24. Feb. 1821.
[685,1] La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto
alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch'è barbaro, ma
anche, (e questo è il principale) di cadere in quella timidità povertà,
impotenza, secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata
più volte nella lingua francese. In fatti da un secolo e più, ella ha perduto,
non solamente l'uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi,
e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente
consisteva la facilità, l'onnipotenza, la varietà,
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la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la
proprietà (ἰδιώτης), la pieghevolezza sua. Non parlo mica di quelle inversioni e
trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina,
sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e
riconosciuti da nessun buono scrittore italiano. Ma parlo di quella libertà, di
quelle tante e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua nostra
si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile di tutti gli
stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido, nel monotono, nel
matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel genio,
nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e specificatamente
alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle forme particolari e
speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche nella specie: siccome alla
latina si accosta sommamente per la qualità individuale de' vocaboli e delle
frasi. Ma oggidì ella va a perdere, anzi ha già perduto presso
687 il più degli scrittori, le dette qualità che sono sue vere,
proprie, intime, e native; e dico anche presso quegli scrittori che a gran
fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi. (e qui riferite quello che ho
detto altrove p. 111, come in detti scrittori facciano pessima
comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per quanto
non sia barbara, non è l'italiana: {e gli antichi accidenti
in una sostanza tutta moderna e diversa.}) E così anche la lingua
nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non
erro, il Fénélon, della francese. Del
che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la
inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la
lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per
sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorchè conservi le
parole e i modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese,
laddove ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata
al suo soggetto, o anche a questo
688 e a quello
scrittore; e così divenuta impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti
gli stili (secondo la sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue,
come le antiche, non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il
linguaggio magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si
chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale infatti
ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella
poesia italiana moderna de' volgari poeti. Come appunto è accaduto alla lingua
francese, perchè ancor ella da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al
secolo di Luigi 14 non era punto unica,
ma {l'indole sua primitiva e propria} somigliava
moltissimo all'indole della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena
d'idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore (notate
questo, che forma la difficoltà dello {scrivere, come pure
dell'intendere la} nostra lingua a differenza della francese) e
suscettibile di prendere quella forma e quell'abito che il soggetto richiedesse,
o il carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata
689 a diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia,
di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva
degli ardiri com'è poi divenuta;
parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi,
all'intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua
italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena
di sève, di sangue e di colorito ec. ec. Delle quali
proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di quel tempo. Talmente che s'ella fosse
rimasta quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir
tutto. E s'ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di
cultori quante[quanto] n'ebbe l'italiana, che
l'avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d'allora, alla
perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo ch'io
dico
690 della prima e originale natura della lingua
francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla considerazione de' loro
antichi scrittori, ma non si può pienamente sentire, perch'ella non ebbe
scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta. Nè quel
primo genere prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e
universale nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni
possibile genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri
esattissimamente esposti {e ordinati,} che un discorso.
Dove l'intelletto {e l'utilità} non desidera nulla, ma
l'immaginazione il bello, {il dilettevole} la natura, i
sensi ec. desiderano tutto. (24. Feb. 1821.).