14. Nov. 1820.
[324,1]
324 Dalle sopraddette considerazioni osserverai quanto
sia giusta la maraviglia e degna la lode di quelli che dicono che in
Francia da Luigi
14. in poi non si disputa più della lingua, e si scrive bene, laddove
in italia si disputa sempre della lingua e si scrive
male. Prima di Luigi 14. quando la
lingua francese non era ancora geometrizzata, e ridotta a una processione di
collegiali, come dice Fénélon, {sic}come si poteva scriver meglio di adesso, così anche
si potea scriver male.
[324,2]
Demetrio Falereo
τῶν τετυϕωμένων
ἀνδρῶν ἔϕη τὸ μὲν ὕψος δεῖν περιαιρεῖν, τὸ δὲ ϕρόνημα
καταλιπεῖν
*
. (Laerz in
Demetr. l. 5. seg.
82.) Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat circumcidi oportere
altitudinem, opinionem autem de se relinquere
*
. Così
l'interprete benissimo. Scioccamente Merico
Casaubono nella nota ad alcune parole dello stesso segm. poco
addietro.
[324,3]
Τοὺς
ϕίλους ἐπὶ τὰ ἀγαϑὰ παρακαλουμένους ἀπιέναι, ἐπὶ δὲ τὰς συμϕοράς,
αὐτομάτους
*
(subint. δεῖν, quod est in superioribus) Detto
dello stesso, appo il Laerz. l. c. segm. 83.
[324,4] Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più
efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura.
[324,5] A quello che ho detto poco sopra di Teofrasto,
325 aggiungi i
suoi caratteri, dove
com'è noto, e forse superiormente a qualunque scrittore antico, massimamente
greco e prosatore, si dimostra molto avanzato nella scienza del cuore umano. Ora
chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la vanità delle
illusioni, e inclina alla malinconia, tanto più che la base di questa scienza è
la sensibilità e suscettibilità del proprio cuore, nel quale principalmente si
esamina la natura dell'uomo e delle cose. (V. quello ch'io dirò in questi
pensieri intorno al Massillon) Del
rimanente Teofrasto liberò due volte
la sua patria dalla tirannide. Plutarco, adversus
Colot. in fine. p. 1126. f. Non se n'ha altra
testimonianza che questa, come apparisce dal Fabricio.
[325,1] Come i più ardenti zelatori delle illusioni sono forse
quelli che ne conoscono e sentono più vivamente e universalmente {la vanità,} così i loro più ardenti impugnatori son
quelli che non la conoscono bene, o se la conoscono bene, non la sentono
intimamente e in tutta l'estensione della vita; cioè la conoscono in teoria, ma
non in pratica. Tali sono gli spregiudicati e gl'intolleranti filosofici de'
nostri giorni.
326 Perchè se la conoscessero e
sentissero, e ne comprendessero tutta l'immensa estensione, se ne
spaventerebbero, la mancanza di esse illusioni torrebbe loro quasi il respiro,
cercherebbero di rifugiarsi un'altra volta nel seno dell'ignoranza o
dimenticanza del vero, e del crudelissimo dubbio (dimenticanza che non gli
alienerebbe, anzi li ricondurrebbe alla religione), di richiamar l'attività ec.
Se non altro non sarebbero così ardenti nel combattere le illusioni, non
cercherebbero gloria nel dimostrar la vanità di tutte le glorie, non porrebbero
molta importanza nel dimostrare {e persuadere} che
nulla importa, e per conseguenza neanche questa dimostrazione.
[326,1] Dicono che la felicità dell'uomo non può consistere
fuorchè nella verità. Così parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia
falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render
felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell'ignoranza del vero. E
questo, appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e perchè la natura ha
fatto l'uomo felice. Ora essa l'ha fatto anche ignorante, come gli altri
animali. Dunque l'avrebbe fatto
327 infelice esso, e le
altre creature; dunque l'uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure le altre
creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari moltissimi
secoli perchè l'uomo acquistasse il complemento, anzi il principale
dell'esistenza, ch'è la felicità (giacchè nemmeno ora siam giunti all'intiera
cognizione del vero); dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente
infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidì;
dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione
del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl'individui) sono
usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura. E la perfezione
consiste nella felicità quanto all'individuo, e nella retta corrispondenza
all'ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest'ordine in
un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l'ignoranza è
incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E se
la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perchè,
supponendo che l'abbia posta riguardo all'uomo nella cognizione del vero, ha
nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli non bastano a
discoprirlo?
328 Non sarebbe questo un vizio organico,
fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso così
difficile il solo mezzo di ottener quello ch'ella voleva soprattutto, e si
prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la felicità dell'uomo il quale tiene
evidentemente il primo rango nell'ordine delle cose di quaggiù? Come ha
ripugnato con ogni sorta di ostacoli a quello ch'ella cercava? Ma l'uomo dovea
ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi
consideriamo come brutale; non però dovea mettersi in un altr'ordine di cose, e
considerarsi come appartenente ad un'altra categoria, e porre la sua dignità,
non nel primeggiare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi
assolutamente fuori della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e
indipendenti dalle leggi universali della natura. (14. Nov.
1820.).