'altra, e, come osserva Velleio, {Vell. II. 90. 2. 3.
Flor. II. 17. 5.
Liv. 28. 12.} fu di tutte la più renitente, e tra
le romane conquiste la più lunga e difficile e per lungo tempo incertissima);
era, dico, introdotta già in Cordova la lingua e la
letteratura latina, siccome
3374 dimostra l'aver essa
poi potuto produrre i Seneca e Lucano, l'esempio dello stile de'
quali, può (quanto allo stile) servire pur troppo di copioso commento alle
parole di Cicerone, che, s'io non
m'inganno, della lingua non meno che dello stile si debbono intendere. (6.
Settem. 1823.).
[3389,1] La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli
scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile novità ond'essi
arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi.
[3465,1] Quel ch'io dico dell'uso delle favole antiche fatto
alla maniera antica (cioè mostrandone persuasione e presentandole in qualunque
modo a' lettori o uditori come e' ne fossero persuasi, chè altrimenti il
prevalersi della mitologia non ha peccato alcuno), fatto dico da' poeti
cristiani antichi o moderni (massime italiani) scrivendo a' Cristiani, si
3466 dee dire dell'eccessivo uso, anzi abuso
intollerabile della mitologia che fanno e fecero i pittori e scultori ec.
cristiani, non d'italia solo, ma d'ogni nazione, e niente
meno i forestieri che gl'italiani. Se sta ad essi a scegliere il soggetto,
potete esser sicuro, massime degli scultori, ch'e' non escirà della mitologia.
Ed anche grandissima parte de' soggetti eseguiti per commissione, essendo
mitologici, segue che il più delle pitture e massimamente delle sculture che si
veggono in europa (fuor delle Chiese), sieno mitologiche.
Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta) sia che la
sua opera paia una statua antica (come un poema antico), dovendo solamente
cercare ch'ella sia tanto bella quanto un'antica, o più bella ancora,
quantunque, se si vuole, nel genere del bello antico. (19. Sett.
1823.).
[3572,1]
Alla p. 3077.
È da notare che gli argomenti ch'io traggo da tali participii spagnuoli a
dimostrare
3573 gli antichi participii latini regolari
ec. (e così sempre che dallo spagnuolo io argomento all'antico latino, al
volgare ec.), sono tanto più valevoli, quanto siccome la lingua francese è
nell'estrinseco e nell'intrinseco, fra tutte le figlie della latina, la più
remota e alterata dalla lingua madre (secondo ho detto altrove pp. 965.
sgg.
pp. 1499. sgg.
pp. 2989-90
p. 3395), così la spagnuola è nell'estrinseco la più vicina, {#1. V. p. 3818.} mentre però nell'intrinseco lo è la italiana,
come altrove ho distinto pp.
1499-504. Ma dell'intrinseco poco ha che fare il nostro discorso. La
lingua spagnuola che per la forma esteriore delle parole ha più di tutte le sue
sorelle ereditato dalla latina, e che più di tutte {le
lingue,} a sentirla leggere o a vederla scritta, rappresenta l'esterna
faccia e il suono della latina e può con essa esser confusa; dev'esser
considerata come speciale e principale conservatrice dell'antichità, della
latinità, del volgar latino ec. quanto alla material forma delle parole e alla
proprietà delle loro inflessioni ec. che è quello che ora c'importa. La qual
conformità particolare col latino si può notar nello spagnuolo da per tutto, ma
nominatamente e singolarmente
3574 e forse più
ch'altrove, nelle coniugazioni de' verbi, il che fa appunto al nostro caso. AMO,
AMAS, AMAt, AMAMVS (lo spagn. muta l'u in o, e questa è la sola mutazione in tutto questo tempo), AMAtIS, AMANt.
Leggansi le sole maiuscole, e s'avrà la coniugazione spagnuola. La quale in
questo tempo è tutta latina, salvo l'omissione del t
in tre soli luoghi, {#1. È naturale agli
organi degli spagn. di non amare la pronunzia del t, onde nelle voci venute dal lat. spessissimo lo mutano in d ch'è più dolce (come fanno anche gl'italiani in
alcuni luoghi intorno alle voci italiane), spessissimo lo tralasciano, come
in questo nostro caso fanno, in parte anche gl'italiani e i francesi}
e la mutazione dell'u in o
in un luogo, mutazione pur tutta latina (vulgus -
volgus ec. ec. ec.) e propria senz'alcun dubbio, {anche in questo caso,} o di tutto l'antico volgo che parlò latino, o
di molte parti e dialetti di esso. Infatti tal mutazione non solo è propria e
dell'italiano e del francese in questo medesimo caso sempre, ma ordinarissima e
quasi perpetua (massime nell'italiano) in quasi tutti o nella più parte degli
altri casi, sì nelle desinenze, sì nel mezzo delle parole o nel principio. V-u-lg-u-s - V-o-lg-o. {#2. Sicché amamos p. amamus non si
dee neppure chiamar mutazione quanto allo spagnuolo, non essendo stata fatta
da esso ma nel latino medesimo, anzi non essendo stata neppur in latino
altro che un'[un] accidente, una qualità,
una maniera di pronunzia. Insomma amamos è latino;
e lo spagn. in questa voce è puro (ed antico e non men che moderno) latino
conservato nel lat. volgare. ec.} La congiugazione italiana è ben più
mutata, e molto più dell'italiana la francese. Basta a noi che le regole e le
inflessioni della coniugazione latina sieno specialmente conservate nella
spagnuola, ancorchè gli elementi del verbo che non toccano l'inflessione
3575 e la regola della coniugazione sieno alterati, o
soppressi ec. Come leo è mutato da lego. Ma la coniugazione di quello essendo similissima
alla coniugazione di questo, l'omissione del g, in cui
consiste l'alterazione di quello, non indebolisce punto l'argomento che dal suo
participio leido si cava a dimostrare il latino
corrispondente legitus. E così discorrete degli altri
casi e argomenti, o sieno dintorno a' participii, o a checchessia ch'appartenga
alle forme generali della congiugazione o d'altro ec.
[3586,1] Al qual proposito, parlando delle lingue moderne
figlie, rispetto alla lingua madre, e volendo argomentare da questa a quelle, o
viceversa, o tra loro ec. in materia di antichità ec. bisogna nelle lingue
moderne molto accuratamente distinguere tra voci e frasi latine conservate, e
voci {e frasi} ricuperate, {+per mezzo della letteratura, filosofia, politica,
giurisprudenza, diplomatica ec. ec.} che sono infinite, e possono
anche essere molto antiche; ma da queste alle latine sarà sempre o nullo o
debolissimo l'argomento, per chi pretenda investigarvi le antichità della lingua
ec. Al contrario nelle voci e frasi conservate cioè trasmesse per continua e
perpetua successione dall'antico {+e
talora dall'antichissimo e primitivo.} latino fino alle lingue moderne
per mezzo del latino volgare. {+V. p.
3637.} Simile distinzione è quella che convien
fare nella lingua
3587 latina rispetto alle voci
greche, cioè tra quelle introdotte dagli scrittori ec. e quelle antiche e
veramente popolari ec. Così nell'inglese rispetto alle voci francesi ec.
(3. Ott. 1823.).
[3625,1]
Alla p. 2821.
fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo
sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un
luogo di Virgilio da me altrove
esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi
ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo.
Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno
colle ragioni, confondere le ragioni di uno,
confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi
un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare
ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la
traslazione del suo significato da quel di mescere
insieme a quel di confutare, e così mi par di
doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e
derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche
3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de'
continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei
faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635}
Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel
Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima
aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non
ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe
in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le
proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de'
bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne'
volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più
l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per
ignoranza o
3627 per elezione, gli andavan dietro,
questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una
lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa
scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto
meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio
tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di
stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare
e parlata, {+più hanno delle voci e
locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così
Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e
de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero
all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.)
perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato,
nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi
perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta
nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal
linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato.
Onde a noi
3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi
per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco
colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la
semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente
affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non
si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si
vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre
il più vicino alla semplicità di Terenzio
(v. Desbillons
Disputat. II. de Phaedro, in fine), e
simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da
quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre)
hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi,
ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di
Cornelio sono state
attribuite ad Emilio Probo
{+(autore assai basso)} per ben
lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,
3629
e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del
Desbillons). Non così è
accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e
segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come
altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato,
e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e
circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men
che fosse quella di Platone ch'è
lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno
aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e
bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e
l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e
contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec.
(8. Ott. 1823.).
[3630,1] Quanto fosse incerta l'ortografia stessa italiana
(che oggi è la più giusta di tutte) anche nel 600, cioè nel secolo dopo il
miglior secolo della nostra letteratura, veggasi la prefazione all'ortografia
del Bartoli, (uomo che fra
tutti del suo tempo, e fors'anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e
scienza e per pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra
lingua), e il consiglio che quivi egli dà a chi vuole scrivere, di pigliarsi
cioè o di formarsi un'ortografia a suo modo, e quella sempre seguire; consiglio
che niuno certamente darebbe oggi in italia ad alcuno, nè
vi sarebbe più che una ortografia da poter pigliare cioè scegliere ec. Ma al contrario era allora, dopo tre
secoli e più che si scriveva la nostra lingua, e ciò da letterati, non sol per
uso della vita. (8. Ott. 1823.).
[3633,1] Scriveva Voltaire al Principe Reale di Prussia, poi Federico II. in proposito di una frase di Orazio e del modo in cui Federico l'aveva renduta traducendo in
francese l'ode in ch'ella si trova: Ces expressions sont bien plus nobles en français:
elles ne peignent pas comme le latin, et c'est-là le grand malheur
de notre langue qui n'est pas assez accoutumée aux
détails.
*
(Lettres du Prince Royal de Prusse et de M.
3634 de Voltaire, Lettre
118. le 6 avril 1740. Oeuvres complettes de Frédéric II, roi de Prusse. 1790.
tome 10, p. 500.) Aveva detto Voltaire che l'espressione latina serait très-basse en
français.
*
[3668,1] Le scoperte ec. che ho detto esser
3669 solamente comuni ai popoli che tra loro hanno
trattato, sono infinite. Bastimi una. L'uso della lingua è necessario alla
società. Mirabilissima scoperta è quella della favella. Nondimeno tutti i popoli
favellano. Appena gli uomini incominciarono a stringere una società,
incominciarono a balbettare un linguaggio. La natura stessa lo insegna sino a un
certo punto, non solo agli uomini, ma eziandio agli altri animali; agli uomini
molto più, ch'ella ha fatto certo più socievoli. Stringendosi maggiormente la
società, e crescendo lo scambievole usare degli uomini, fino a passare i termini
voluti e prescritti dalla natura; crebbe necessariamente il linguaggio, e
divenne più potente che la natura non voleva. Tutto ciò dovette necessariamente
aver luogo prima che il genere umano si dividesse. Quando e' si divise, ei
parlava di già, non che favellasse. Ciò si prova a
maiori e a minori; e perchè la società
crescente produceva di necessità l'incremento della lingua, e perchè questo era
necessario all'aumento di quella; perchè il genere umano non si sarebbe diffuso,
se la società non fosse stata già bene
3670 stretta e
cresciuta e adulta, nè questo poteva essere senza un sufficiente linguaggio, e
senza un tal linguaggio il genere umano non si sarebbe diffuso ec. Quindi è che
l'invenzione del linguaggio, così com'ella è maravigliosissima, è pur comune a
tutti i popoli, anche a' più separati e più barbari.
[3747,1]
3747 Come la lingua francese illustre è dominata,
determinata e regolata quasi interamente dall'uso, e certo più che alcun'altra
lingua illustre, così, perocchè l'uso è variabilissimo e inesattissimo, essa
lingua illustre non solo non può esser costante, nè molto durare in uno essere,
come ho notato altrove pp. 1999. sgg.
pp. 3633-35 , ma
veggiamo eziandio che la proprietà delle parole in essa lingua è trascurata più
che nell'altre illustri, e trascurata per regola, cioè presso gli ottimi
scrittori costantemente, non meno che nel parlare ordinario. Voglio dir che gli
usi di moltissime parole e modi ec. anche presso gli ottimi scrittori, sono più
lontani dall'etimologia e dall'origine e dal valor proprio d'esse parole ec.
{+meno corrispondenti ec.} che
non sogliono esser gli usi de' vocaboli nell'altre lingue illustri presso, non
pur gli ottimi, ma i buoni scrittori, e in maggior numero di voci ec. che nelle
altre lingue illustri non sono. {+Che
vuol dir ch'essi usi e significati sono più corrotti ec. E non
potrebb'essere altrimenti perchè l'uso corrente cotidiano e volgare e
generalmente la lingua parlata, anche dai colti, (che è quella cui segue il
francese scritto) corrompe ed altera ogni cosa e non mai non cessa di
rimutare e logorare ec.} P. e. per dire il materiale e lo spirituale,
o il sensibile e l'intellettuale, i francesi dicono il fisico e il morale. (le physique et le moral, le physique et
le moral de l'homme, le monde physique et le
3748 monde moral
{etc.}). Qual cosa più impropria di queste
significazioni, o che si considerino in se stesse o nella loro scambievole
opposizione e in rispetto l'una all'altra? Fisico
propriamente significa forse materiale o sensibile? E il fisico, che
vuol dir naturale, è forse l'opposto dello spirituale o intelligibile?
Quasi che questo ancora non fosse naturale, ma fuori della natura, e vi potesse
pur esser cosa non naturale e fuori della natura, che
tutto abbraccia e comprende, secondo il valor di questa parola e di questa idea,
e che si compone di tutto ch'esiste o può esistere, o può immaginarsi ec. E il
morale com'è l'opposto del naturale? Sia che riguardiamo la propria significazione di morale sia la francese. E che hanno che far l'idee,
l'intelletto, lo spirito umano, gli altri spiriti, il mondo e le cose astratte
ec. coi costumi, ai quali soli propriamente appartiene la voce morale? e gli appartiene pure anche in francese, e
anche nel parlare e scriver francese ordinario (la morale, moralité, etc.). Così
dite degli avverbi physiquement o moralement ec.
[3764,1]
3764 Necessità di nuove o forestiere voci, volendo
trattar nuove o forestiere discipline. Impossibilità e danno del mutare i
termini ricevuti in una disciplina che da' forestieri sia stata trovata, o
principalmente coltivata, o trasmessaci ec. di sostituire cioè altri termini a
quelli con che i forestieri che ce la tramettono, sono usi di trattare quella
disciplina, quando bene fosse facile alla nostra lingua il trovar termini suoi,
novi o vecchi, da sostituir loro, anzi quando ella già ne avesse degli altri
(sian termini sian vocaboli) con quel medesimo significato ec. V. Speroni
Dial. della Retorica, ne' suoi
Diall.
Venez. 1596. p. 139. a dieci pagg. dal principio, e
23. dal fine. (23. Ott. 1823.).
[3829,1] Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal
principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell'italiana, eccetto
alcuni vantaggi di questa, ed alcune diversità di circostanze, che non mutano la
sostanza del caso. Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo
che la spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna
propria, e dal 600. in poi non l'abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che
non sia altrettanto in italia, e ciò dal 600. in poi,
come gli stranieri, e forse tra questi anche gli spagnuoli (che del fatto loro
non converranno), punto non ne dubitano. Quello che noi vediamo chiaro in altrui
e nel lontano, ci serva di specchio e di esempio per ben vedere, per accorgerci,
per conoscere e concepire il fatto nostro, e quello ch'essendoci proprio e
troppo vicino, non suol vedersi nè conoscersi mai bene, sì per l'inganno
dell'amor proprio, sì perchè la stessa vicinanza nuoce alla vista, e l'abitudine
di continuamente vedere impedisce o difficulta l'osservare, il notare,
l'attendere, il por mente, l'avvedersi. L'opinione che abbiamo di quelli
stranieri c'istruisca
3830 di quella che dobbiamo avere
di noi, e le ragioni di quella si applichino al caso nostro, chè ben vi sono
applicabili ec.
[3855,1] Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli)
di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la
nullità politica e militare in cui è caduta l'italia non
men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui
incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in
italia e in ispagna. Questa
nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la
cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi
affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò
viene perchè gl'italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari
politici propri, nè milizia propria. Fino dall'estinzione
dell'imperio romano, l'italia
è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria
ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè
piccole e deboli. Il governo era in mano d'italiani, le dinastie erano italiane
in assai maggior numero che poi non furono
3856 ed or
non sono. Influiti e dominati da' governi e dagli eserciti stranieri, i governi
e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi
medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a
questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano
a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri
stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L'amicizia
de' governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era
considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque
modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o
quella straniera potenza. Gl'italiani agivano per se presso o nelle corti
straniere, e gli stranieri presso gl'italiani. {+V. p.
3887.} Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche
e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il
militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri.
Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d'altre
materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il
seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che
spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni,
politica, e a qualsivoglia parte dell'arte militare; mai povertà; {e} mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che
possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi
3857 nell'espressione di tali materie, anzi ricchissimi
e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte
di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto
italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri
in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non
erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all'uso
della favella italiana d'allora, e che erano fra noi (come anche fuori non
poche[pochi]) comunissimi, notissimi, e di
significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi,
perduti nell'uso del favellare, {lo furono e lo sono}
conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a
que' tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente
e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci
straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi
introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in
verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche
oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità.
Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s'usano, riuscirebbero oscure,
parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci,
perchè[parte] perchè il loro senso non
sarebbe più inteso così determinatamente come
3858
allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui
non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi
non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche
sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or
notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non
le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza
e attenzione, {o imperfettamente} la loro
corrispondenza con quelle che oggi ne' medesimi casi comunemente usiamo. Altresì
ci accade {non di rado} tale incertezza nelle voci
significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che
nell'altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in
italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè
ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e
militari, non ch'ella mai non l'abbia avuta, anzi l'ebbe, ma l'ha perduta, o non
l'ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente
discorrasi della Spagna.
[3863,2] Accade nelle lingue come nella vita e ne' costumi; e
nel parlare come nell'operare, e trattare con gli uomini (e questa non è
similitudine, ma conseguenza.) Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità
dell'operare, de' costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente
anche quella del favellare. E a proporzione che la diversità dall'ordinario,
maggiore o minore, si tollera o piace, {ovvero} non
piace, non si tollera, è ridicola ec. più o meno; maggiore o minore o niuna
diversità piace, dispiace, si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo
ora il comparare a questo proposito le lingue antiche colle moderne, e il
considerare come corrispondentemente
3864 alla diversa
natura dello stato e costume delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e
società umana antica e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più
ardite delle moderne, e sia proprio delle lingue antiche l'ardire, e quindi esse
sieno molto più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra
gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίμει la singolarità
dell'opere, delle maniere, de' costumi, de' caratteri, degl'istituti delle
persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion
francese, che di tutte l'altre sì antiche sì moderne, è quella che meno approva,
ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e vieta, non pur la
singolarità, ma la nonconformità dell'operare e del conversare nella vita
civile, de' caratteri delle persone ec.; la nazion francese, dico, lasciando le
altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto
di lingua poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve
naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità delle
azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere. Ora il parlar poetico è
per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura
alla natura della società e della nazione francese. E di fatti la lingua
francese è incapace, non solo di quel peregrino che nasce dall'uso di voci,
modi, significati tratti da altre lingue,
3865 o dalla
sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma eziandio di quel peregrino e
quindi di quella eleganza che nasce dall'uso non ordinario delle voci e frasi
sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di figure, sia di sentenza,
sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non
pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come p. e. nell'italiana,
sarebbero rispettivamente de' più leggeri, de' più comuni, e talvolta neppure
ardiri. Questa incapacità si attribuisce alla lingua; ella in verità è della
lingua, ma è acora della nazione, e non per altro è in quella, se non perch'ella
è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua
divisione e costituzion politica, dall'altra pel carattere naturale de' suoi
individui, pe' lor costumi, usi ec. {+per
lo stato presente della lor civiltà, che siccome assai recente, non è in
generale così avanzata come in altri luoghi,} e finalmente per la
rigidità del clima che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e
l'abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e
abituata alla società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed
anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la singolarità delle
azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la qual
singolata[singolarità] appo loro non ha
pochi nè leggeri esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello
de' fratelli moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità
non hanno
3866 punto del moderno, e parrebbero
impossibili a' tempi nostri, ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed
ammette e loda ec. una grandissima singolarità d'ogni genere nel parlare e nello
scrivere, ed ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita {per sua natura} di tutte le moderne colte, e pari {in questo} eziandio alla più ardita delle antiche. La
qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e {capace
e} ricca d'ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.).
[3866,1] Il pellegrino e l'elegante che nasce dall'introdurre
nelle nostre lingue voci, modi, e significati tolti dal latino, è quasi della
stessa natura ed effetto con quello che nasce dall'uso delle nostre proprie
voci, modi e significati antichi, o passati dall'uso quotidiano, volgare,
parlato ec. Perocchè siccome queste, così quelle (e talor più delle seconde, che
siccome erano, così conservano talvolta del barbaro della {loro} origine o dell'incolto di que' tempi che le usarono {ec.}) hanno sempre (quando sieno convenientemente
scelte, ed atte alle lingue ove si vogliono introdurre) del proprio e del
nazionale, quando anche non sieno mai per l'addietro state parlate nè scritte in
quella tal lingua. E ciò è ben naturale, perocch'esse son proprie di una lingua
da cui le nostre sono nate ed uscite, e del cui sangue e delle cui ossa {queste} sono formate. Onde queste tali voci {ec.} spettano in certo modo all'antichità delle nostre
lingue, e riescono in queste quasi come lor {proprie}
voci antiche. Sicchè non è senza ragione verissima, se biasimando l'uso o
introduzione di voci ec. tolte dall'altre lingue, sieno antiche sieno moderne,
(eccetto le voci ec. già naturalizzate) lodiamo quella delle voci {ec.} latine. Perocchè quelle a differenza di queste,
sono come di sangue, così di {aspetto e di} effetto
straniero, e diverso
3867 da quello delle altre nostre
voci, e delle nostre lingue in genere, e del loro carattere ec. La novità tolta
{prudentemente} dal latino, benchè novità
assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto restituzione
dell'antichità che novità, piuttosto peregrino che nuovo; e veramente (anche
quando non sia troppo prudente nè lodevole) ha più dell'arcaismo che del
neologismo. Al contrario dell'altre novità, e degli altri stranierismi ec. E per
queste ragioni, oltre l'altre, è ancor ragionevole e consentaneo che la lingua
francese sia, com'è, infinitamente men disposta ad arricchirsi di novità tolta
dal latino, che nol son le lingue sorelle. Perocchè essa lingua è molto più di
queste sformata e diversificata dalla sua origine, degenerata, allontanata ec.
Onde quel latinismo che a noi sarebbe convenientissimo e facilissimo perchè
consanguineo {e materno} ec. alla lingua francese,
tanto mutata dalla sua madre, riescirebbe affatto alieno e straniero e non
materno ec. Meglio infatti generalmente riesce e fa prova e si adatta e
s'immedesima e par naturale nella lingua francese la novità tolta dall'inglese e
dal tedesco (che agl'italiani e spagnuoli sarebbe insopportabile e barbara) che
quella dal latino. Questo può vedersi in certo modo anche ne' cognomi {e nomi propri} inglesi, tedeschi, ec. {che si} nominino nel francese. Paiono {sovente e gran parte di loro} molto men forestieri che
tra noi, e men diversi ed alieni da' nazionali.
[3884,1]
Les
Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette
langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air mâle et de
l'énergie lorsqu'elle etait maniée par cet habile poëte.
*
Così scriveva il principe reale di Prussia poi Federico II alla Marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9.
Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16.
Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5.e
p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio
degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione
ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del
Tasso, ch'è un fatto, e che poco
si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del
vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. {+V. p.
3900.}
(14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli
arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del
3885 passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero
nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni
rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). {{V. p.
3949.}}
[3902,4] Dico altrove p. 806
pp.
2005-2007 che la lingua ebraica non ha voci composte. Si eccettuino
molti nomi propri, come Ab-raham, Ben-iamin, Mi-cha-el, Ierusalem (non è dell'antico
ebraico) ec. e forse anche {alcuni} nomi, non propri,
ma appellativi o cosa simile. (24. Nov. 1823.).
[3931,1]
3931 Al detto altrove p. 961
pp. 3012-14
pp. 3041-47 sopra i
dialetti d'Omero, e quello d'Empedocle, che benchè Dorico usò il
dialetto Ionico, aggiungi che nello stesso caso è Ippocrate, e vedi
Fabric.
B. G. edit. vet. in Hippocr. §. 1. t. 1. p. 844. lin. 4-6. e nott. i.
k.
(27. Nov. 1823.).
[3932,1]
3932
Verdaderamente yo
tengo que ay muchos tiempos y años que ay gentes en estas Indias
*
(la America {meridional}), segun lo
demuestran sus antiguedades y tierras tan anchas y grandes como han
poblado; y aunque todos ellos son morenos lampiños y se parecen en
tantas cosas unos a otros, ay tanta multitud de
lenguas entre ellos que casi a cada legua y en cada parte ay nuevas
lenguas.
*
Chronica del Peru, parte primera
(della quale opera vedi la pag.
3795-6.) hoja 272. capitulo 116. principio.
(28. Nov. 1823.).
[3937,3] Ho detto altrove in più luoghi pp. 965. sgg.
pp. 1499. sgg.
pp. 2869. sgg.
pp. 2989-90
p. 3395
p.
3573 che la francese per l'estrinseco e per l'intrinseco è di tutte le
lingue sorelle la più lontana dalla madre. Molto più vicina le fu ne' passati
secoli (come nel 500 ec.) per l'intrinseco, siccome per l'estrinseco ancora,
cioè per la pronunzia della loro scrittura (ch'è tanto più simile al latino che
la loro favella) erano più vicini al latino non solo nel 300 ec. come ho detto
altrove p. 2869, e ne' principii della lingua, ma nel 500
ancora e nel 600 di mano in mano ec. (29.
3938
Nov. 1823.)
[3946,2] La lingua greca appartiene veramente e propriamente
alla nostra famiglia di lingue (latina, italiana, francese, spagnuola, e
portoghese), non solo perch'ella non può appartenere ad alcun'altra, e farebbe
famiglia da se o solo colla greca moderna; non solamente neppure per esser
sorella o, come gli altri dicono, madre della latina (nel primo de' quali casi
ella dovrebbe esser messa almeno colla latina, e nel secondo è chiaro ch'ella va
posta nella nostra famiglia), ma specialmente e principalmente perchè la sua
letteratura è veramente madre della latina, la qual è madre delle nostre, e
quindi la letteratura greca è veramente l'origine delle nostre, le quali in
grandissima parte non sarebbero onninamente quelle che sono e quali sono (se non
se per un incontro affatto fortuito) s'elle non fossero venute di là. E come la
letteratura è quella che dà forma e determina la maniera di essere delle lingue,
e lingua formata e letteratura sono quasi la stessa cosa, o certo
3947 cose non separabili, e di qualità compagne e
corrispondenti; e come per conseguenza la letteratura greca (oltre le tante voci
e modi particolari) fu quella che diede veramente e principalmente forma alla
lingua latina, e ne determinò la maniera di essere, il carattere e lo spirito,
di modo che la lingua e letteratura latina, quando anche fossero nate, formate e
cresciute senza la greca, non sarebbero certamente state quelle che furono, ma
altre veramente, e in grandissima parte diverse per natura e per indole e forma,
e per qualità generali e particolari, e sì nel tutto, sì nelle parti maggiori o
minori, da quelle che furono; stante, dico, tutto questo, la letteratura greca
(oltre lo studio immediato fattone da' formatori delle nostre lingue, come da
quelli della latina) viene a esser veramente la madre e l'origine prima delle
nostre lingue, come la latina n'è la madre immediata; le quali lingue (anche la
francese che insieme colla sua letteratura è la più allontanata dalla sua
origine, e dalla forma latina, e dall'indole della latina, e quindi eziandio
della greca) non sarebbero assolutamente tali quali sono, ma altre e in
grandissima parte diverse sì nello spirito, sì in cento e mille cose
particolari, se non traessero primitivamente origine in grandissima parte dal
greco per mezzo del latino. E veramente la lingua greca mediante la sua
letteratura è prima (quanto si stende la nostra memoria dell'antichità) e vera
ed efficacissima causa dell'esser sì la lingua e letteratura latina, sì le
nostre lingue e letterature, anche la francese, tali quali elle sono,
3948 e non altre; chè per natura elle ben potrebbero
essere diversissime in molte e molte cose, anche essenziali ed appartenenti allo
spirito ed all'indole ec. e alquanto diverse più o meno in altre molte cose più
o meno essenziali o non essenziali. E forse non mancano esempi di altre
letterature e lingue antiche o moderne, anche meridionali ec., che non essendo
venute dal greco, sono diversissime, anche per indole ec. e nel generale ec. non
meno o poco meno che ne' particolari, dalla latina e dalle nostrali. E ne può
esser prova il vedere quanto la francese si è allontanata, anche di spirito,
dalla latina e dalla greca alle quali era pur conformissima nel 500 ec. (vedi la
p. 3937.), senz'aver mutato
clima ec. Certo i tempi nostri son diversissimi da quelli de' greci {e de' latini,} quando anche il clima sia conforme,
diversissime sono state e sono le nostre nazioni, {#1. loro governi, opinioni, costumi, avvenimenti e
condizioni qualunque,} sì tra loro, {#2. sì ciascuna di esse da se medesima in diversi
tempi,} sì dalla greca, e dalla latina eziandio. Nondimeno le loro
lingue e letterature sono state conformi, massime fino agli ultimi secoli, e tra
loro, e tra' vari lor tempi, e colla greca e latina ec. Sicchè tal conformità
non si deve attribuire nè solamente nè principalmente al clima, nè ad altre
circostanze naturali o accidentali, ma all'accidente di esser derivate
effettivamente dal greco e latino, chè ben potevano non derivar da nessuno, o
derivare d'altronde ec. ec.
[3952,1]
3952 Dal detto altrove pp. 109-11
pp. 1234-36
pp. 1701-706 circa le
idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre
qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell'effetto, massimamente
poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente
l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte
qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico,
infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e
circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova.
Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola
o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette
differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici {ec.} di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose,
variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze
loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura
diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo
le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata
colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di
tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un
tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle
parole e dello stile che n'è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze
ec. e questa similitudine è molto a proposito.
[3956,2] Italianismi nello Spagnuolo, del che altrove p.
2783
pp.
3394. sgg.
pp. 3728-31. Quizà (cioè forse) voce che
fino ne' Vocabolari del 600 si dà per antica (bench'io la trovo in uso, anche
frequente, presso i moderni eziandio). Pretto e manifesto italianismo, sì per la
forma (in ispagnuolo si direbbe quien sabe?), sì pel
significato, poichè anche noi, massime nel linguaggio parlato, e questo
familiare, usiamo non di rado chi sa? chi sa che non, chi sa se
ec. per forse o in sensi simili. (8. Dec. Festa
della immacolata Concezione di Maria. 1823.).
[3972,1]
3972 Risulta da quello che in più luoghi si è detto
pp. 838. sgg.
pp.
1683-84
pp. 1946-51
pp. 1953-57
pp. 3253-62 circa la
natura di una lingua atta (massime ne' nostri tempi) veramente alla
universalità, che ella non solo non può esser più delle altre lingue capace di
traduzioni, di assumer l'abito dell'altre lingue, o tutte o in maggior numero o
meglio che ciascun'altra, di piegarvisi più d'ogni altra, di rappresentare in
qualunque modo le altre lingue; ma anzi ella dev'essere per sua natura l'estremo
contrario, cioè sommamente unica d'indole, di modo ec. e sommamente incapace
d'ogni altra che di se stessa, ed in se stessa minimamente varia, e da se
medesima in ogni caso il men che si possa diversa. E una lingua che tenga
l'estremo contrario è di sua natura, massime a' tempi nostri, estremamente
incapace dell'universalità. Non bisogna dunque figurarsi che una lingua
universale nè debba nè possa portare questa utilità di supplire alla cognizione
di tutte le altre lingue, di esser come lo specchio di tutte l'altre, di
raccoglierle, per così dir, tutte in se stessa, col poterne assumer l'indole
ec.; ma solo di servire in vece di
tutte le altre lingue, e di esser loro sostituita. Anzi ella non può veramente altro ch'esser sostituita
all'uso dell'altre e di ciascuna altra, e non supplire ad esse ec. Ben grande
sarebbe quella utilità, ma essa è contraria direttamente alla natura di una
lingua universale. Tale si è infatti la francese. Nè i francesi dunque nè gli
stranieri si lusinghino di avere in quella lingua tutto ciò che potrebbero avere
nell'altre, ma una lingua diversissima per sua natura dall'altre, il cui uso a
quello di tutte l'altre possono facilmente sostituire. Nè stimino che volendo
conoscer
3973 l'altre lingue, autori ec. il posseder la
francese, li dispensi più che alcun'altra lingua dallo studio di tutte l'altre,
anzi per questo effetto la francese non serve a nulla, ed i francesi per parlare
come nativa una lingua sommamente disposta alla universalità, si debbono
contentare di avere una lingua incapacissima di traduzioni, inettissima a servir
loro di specchio e di esempio, e fin anche di mezzo, per conoscere qualunque
altra lingua, autore ec. Il fatto della lingua francese dimostra queste
asserzioni. {+1. Sebbene i francesi
coll'estrema trascuranza che hanno dell'altre lingue mostrano essere
persuasi del contrario.} La natura della greca era appunto l'opposto.
Ella infatti perciò, anche nel tempo antico, non potè essere universale che
debolissimamente e incomparabilmente alla possibile universalità di una lingua,
ed anche all'effettiva presente universalità della francese, malgrado le molte
qualità, e massimamente le infinite circostanze estrinseche (potenza, commercio,
letteratura e civiltà unica della nazione che la parlava) che favorirono, (e per
lunghissimo tempo), e quasi necessitarono la sua universalità, molto più che le
circostanze estrinseche della francese ec. (11. Dec. 1823.).
[3979,1] Come la lingua e letteratura italiana si stimassero
nel 500 da molti {+anche dotti e gravi
uomini} non dovere {nè potere} uscire de'
termini in che le posero i 3. famosi trecentisti, anzi solamente il Petrarca e il Boccaccio, nè delle lor parole e modi e artifizi e
stili, e dell'abito ch'essi avevan dato all'una e all'altra ec. del che altrove
pp. 2515-17
pp. 2533-40
pp. 2723-24
pp.
3561-62, vedi il Dial. della Rettorica dello Speroni, Diall.
Ven. 1596. p. 147.-150. p. 157. fine. - 158.
principio, p. 162. verso il fine. (14. Dec. 1823.).
[4001,2] Delle colonie greche in
italia, sicilia ec. e antico
commercio ec. greco in italia, avanti il dominio de'
romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo,
cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel
volgare latino {in} quelle parti, e quindi ne' volgari
moderni {+in quelle parti,} e
quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di
questo ebbe principio in Sicilia e nel
4002 regno, come mostra il Perticari nell'Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel
modo che altrove s'è discorso pp. 1014-16
p. 2655 delle Colonie greco - galliche, di
Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua
francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S.
Natale.).
[4022,2] Composti spagnuoli. Cariredondo (faccia tonda). D. Quij. par. 2. cap. 3. principio.
(25. Gen. Domenica. 1824.).
[4026,7] Dico altrove {+p.
2827.} che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di
necessità ne' secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione
l'ordine e l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente
4027 pronunziato, non risultava più o niuna, o
certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente {da} questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de'
secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri ne' tempi
di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia diversa per se ed
assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta,
sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima
vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche
de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec.
Tanto che questo numero, diverso dall'antico e della qualità predetta, che quasi
in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, e[è] un certo e de' principali e più appariscenti segni,
almeno a un vero intendente, per discernere gl'imitatori e più recenti, che
spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da' classici
originali e de' buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto
nell'armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri,
occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non
poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e
l'ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi
sottilmente, per es. in Longino,
perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si
conosce ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe
risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell'alterazione
cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione
è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l'alterazione e
corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di
gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e
diverso da quello de' loro antichi. Si
4028 conosce a
prima vista, {e indubbiamente, (almen da un intendente ed
esercitato)} per la differenza e per la detta qualità del numero, un
secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche
conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca
moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico
altrove pp. 4026-28) del numero, alla quale subito si riconosce
il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè
astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai
concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto studiati, e
tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cic. e di Livio? non che di
Cesare, e de' più antichi e
semplici, che Cic. nell'Oratore dice mancar tutti del numero {+s'intende del colto, perchè senza un numero non possono
essere. V. p. seg. [p. 4029,1]..} Che dirò di Lucano, dell'autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or
questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una
delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì latina e
italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e quindi alla frase e
frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar
le {semplici} parole per servire al numero, {+e grattar l'orecchio avido di nuovi e
spiccati suoni,} o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e
strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l'uso de'
troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi),
avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella
composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto
altrove pp. 848-49
{su d'alcuni} sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso {(conflitto)} delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.).
(Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto
altrove pp. 1157-60 sul
vario gusto de' greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso,
l'abbondanza ec. delle vocali.) Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto
4029 migliaia d'altri tali, e scrivente per piacere a
essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la
letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne' secoli
bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la più parte, com'era allora non greci
di patria, ma dell'Asia, e questa anche alta, non la
minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb.
1824.).
[4030,10] Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del
detto altrove pp. 961-62), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell'Herodotus sive Aetion di Luciano.
(15. Febbraio. 1824.).
[4052,1] La ricchezza e varietà e potenza {e fecondità} della lingua italiana non solo s'ha a considerare nella
copia de' suoi vocaboli e modi e nella gran facoltà di formarne, ma eziandio
nella gran moltitudine e varietà di tipi per così dire o coni che ella ha per
poter formare voci e modi di uno stesso genere di significazione. (formati già
moltissimi, e da potersene formar con giudizio, sempre che si voglia e bisogni).
Servano di esempio le tante desinenze frequentative o diminutive o disprezzative
ec. de' verbi, da me annoverate altrove pp. 1116-17
pp. 1240-42
p.
3764. Le tante diminutive de' nomi ec. ec. Nella quale abbondanza di
coni la lingua nostra vince d'assai, non che le lingue sorelle, ma la latina e
la greca, e forse qualunque lingua del mondo antica o moderna. Nè questa
abbondanza produce confusione nè indeterminazione, perchè detti coni sebbene
sommamente moltiplici in ciascun genere, sono però di qualità e di valore ben
determinato ed applicato e appropriato al suo genere di significazione.
(21. Marzo. 1824.).
[4055,6] La lingua spagnuola è già conformissima all'italiana
per indole (oltre all'estrinseco) quanto possa esser lingua a lingua. Ma più
conforme sarebbe, se ella fosse stata egualmente coltivata, formata e
perfezionata, cioè avesse avuto ugual numero e varietà e capacità di
4056 scrittori che ebbe l'italiana. Dalla piega che
ella prese effettivamente si raccoglie che quando avesse progredito, la forma e
l'indole che avrebbe avuta in uno stato di perfezione non sarebbe stata punto
diversa dall'italiana, alla quale per conseguenza la lingua spagnuola sarebbe
stata tanta[tanto] più conforme che ora per la
maggior conformità di grado e di perfezione, perchè ora la maggiore, anzi forse
unica differenza che passi tra il genio {o piuttosto}
la forma intrinseca di queste due lingue, si è che l'una è molto meno formata e
perfezionata dell'altra, e anche men ricca, il che con la copia degli scrittori
e delle materie non sarebbe stato. (1. Aprile. 1824.).
[4066,1]
4066 La maniera familiare che come più volte ho detto
pp. 1808-10
pp. 2639-40
pp. 2836-41
pp. 3009. sgg.
pp. 3014-17
p. 3415, fu necessariamente scelta da' nostri classici antichi, o
necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola, può ora in
parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a
quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel
gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi
tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose, perchè quello che allora
fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è
arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto
vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la
capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall'usuale,
si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e
amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non
avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che
sceglievano e usavano, e sovente anche {intendendo,}
credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O
adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi
eleganti, onde n'è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere
modellate sull'antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale
dello stile antico da essi imitato, necessariamente ne aveva anche
indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e
corrispondere ad esse {forme} che allora erano
necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a
esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello
stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì
la familiarità imitata sì quella
4067 che adoperavano
ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale,
perciò appunto che la familiarità in genere non era {e non
è} più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli antichi. Il
terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e tutte le risorse
della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè
familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto
dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto,
quale è appunto quello di Cicerone nella
prosa e di Virgilio nella poesia (stile
usato quando la lingua latina era appunto in {quelle
circostanze e} quello stato di capacità in cui è ora la lingua
nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da
quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e
convenevole a una lingua {e letteratura già} perfetta.
(8. Aprile. 1824.).
[4082,2]
Apprendre plusieurs
langues médiocrement, c'est le fruit du travail de quelques années;
parler purement et éloquemment la sienne c'est le travail de toute la
vie.
*
Così dice Voltaire,
la cui lingua pur non era che la francese, riputata la più facile delle
lingue antiche e moderne. Histoire
du Siècle de Louis XIV. chap. 36. Écrivains, art. de Longueruë. (à la Haye 1752-3. t. 3. dans les additions. p.
195-196.)
(26. Aprile. 1824.).
[4088,5]
Nei frammenti delle poesie di Cic. massime in quelli delle sue
traduzioni di Arato, che si
trovano principalmente citati da lui, come
nei libri de Divinat. ec., sono
abbondantissimi i composti, e in particolari[particolare] quelli fatti di più nomi, alla greca (come mollipes), gran parte de' quali, se non la massima,
non debbono avere esempio anteriore, e mostrano essere coniati da lui ad esempio
del greco, e forse per corrispondere a quelli appunto che traduceva. (15.
Maggio. 1824.).
[4090,5]
Alla p. 4081.
L'uomo sarebbe onnipotente se potesse esser disperato tutta la sua vita, o
almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse
durare. (21. Maggio. 1824.).
[4102,5] Al detto altrove pp. 735-40 della somma facoltà e
fecondità della lingua greca, non ancora esaurita nè spenta, aggiungi che oggidì
chi vuol sostituire al suo proprio qualche nome finto espressivo di qualche
cosa, o dar nome significativo a qualche personaggio immaginario, {+come Moliere nel Malato immaginario, nei nomi
de' medici.} o nominar qualche nuovo essere allegorico, o nuovamente
nominare i già consueti ec. ec. non ricorre ordinariamente ad altra lingua
(qualunque sia la sua propria, in tutta l'europa e
america civile) che alla greca. (15. Giugno.
Festa di S. Vito
Protettore di Recanati. 1824.).
[4117,11] Delle idee concomitanti annesse a certe parole,
del che dico altrove pp. 109-11
pp. 1701-706
pp. 1234-36
pp. 3952-54 , v. Thomas, Essai sur les Éloges,
ch. 9. fin. p. 78. œuvres t. 1. Amst.
1774. Dell'influenza della letteratura e filosofia sulla lingua, e
della formazione della lingua latina. ib. p. 112-6. chap. 10. (25.
Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e {{p. 214-15.}}
[4118,3] Delle vicende della lingua francese, v. Thomas l. c. chap. 28. p. 81-97. (26. Agosto.
1824.).
[4147,6]
Posidippe, rival de Ménandre, reproche aux Athéniens comme une
grande incivilité leur affectation de considérer l'accent et le langage
d'Athènes comme le seul qu'il soit permis
d'avoir et de parler, et de reprendre ou de tourner en ridicule les
étrangers qui y manquoient. L'atticisme, dit-il à cette occasion, dans
un fragment cité par ce Dicéarque, ami de Théophraste, dont j'ai parlé plus haut
*
(credo, nei
Geografi greci minori si trova il pezzo di Dicearco), {V. Creuzer,
Meletemata, dov'è il framm. di Dicearco.}
est le
langage d'une des villes de la Grèce;
l'hellénisme celui des autres.
*
I. G. Schweighæuser, note 24.
sur le Discours de La Bruyere sur
Théophraste. Les Caractères de Théophraste,
traduits par La Bruyere,
avec des additions et des notes nouvelles par I. G. Schweighæuser.
ParisRenouard. 1816. tome 3.e des œuvres
de La Bruyere, p.
LIII-IV.
(Bologna. 26. Ottob. 1825.).
[4173,8]
Magnum videlicet
illis
*
(Athenaei) temporibus videbatur, duabus
linguis posse loqui: quod in nescio quo habitum loco miraculi refert
Galenus: δίγλωττóς
τις, inquit, ἐλέγετο πάλαι, καὶ ϑαῦμα τοῦτ᾽ ἦν, ἄνϑρωπος εἷς,
ἀκριβῶν διαλέκτους δύο
*
. Bilinguis olim quidam dicebatur: eratque res
miraculo mortalibus, homo unus duas exacte linguas
tenens.
*
Haec Galenus in secundo de Differentiis
pulsuum.
*
Casaub.
Animadv. in Athenae. lib. 1. cap.
2. (Bologna 14. Aprile.
1826.).
[4191,4] Altro è che una lingua sia pieghevole, adattabile,
duttile; altro ch'ella sia molle come una pasta. Quello è un pregio, questo non
può essere senza informità, voglio dire, senza che la lingua manchi di una forma
e di un carattere determinato, di compimento, di perfezione. Questa informe
mollezza pare che si debba necessariamente attribuire alla presente lingua
tedesca, se è vero, come per modo di elogio predicano gli alemanni, che ella
possa nelle traduzioni prendere tutte le possibili forme delle lingue e degli
autori i più disparati tra se, senza ricevere alcuna violenza. Ciò vuol dire
ch'ella è una pasta informe e senza consistenza alcuna; per conseguente, priva
di tutte le bellezze e di tutti i pregi che risultano dalla determinata
proprietà, e dall'indole e forma compiuta, naturale, nativa, caratteristica di
una lingua. La pieghevolezza, la duttilità, la elasticità (per così dire), non
escludono nè la forma determinata e compiuta nè la consistenza; ma certo non
ammettono i vantati miracoli delle traduzioni tedesche. La lingua italiana
possiede questa pieghevolezza in sommo grado fra le moderne colte. La greca non
possedeva quella vantata facoltà della tedesca.
(Bologna 26. Agosto. 1826.).
[4202,1] La ricchezza della lingua greca, e la decisa
differenza di stili che ella ammetteva, differenza così grande, che faceva quasi
di ciascuno stile una lingua diversa, si può conoscere anche dal veder che gli
antichi ebbero dei lessici voluminosi dedicati a un qualche stile in
particolare, come noi potremmo far lessici a parte per la nostra lingua poetica
o prosaica (due divisioni che la nostra lingua ammette, ma la greca assai più).
Eccovi in Fozio
Bibliot. i capi o codici 146. 147. {Λεξικòν} τῆς καϑαρᾶς
ἰδέας
*
(cioè styli simplicis o cosa
simile). ᾽Aνεγνώσϑη λεξικὸν κατὰ στοιχεῖον καϑαρᾶς
ἰδέας. μέγα καὶ πολύστιχον τὸ βιβλίον· μᾶλλον δὲ πολύβιβλoς ἡ
πραγματεία. καὶ χρήσιμον, εἴπερ τι ἄλλο, τoῖς τòν χαρακτῆρα
μεταχειριζομένοις τῆς τοιαύτης ἰδέας. 147. Λεξικòν σεμνῆς ιδέας.
᾽Aνεγνώσϑη λεξικòν σεμνῆς ἰδέας. εἰς μέγεϑoς ἐξετείνετο τὸ τεῦχος, ὡς
ἄμεινον εἶναι δυσὶ μᾶλλον τεύχεσιν ἢ τρισὶ τoῖς ἀναγινώσκoυσι τὸ
ϕιλοπóνημα
*
(solemnis Photio vox hoc sensu) περιέχεσϑαι. κaτὰ
στοιχεῖον δὲ ἡ πραγματεία. καὶ δῆλον ὡς χρησίμη τoῖς εἰς μέγεϑoς καὶ
ὄγκoν ἐπαίρειν τoὺς λόγους αὐτῶν ἐν τῷ συγγράϕειν ἐϑέλουσιν.
*
146. Lexicon Purae Ideę. Lexicon legi
Ideę purę litterarum ordine. Magnus est hic liber, ut multi potius, quam
unus esse videatur. Utilis autem, si quis alius, iis est, qui hanc Ideam
tractant. 147. Lexicon Gravis styli. Legi Ideae gravioris Lexicon, quod
ipsum quoque in immensum crevit, ut legentibus aptius fore arbitrer, si
in duos opus illud, aut tres tomos distribuatur. Digestum item est
litterarum ordine, patetque utile esse iis, qui sublimi tumidoque
dicendi genere excellere studio habent
*
(Schotti versio.)
(Bologna. 22. Settembre. 1826.).
[4211,7] L'autor greco della Vita di S. Gregorio Papa, detto il Magno, avendo parlato delle
opere di questo Santo, e particolarmente de' suoi Dialoghi,
4212 soggiunge (appresso Fozio. cod. 252. col.
1400. ed. grec. lat. Credo però che questa Vita si trovi stampata intera, e
sarà in fronte alle opp. di S.
Gregorio): ᾽Aλλὰ γὰρ πέντε καὶ ἑξήκοντα καὶ
ἑκατòν ἔτη oἱ τὴν ῥωμαίαν ϕωνὴν ἀϕιέντες τῆς ἐκ τῶν πõνων αὐτοῦ ὠϕελείας
μόνοι ἀπήλαυον. Zαχαρίας δέ, ὃς τoῦ ἀποστολικoῦ ἀνδρὸς ἐκείνου χρόνοις
ὕστερον τoῖς εἰρημένοις κατέστη διάδοχoς, τὴν ἐν τῇ ῥωμαϊκῇ μóνῃ
συγκλειομένην γνῶσιν καὶ ὠϕέλειαν εἰς τὴν ᾽Eλλάδα γλῶσσαν ἐξαπλώσας, κοινὸν τὸ κέρδος τῇ
oἰκουμένῃ πάσῃ ϕιλανϑρώπως ἐποιήσατο. οὐ τοὺς διαλóγους δὲ
καλουμένους μóνους, ἀλλὰ καὶ ἄλλους αὐτοῦ ἀξιολóγοuς πóνους ἐξελληνίσαι
ἔργον ἔϑετο.
*
Ma per ispazio di 165 anni, solamente quelli che
parlano latino godettero della utilità delle sue opere. Poi Zacaria, che in capo al detto
spazio di tempo successe a quell'apostolico uomo (nel papato),
trasportati in lingua greca i colui scritti, fece cortesemente comune a
tutta la terra la notizia e la utilità di quelli, ristretta fino allora
ai soli Latini. E non solo i così detti dialoghi, ma prese anche a
voltare in greco altri scritti del medesimo degni di
considerazione.
*
- Testimonianza insigne della universalità della lingua
greca
{eziandio} ai tempi dello scrittore di questa
Vita, cioè, credo, nel sesto secolo, se costui fu
contemporaneo o poco posteriore al detto Zaccaria papa. (Bologna. 5. Ott.
1826.)
[4216,1] Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di
filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più
stimati) περὶ ἑρμηνείας, della
elocuzione, sezione 67. parlando delle figure
della {dizione} (σχήματα τῆς λέξεως {+opposte a σχήματα τῆς διανοίας
sententiarum o sententiae: λέξεως verborum.}), le quali non sono altro
che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso ec. sgrammaticature
*
, direbbe
l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa
abbondanza, chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa
disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. {Non bisogna tuttavolta usar le
figure a man piena: cosa goffa e che ec.} Gli antichi, i
quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più
familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza
figure. {La cagione è che} quelli le
adoperano con arte.
*
χρῆσϑαι μέν τοι τoῖς σχήμασι μὴ πυκνoῖς: ἀπειρόκαλον
γὰρ καὶ παρεμϕαῖνóν
4217 τινa τοῦ λóγου
ἀνωμαλίαν. Oἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ὲν τoῖς λóγοις τιϑέντες,
συνηϑέστεροι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως
τιϑέναι)
*
. L'osservazione è verissima in tutte le lingue; la
causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure
naturalmente, senz'arte, e per non saper bene le regole generali della
grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono
irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati,
diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon {effetto o}
successo è da attribuirsi all'arte. Concedete qualche coserella alla natura,
{ed anche all'ignoranza,} benchè voi siate un
maestro di arte rettorica.
{{V. p.
4222.}}
[4223,1] Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena
osservata e accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non
sia una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di notabile
v'ha nel suo libro. (Bolog. 17. Ott. 1826.).
{{v. p. 4224.}}
[4233,1]
4233 Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente
delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno
accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La
durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da
oriuolo sono un'ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non
esiste, nè da se medesima, nè nel tempo, come membro di esso, non più di quel
che ella esistesse prima dell'invenzione dell'oriuolo. In somma l'esser del
tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del considerar che noi
facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter
essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è,
sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi
stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una
proprietà del nulla l'esser luogo: proprietà negativa, giacchè anche l'esser di
luogo è negativo puramente e non
altro. Sicchè, come il tempo è un modo o un lato del considerar la esistenza
delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che
noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e {il} nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che
eziandio fuori degli ultimissimi confini dell'universo esistente, v'è spazio,
poichè nulla v'è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da
quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla
che le impedisse di andarvi o di starvi. La conclusione {si} è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi
nomi. E quelle innumerabili e immense quistioni agitate dalla origine della
metafisica in qua, dai primi metafisici d'ogni secolo, circa il tempo e lo
spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d'idee e
poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il
tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e
per se medesimi, e sian qualche cosa. (Recanati.
14. Dic. 1826.).
[4240,2] Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion
dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni
dell'arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi
degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente
ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico.
Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare {con quanto si
sia successo,} la perfezion dello stile nelle lingue vive, quanto
cercarla {ed anco trovarla} nelle morte, come facevano
molti illustri italiani del cinquecento nella latina. (2.
1827.).
[4246,1]
4246 Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove
ec. pp. 2533-36
V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spino, leggiadre rime
*
ec. e la Risposta del Tasso. (ed.
del Mauro, t. 6.).
{{V. ancora il Guidiccioni nelle Lett.
di div. eccellentiss. uom.
Ven.
Giolito.
1554. p. 43-48.}}
[4249,3] Il Bembo
fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell'800. Simili negli effetti che hanno
operati, e nelle circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e
nelle opinioni, cioè nella divozione al 300. ec. Ma similissimi anco nell'esser
loro naturale (lasciando l'esser vicini di patria, e d'una provincia stessa).
Molta lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso,
acquistata per l'arte. Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, {di felice vena,} ne' loro scritti. Aridità, {sterilità, nudità} e deserto universalmente. Pochi o
niuno de' nostri autori e libri che hanno avuto fama e che si stampano ancora,
furono mai così poveri per questa parte, come il Bembo e gli scritti suoi. (27. Feb.
1827.).
[4250,3] Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose
Isocrate circa la collocazione
delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l'avesse egli posta,
4251 fuorchè a proccurare la più perfetta, la più
squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza. Questa dote non si
osserva negli altri autori che l'hanno, se non in quanto nel leggerli non si
patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perchè non
solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli
altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un
sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che
si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà
ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel
gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto,
si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non
credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è
Isocrate (e certo senza compagni)
nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è
pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del
mondo. Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio
Isocrate cercasse gli altri pregi
della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; + [p.
4251,3] difficoltà certo {grandissima,} ed inceppamento; {come ognun
vedrebbe provandovisi;} il quale però non ha punto impedito quella
maravigliosa facilità. (7. Marzo. Mercordì di quattro tempora.
1827.).
[4257,10] Noi diciamo rondinella
{(o rondinetta)} per vezzo, e
in verso e in prosa: così i nostri antichi scrittori: e val quanto rondine nè più nè meno. Non è ancor positivato, cioè
non ha perduto il suo sentimento vezzeggiativo: ma può esser esempio di come
l'hanno perduto gli altri diminutivi di animali e di piante, a forza di usarsi
{così} semplicemente in cambio del positivo, andato
a poco a poco, bene spesso, in disuso. (19. Marzo. Festa di S. Giuseppe. 1827.). Così
pecorella ec. ec. {{I francesi
dicono già hirondelle positivo, anticamente aronde.}}
[4273,2]
Nella version latina di quel passaggio del
Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della
toilette, fatta dal Dr. Parnell (versione assai bizzarra, e che
parrebbe piuttosto fatta nell'ottavo secolo che nel decimottavo, poichè
consiste di versi dei quali ogni mezzo verso rima coll'altro mezzo, p. e.
Et nunc dilectum speculum, pro
more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide
densa,
*
che sono i primi), trovo questi due versi, di
séguito: Induit arma ergo Veneris
pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore
crescens,
*
dove, come si vede, ergo fa rima con virgo, e
praesens con crescens.
Che dicono gl'italiani di questa pronunzia?
(Recanati. 5. Aprile. 1827.). {{V. p.
4497.}}
[4280,4] Dico altrove p. 965
pp. 2869-75 che la
moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che
aveva il suono della parola in latino, {+e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.} Il
simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che
la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler,
miaulement
{parole} espressive della voce del gatto, nella lor
forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella
pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del
gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare
(o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'
4281 uno e l'altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto
affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e
non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).
[4284,2] Una delle cause della imperfezione e confusione
delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette
all'alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha
quell'alfabeto. Ciò si vede specialmente nell'inglese, dove per conseguenza uno
stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola
fissa, e servire a più suoni. I caratteri dell'alfabeto latino non bastano a
molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più
imperfette, quanto le lingue sono più
4285 distanti per
origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado
di ogni repugnanza, furono architettate.
[4291,2] Dice la Staël che la lingua tedesca è una scienza, e lo stesso si può, e con
più ragione ancora, dir della greca. Quindi è accaduto che siccome le scienze si
perfezionano, e i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più
numerose e accurate osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del
greco, dal rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e
che i moderni sono in essa d'assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e
forse in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così favolosamente
trattata da Platone), agli stessi greci
antichi; anzi, che gli scolari di greco oggidì, ne sappiano più de' maestri de'
passati tempi. E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse
arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade
della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, nè si può
conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, nè
4292 basta l'avere spesa tutta la vita in questo
studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto.
(Firenze. 20. Sett. 1827.)
[4294,1]
4294 La differenza tra le voci di origine volgare, e
quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può
vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e
scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo,
un'altra, tutta differente, {+V. qui
sotto.} P. e. causa lat., corrotta
di forma e di significato dall'uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura
e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione.
Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora
volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè
nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de' passati secoli
dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e
senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in
origine sia la stessa. Franc. chose - cause, Spagn. cosa - causa ec. (Firenze. 21.
Sett. 1827.). {{Leale, loyal, leal (spagn.) -
legale, légal, legal.}}
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Lingua poetica, in che consista ec. ec. (1827) (4)
77. Grazia attica. La grazia d'una lingua è cosa diversa da tutte l'altre sue doti. Non si può derivare se non da un linguaggio usato veramente nel favellare. (varia_filosofia) (2)
Semplicità. (1827) (2)
Ubbriachezza. (1827) (2)
Progressi dello spirito umano. (1827) (4)
Immaginazione, quanto serva al filosofare. (1827) (2)
Entusiasmo. (1827) (2)
Disperazione. (1827) (4)
Greca (lingua), se avesse tenuto e tenesse in il luogo della latina, gran vantaggio ne seguirebbe. (1827) (16)
Educazione. Insegnamento. (1827) (2)
Vago. Piacere del vago o indefinito. (1827) (4)
Piacere (Teoria del). (1827) (6)
, e il suo libro (1827) (4)
Arcaismi. Scrivere all'antica. (1827) (12)
Manuale di filosofia pratica. (pnr) (2)
Proprietà delle parole. (1827) (6)
Brevità nella lingua, scrittura ec. (1827) (2)
Metafore. (1827) (8)
Rimembranze. (1827) (4)
Barbarismi. (1827) (2)
Modo in cui le grandi verità si scuoprono. (1827) (2)
Orientali. (1827) (2)
Idee, quanto legate colle parole. (1827) (12)
Stile. Può esso solo costituir poesia; e per avere semplicemente stile poetico, bisogna essere vero poeta. (1827) (16)
. . (1827) (2)
Vocabolario della Crusca. (1827) (2)
Vigore corporale. (1827) (2)
Perchè scrivesse il suo libro in greco. (1827) (4)
I moderni, propriamente non possono averne. (1827) (4)
Letteratura. (1827) (4)
Francese (poesia). (1827) (12)