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17. Luglio 1821.

[1332,1]  Altra gran fonte della ricchezza e varietà  1333 della lingua italiana, si è quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, {costruzioni, modi ec.,} e variarne al bisogno il significato, mediante detta variazione di forme, o di uso, {o di collocazione ec.} che alle volte cambiano affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l'immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di cui non la potremmo spogliare senz'affatto travisarla), e naturale a spiriti così vivaci {ed immaginosi} come i nostri nazionali. Parlo solamente del potere usare p. e. uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll'articolo o senza; {+con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo;} con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co' gerundi; {con questo o quell'avverbio, o particella (che, se, quanto ec.);} e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall'inusitato, e in somma alla bellezza del discorso,  1334 ma anche sommamente all'utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la significazione, e modificarla; potendo l'italiano esprimere facilissimamente {e chiaramente,} mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della lingua ec. Questa facoltà l'hanno e l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse {e senza forse} nè alla greca nè alla latina, e vince tutte le moderne. E l'è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in questa facoltà, che forma uno de' principali ed essenziali caratteri della lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell'utilità che ne risulta? Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a servirsene? Se essa fu data alla lingua da' suoi fondatori e formatori ec. E se del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque il detto uso sia perfettamente d'accordo colla detta facoltà della lingua, e colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole in lei  1335 sono proprietà vive e feconde, e conservare solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non coll'orecchio nè coll'indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non coll'orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da' Vocabolaristi. Ma non è caso ch'essi abbiano data o non data alla lingua la facoltà di usarla ec. e che quella voce, {forma ec.} convenga o non convenga colle proprietà della lingua {da loro} formata, e col suo costume. {ec.} E questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll'orecchio formato dalla lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de' Classici, e pieno e pratico, e fedele interprete e testimonio dell'indole della lingua, sola solissima norma per giudicare di una voce {o modo} dal lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l'unica guida di tutti quanti i Classici scrittori  1336 sì di tutte le lingue, come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
[1336,1]  Io qui non intendo solamente difendere i nuovi usi delle parole (nel rispetto soprannotato) che si fa per sola utilità, ma quello pure che si fa per mera eleganza, senza necessità veruna, ma serve colla sua novità, a dare alla locuzione ec. ec. quell'aria di pellegrino, e quel non so che di temperatamente inusitato, e diviso dall'ordinario costume, da cui deriva l'eleganza ec. (17. Luglio 1821.)