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23. Luglio 1823.

[3009,1]  {Alla p. 2841.} Lo stile e il linguaggio poetico in una letteratura già formata, e che n'abbia uno, non si distingue solamente dal prosaico nè si divide e allontana solamente dal volgo per l'uso di voci e frasi che sebbene intese, non sono però adoperate nel discorso familiare nè nella prosa, le quali voci e frasi non sono per lo più altro che dizioni e locuzioni antiche, andate, fuor che ne' poemi, in disuso; ma esso linguaggio si distingue eziandio grandemente dal prosaico e volgare per la diversa inflessione materiale di quelle stesse voci e frasi che il volgo e la prosa adoprano ancora. Ond'è che spessissimo una tal voce o frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo, e prosaica, anzi talora affatto impoetica, anzi pure ignobilissima e volgarissima in un altro modo. E in quello è tutta elegante, in questo affatto triviale, eziandio talvolta per li prosatori. Questo mezzo di distinguere e separare il linguaggio d'un poema da quello della prosa e del volgo inflettendo o condizionando diversamente  3010 dall'uso la forma estrinseca d'una voce o frase prosaica e familiare, è frequentissimamente adoperato in ogni lingua che ha linguaggio poetico distinto, lo fu da' greci sempre, lo è dagl'italiani: anzi parlando puramente del linguaggio, e non dello stile, poetico, il detto mezzo è l'uno de' più frequenti che s'adoprino a conseguire il detto fine, e più frequente forse di quello delle voci o frasi inusitate.
[3010,1] Or questa diversa e poetica inflessione e pronunzia de' vocaboli correnti, che altro è per l'ordinario, se non inflessione e pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ed ora andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo che quelle parole così pronunziate e scritte non altro sono veramente che parole antiche e arcaismi, in quanto così sono scritte e pronunziate? nè altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze, voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella riflessione di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p. 131-2. Certo questa diversità d'inflessione per la più parte non è se  3011 non quello ch'io dico: così ne' poeti greci, così ne' latini (più schivi però dell'antico, e quindi il loro linguaggio poetico è assai meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che il greco), così negl'italiani. Perocchè non è da credere che {la inflession d'}una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più elegante o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più conforme all'etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno trita dall'uso familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo ricercata. (Anzi bene spesso è trivialissima l'inflessione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in altro luogo pp. 2075-76). E questo non esser trita, nè anche ricercata, ma pur bene intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale inflessione della medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto {o l'infletterla secondo questo} fa ch'ella non riesca trita all'universale, ma difficilmente può far ch'ella e non paia ricercata e sia bene intesa da tutti. {+Oltre ch'ella riesce anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto è proprio.} In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all'eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove le  3012 le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari d'italia fanno molto mala riuscita, nè la poesia nostra, nè verun savio tra' nostri o poeti o prosatori ha mai voluto imitar Dante nell'uso de' dialetti, non solo generalmente, ma neppure in ordine a quelle medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui adoperate. Circa l'uso e mescolanza de' dialetti greci nella inflessione delle parole appresso Omero, non volendo rinnovare le infinite discussioni già fatte da tanti e tanti in questo proposito, solamente dirò che o le circostanze della Grecia e d'Omero erano diverse da quelle che noi possiamo considerare, e quindi per l'antichità ed oscurità della materia non potendo nulla giudicarne di certo e di chiaro, niuno argomento ne possiamo dedurre; ovvero (e così penso) quelle inflessioni che in Omero s'attribuiscono a' dialetti, e da' dialetti si stima che Omero le prendesse, {o tutte o gran parte} erano in verità proprie della lingua greca comune del suo tempo, o d'una lingua, o vogliamo dir d'un uso più  3013 antico ancora di lui; dalla qual lingua comune, o {{fosse}} più antica, o allora usitata, Omero tolse quelle inflessioni ch'egli si stima aver pigliato da questo e da quel dialetto indifferentemente e confusamente. Non volendo ammetter nulla di questo, dirò che in Omero la mescolanza de' dialetti dovè riuscir così male come in Dante. Circa i poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che scrissero in dialetti privati, come Saffo, Teocrito ec.) seguirono interamente Omero, come in ogni altra cosa, così nella lingua, e da lui tolsero quanto il loro linguaggio ha di poetico, cioè della sua lingua formarono quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia linguaggio poetico comune, la questione non è difficile a sciogliere. Perocchè quelle inflessioni ch'essi adoperavano, benchè proprie di particolari dialetti, essi non le toglievano da' dialetti ma dal dialetto o linguaggio Omerico, di modo ch'elle riuscivano eleganti e poetiche, non in quanto proprie di privati dialetti, ma in quanto antiche ed Omeriche; ed erano bene intese  3014 dall'universale della nazione, nè parevano ricercate perchè tutta la nazione benchè non usasse familiarmente nè in iscrittura prosaica le inflessioni e voci Omeriche, le conosceva però e v'aveva l'orecchio assuefatto per lo gran divulgamento de' versi d'Omero cantati da' rapsodi per le piazze e le taverne, e saputi a memoria fino da' fanciulli. {#1. V. p. 3041.} Il che non accadde a' poemi di Dante, il quale non fu mai in italia neppur poeta di scuola, come Omero in grecia presso i grammatisti medesimi, o certo presso i grammatici (vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p. 583. not. 5.); nè il dialetto o linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d'alcuni pochi e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli Uberti, l'autore del Quadriregio Federico Frezzi, ed alcuni dell'ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua del Petrarca è quella di Dante, nè da lui fu presa, nè punto si serve de' particolari dialetti.
[3014,1]  Non potendo dunque i dialetti somministrare inflessioni rimote dall'uso corrente  3015 che siano adattate al linguaggio poetico, resterebbe per allontanar le voci comuni dalla prosa e dall'uso, che il poeta le ravvicinasse alla etimologia ed alla forma ch'elle hanno nella lingua madre, qualvolta nell'uso comune e prosaico elle ne sono lontane. Questo mezzo è possibile e buono e spesso adoperato da' poeti quando la nazione è già colta e dotta, e la letteratura nazionale già formata. Ma ne' principii ciò è ben difficile e pericoloso, prima perchè dalla nazione ignorante quelle voci in tal modo rimutate corrono rischio di non essere intese; poi perchè presso la nazione non avezza[avvezza] un tal rimutamento corre rischio di saper di pedanteria (il qual rischio dura eziandio proporzionatamente nel séguito) e di riuscire affettato. Onde la stessa difficoltà che in quei principii si {opponeva,} come ho detto (p. 2836-7.) al dedur più che tante voci o frasi nuove dalla lingua madre, quella medesima si opponeva a dedur da essa lingua inusitate inflessioni e diverse dalle correnti.
[3016,1]   3016 Resta dunque per allontanar dall'uso volgare le voci e frasi comuni, l'infletterle e condizionarle in maniere inusitate al presente, ma dagli antichi nazionali, parlatori, prosatori, o poeti usitate, e dalla nazione ancor conosciute, e conservate di mano in mano negli scritti di quelli che cercando l'eleganza proccurarono di scostarsi mediocremente dal volgo. Per le quali cose tali inflessioni non producono nè oscurità nè ricercatezza, benchè riescano pellegrine e rimote dall'uso, e perciò producano eleganza. Questo mezzo è usitatissimo da' poeti quando la nazione è colta, formata la letteratura, e quando la lingua scritta ha un'antichità. Con esso principalmente si forma, si compone, si stabilisce a grado a grado un linguaggio poetico che tuttavia più si va differenziando dal prosaico e dal familiare, finchè giunge a quel punto di differenza, oltre il quale non è bene ch'egli trapassi. Ma questo mezzo necessario all'eleganza, necessarissimo a potere avere o formare un linguaggio distintamente poetico e proprio della poesia, manca  3017 affatto ai primi scrittori e poeti di qualsivoglia nazione, i quali non trovano antichità di lingua scritta, non ponno se non debolmente, confusamente e scarsamente conoscere le antichità della lingua parlata, e conoscendole ancora, o in quanto le conoscono, non ponno se non molto parcamente adoperarla per non riuscire oscuri e affettati alla nazione ignorante, e non assuefatta ad altro linguaggio {nazionale mai se non solo} al suo corrente e giornaliero. Quindi è che quei primi poeti e e scrittori debbono necessariamente rivolgersi al linguaggio per la più parte, e in genere, familiare, e conseguentemente eziandio pigliare un[uno] stile che sappia sempre più o meno di familiare, in qualsivoglia materia ch'ei trattino e genere di scrittura ch'egli esercitino. (23. Luglio 1823.).