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19 Dicembre, 1819 - 7 Gennaio, 1820.

[85,1]   85
Cum pietatem funditus amiserint
Pi[Pii] tamen dici nunc maxime reges volunt.
Quo res {magis} labuntur, haerent nomina.
[85,2]  Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla.
[85,3]  Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo la trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l'uomo in comparazione di questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.
[85,4]  Uomo colto in piena campagna da una grandine micidiale e da essa ucciso o malmenato rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi il capo colle mani ec. soggetto di una similitudine.
[85,5]  Quando le sensazioni d'entusiasmo ec. che noi proviamo non sono molto profonde, allora cerchiamo di avere un compagno con cui comunicarle, e ci piace il poterne discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che vedendo una bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la belle campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere  86 il diletto di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello degli altri. Ma quando l'impressione è profonda accade tutto l'opposto perchè temiamo, e così è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal chiuso delle nostre anime, per esporla all'aria della conversazione. Oltre ch'ella ci riempie in modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci lascia campo di pensare ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una certa attenzione che ci distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente importuna, ma impossibile.
[86,1]  Dice la Staël (Corinne liv. 18. ch. 4) parlando de la statue de Niobé: sans doute dans une semblable situation la figure d'une véritable mère serait entièrement bouleversée; mais l'idéal des arts conserve la beauté dans le désespoir; et ce qui touche profondément dans les ouvrages du génie, ce n'est pas le malheur même, c'est la puissance que l'ame conserve sur ce malheur * . Bellissima condanna del sistema romantico che per conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire l'affettazione che dai moderni è stata pur troppo sostituita alla dignità, (facile agli antichi ad unire colla semplicità che ad essi era sì presente e nota e propria e viva) rinunzia ad ogni nobiltà, così che le loro opere di genio non hanno punto questa gran nota della loro origine, ed essendo una pura imitazione del vero, come una statua di cenci con parrucca e viso di cera ec. colpisce molto meno di quella che insieme colla semplicità e naturalezza conserva l'ideale del bello, e rende straordinario quello ch'è comune, cioè mostra ne' suoi eroi un'anima grande e un'attitudine dignitosa, il che muove la maraviglia e  87 il sentimento profondo colla forza del contrasto, mentre nel romantico non potete esser commosso se non come dagli avvenimenti ordinari della vita, che i romantici esprimono fedelmente, ma senza dargli nulla di quello straordinario e sublime, che innalza l'immaginazione, e ispira la meditazione profonda e la intimità e durevolezza del sentimento. E così ancora si verifica che gli antichi lasciavano a pensare più di quello ch'esprimessero, e l'impressione delle loro opere era più durevole.
[87,1]  Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l'impossibilità d'esser felice, e la somma e certa infelicità dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, nè perdere e soffrire più di quello ch'ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo l'indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure, o l'idea e l'atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l'ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicità. V. Staël Corinne, l. 17. c. 4. 5me édition Paris 1812. p. 184. 185. t. 3.
[88,1]   88 Je vous l'ai dit souvent, la douleur me tuerait; il y a trop de lutte en moi contre elle; il faut lui céder pour n'en pas mourir * , dice Corinna presso la Staël liv. 14. ch. 3. t. 2. p. 361. dell'edizione citata qui dietro. E da questo venia che gli antichi al carattere dei quali l'autrice ha voluto ravvicinare quello di Corinna quanto era compatibile coi costumi e la filosofia moderna di cui l'arricchisce a piena mano, erano vinti dall'infelicità in modo che esprimevano la loro disperazione cogli atti e le azioni più terribili, e la sventura li mandava fuori di se stessi, e gli uccideva. Quel se réposer sur sa douleur * , quel piacere perfino provato dai moderni per la stessa sventura e {per} la considerazione di essere sventurato, era cosa ignota a quelli che secondo l'istinto della natura non ancora del tutto alterata, correvano sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale, e trovavano il loro diletto dove la natura primitivamente l'ha posto, cioè nella buona e non nella cattiva fortuna, la quale quando loro sopravvenniva, la riguardavano come propria, non come universale e inevitabile. Nè il desiderio della felicità era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e da nessuna filosofia. Perciò tanto più formidabile era l'effetto di quanto impediva loro l'adempimento di questo desiderio.
[88,2]  Les habitans du midi craignant beaucoup la mort, l'on s'étonne d'y trouver des institutions qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature d'aimer à se livrer a[à] l'idée même que l'on redoute. Il y a comme un enivrement de tristesse qui fait à l'ame le bien de la remplir tout entière * . Corinne. l. 10. ch. 1 t. 2. p. 115. edizione cit. {qui dietro}.  89 A questo proposito si può notare quella indistinta e pur vera voglia che noi proviamo avendo p. e. in mano una cosa fetente di sentirne fuggitivamente l'odore. Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla così di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente altrove. {+V. a tal proposito un luogo notabile di Platone, opp. ed. Astii, t. 4. p. 236. lin. 8-16.} E così di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e il non volere ci lasci andare un'occhiata. Similmente se ti si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche {cosa} che ti faccia vergognare teco stesso ec. La ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell'ignoto ci fa più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa {o ci abbrividisce} o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così credo, proviene dall'amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dell'ordine comune, quantunque ci paia  90 più grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell'agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che il vuoto dell'anima {ch'è} riempito, come ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto. E in fine può anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni dal loro fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p. e. chirurgica con troppa intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non trovarla, la fa perdere ec.
[90,1]  L'orrore e il timore della fatalità e del destino si trova più (anche oggidì che la superstizione è quasi bandita dal mondo) nelle anime forti e grandi, che nelle mediocri per cagione che i desideri e i fini di quelle sono fissi, e ch'elle li seguono con ardore, con costanza, e risoluzione invariabile. Così era più ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la forza {e la magnanimità} erano virtù molto più ordinarie che fra i moderni. E vedendo essi che spesse volte anzi frequentissimamente i casi della vita si oppongono ai desideri dell'uomo, erano compresi da terrore per la ragione della loro immobilità nel desiderare o nel diriggere le loro azioni a quel tale scopo che forse e probabilmente non avrebbero  91 potuto conseguire. Infatti nella infinita varietà dei casi è molto più improbabile che segua precisamente quello a cui tu miri invariabilmente, che gl'infiniti altri possibili. Ora accadendone piuttosto un altro non è effetto di destino fisso che ti perseguiti, ma di cieco accidente. Essi tuttavia com'è naturale come per un'illusione ottica {o meccanica} confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora confondono) l'immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l'immobilità stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino. Laddove gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella moltiplicità dei loro fini, e si abbattono più facilmente a {uno o più di} quelli che desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza difficoltà all'andamento delle cose, e da questo si lasciano trasportare, piegare, regolare, andando a seconda degli avvenimenti. Così essi non avendo immobilità in loro, nè vedendo la somma difficoltà di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l'intelletto più libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un'opposizione forte e stabile, (la qual forza e stabilità non è veramente se non nella resistenza che le anime grandi oppongono agl'instabilissimi e casuali avvenimenti) ma considerano tutto come effetto del caso, e delle combinazioni, siccom'è infatti. Aggiungi l'invariabilità non solo dei fini, ma anche dei mezzi nei primi, (cioè ne' magnanimi) che non permette loro di cambiar principii, nè di regolare le loro azioni a norma degli avvenimenti, ma li conserva sempre costanti nel loro proposito e nel modo di seguitarlo, mentre il contrario accade nei secondi. E anche senza nessun proposito nè scopo, si vedrà che la sola fermezza e immutabilità del carattere, fa illusione sulla forza del destino ch'essendo  92 così vario pare immutabile a quelli che non vedono se non una sola via, {una sola maniera di contenersi di pensare e operare,} una sola sorta di avvenimenti, e come questi dovrebbero o pare a loro che dovrebbero accadere. E questo timore del destino si trova in conseguenza più o meno anche negli spiriti mediocri, o puramente ragionevoli e filosofici ec. quando provano qualche desiderio o mirano a qualche fine in modo che divengano immobili intorno a quel punto. V. Staël, Corinne l. 13. c. 4. p. 306, t. 2, edizione citata poco sopra. L'illusione che ho detto si può in qualche modo paragonare a quella che noi proviamo credendo la terra immobile perchè noi siam fermi su di lei, quantunque ella giri e voli rapidissimamente. E già si sa che anche nei magnanimi ella è più viva e presente secondo che essi si trovano in circostanze di desideri e mire più vive, determinate e focose forti ferme ec. nelle grandi passioni ec.
[92,1]  La società francese la quale fa che l'esprit naturel se tourne en épigrammes plutôt qu'en poésie * , dice la Staël, (vedila, Corinne, liv. 15, chap. 9. p. 80. t. 3. edizione citata da me alla p. 87) rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati come sono a dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li renda gradevoli, un'aria di novità, una grazia ascitizia, un garbo proccurato ec. ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non {li} disobblighi da quello a cui gli obbliga la raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di società è così grande, anzi è l'anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo contrario credendo che quest'obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare (e con ragione avuto riguardo al gusto de' lettori nazionali che altrimenti li disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella conversazione per renderla aggradevole e piccante ec. e però il loro stile è così diverso da  93 quello de' greci e de' latini e degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino quella prima frase che si presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E però le grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere quello ch'essi chiamino naturalezza e semplicità, {come} p. e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti. In luogo della[delle] grazie naturali il loro stile è tutto composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in astratto quando paragonano lo stil francese all'italiano p. e. o al latino ec. parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla costruzione del periodo, e divisione del discorso ec. paragonata con quella delle altre lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese sono affatto straordinari e sarebbero fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno ragione da un lato, ma dall'altro non conoscono quella semplicità così intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza la politezza la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura espressione de' sentimenti che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve novità {e grazia} piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall'abitudine della conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè ai francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch'era  94 proprio dei greci, e con una certa proporzione, de' latini, e degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de' trecentisti ec. i quali sono intraducibili nella lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi sempre vantano la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi, e di uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile che si possa immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel loro stile di società e di conversazione ch'essi chiamano semplice (e ch'è divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse sieno lontane dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale. Qui comprendo anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella generale osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca italiana che le traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e diverso dallo stile {originale} e anche dalle parti più essenziali di esso, e anche da' sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non però suo proprio ma similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue moderne, all'italiano) si allontanino dall'indole della presente lingua francese, non solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente nelle forme sostanziali, e nell'insieme dello stile, che ora di francese non può avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato anche ogni vestigio d'arcaismo. E scommetto ch'egli riesce più facile a intendere agl'italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue classiche.
[94,1]  Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perchè noi  95 pensiamo parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl'infiniti particolari del pensiero. Il posseder più lingue e il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un'altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da esprimere in un'altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci seco noi e d'intenderci noi medesimi, applicando la parola all'idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l'uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità {e consistenza} e ci rimane ben definita e fissa nella mente {, e ben determinata e circoscritta.} Cosa ch'io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perchè un'idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita. {{Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.}}
[95,1]  Spesse volte il caso ha renduto espressivissima una parola che parrebbe perciò originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d'etimologia. P. e. nausea quella parola sì espressiva presso i latini e gl'italiani (v. questi pensieri p. 12.) deriva dal greco ναῦς nave, onde ναυτία, ionicamente ναυσία e in latino nausea perch'ella suole accadere ai naviganti.
[95,2]  Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea all'imboccatura del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio [Aeneid 8. 42 ff.,] avesse qualche altro significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi diamo alle  96 porche, e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell'animale {o quell'oggetto materiale} ch'è chiamato con un nome simile al loro. {{V. la Cron. d'Euseb. l. 1. c. 46. e nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un latino. v. p. 511, capoverso 1.}}
[96,1]  In proposito di quello che ho detto p. 76. e segg. in questi pensieri si può osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di straordinario e passeggero vigore, come avendo {fatto} uso di liquori che esaltino le forze del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all'entusiasmo, nè però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia {e la pietà} non trova luogo allora nel cuor nostro {o almeno non son questi i sentimenti ch'ei preferisce,} ma il vigore che proviamo dà un risalto straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell'amor patrio, dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e delle altre passioni antiche. Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariamente l'entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l'immaginazione, e i sentimenti focosi gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza. Ma osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un'aria di festa che la felicità non ci pare un'illusione,  97 anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d'entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell'abitudine contratta colla sperienza della vita.
[97,1]  Una delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di un soggetto che c'interessi, senza potervi interloquire. E molto più se ne parlano a sproposito, o ignorando una circostanza un fatto ec. che noi potremmo narrar loro, o in contraddizione coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a concludere il contrario di quello che noi stimiamo o sappiamo. Il che è penoso anche quando la cosa non ci riguardi in nessun modo personalmente, {nè anche c'interessi.} Ma soprattutto s'ella ci riguarda {o interessa,} è veramente opera da uomo riflessivo lo schivare questi tali discorsi in presenza p. e. di domestici che non vi potrebbero metter bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto che è loro a cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne proverebbero molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente e con grande studio alla passiva di ascoltare, non ostante l'inquietudine che sfuggirebbero rinunziando anche a questa parte, il che però non ci è possibile.
[97,2]  Si suol dire che per ottenere qualche grazia è opportuno il tempo dell'allegrezza di colui che si prega. E quando questa grazia si possa far sul momento, o non costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch'io in questa opinione. Ma per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche benchè piccola premura di un vostro affare, non c'è tempo più assolutamente inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l'uomo è occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta che o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna l'interessano vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de' negozi delle infelicità dei desiderii altrui. Nei  98 momenti di gioia viva o di dolor vivo l'uomo non è suscettibile nè di compassione, nè d'interesse per gli altri, nel dolore perchè il suo male l'occupa più dell'altrui, nella gioia perchè il suo bene l'inebbria, e gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E massimamente la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto pieno della pietà di se stesso, o prova un'esaltazione di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un'illusione, per lo meno {odiarla} come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all'interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione di operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di dare un corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto di entusiasmo virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all'astratto e all'indefinito. Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà, ossia da quell'apparenza che noi riguardiamo come realtà, il rivolgerlo ad un'altro[un altro] scopo, è impresa difficicilissima[difficilissima] e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l'interesse altrui per la vostra causa, quand'esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal pensiero ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è sì caro, e quel ch'è più, condurlo ad operare {o a risolvere efficacemente d'operare} per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e rivolgere immediatamente la  99 conversazione sopra quel soggetto.
[99,1]  Udrai dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione. Se intendono del passato, andrà bene. Ma non c'è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova {presentemente} nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue. L'interesse ch'egli prova per se, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si rivolge sopra di se, e le considera applicandole alla sua persona. Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente. T'interromperà ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io: oh per l'appunto se sapessi quello ch'io provo: questo è propriamente il caso mio. {Fa al proposito l'esempio d'Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo a' suoi ginocchi.} Si proverà anche d'estenuare la tua miseria, il tuo bisogno, la ragionevolezza de' tuoi desideri, per ingrandire quello che lo riguarda: Va bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io all'opposto, e così discorrendo. In somma sarà sempre impossibile di rivolger l'interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui, (parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d'entusiasmo) e quando l'uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche della sua gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello d'un altro, massimamente se sia della stessa specie. Sarà sempre impossibile attaccar l'egoismo così di fronte, quando anche da lato è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua ec. ec.
[99,2]  Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.