Uomo il più sensibile diviene facilmente il più freddo e cattivo.
The most sensitive man easily becomes the most cold and wicked of all.
1648,1 2032,1 2107,1 2208,2 2473,1 3058,2 3837,1 4105,2 4149,6[1648,1]
1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più
soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella
malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile,
pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della
sua sensibilità ec. {Quasi si verifica in questo senso
e modo ciò che quel vecchio disse a Pico
p. 1178, della stupidità dei vecchi stati
spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli
è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non
porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono
spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito
disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi
spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi
esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria
sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto,
disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e
vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco
a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come
effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,
1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono
gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar
lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto,
capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore
dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono
pe' nostri tempi.
1650
(7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653.
fine.}}
[2032,1]
2032 L'uomo inesperto delle cose, è sempre di spirito e
d'indole più o meno poetica. Ella diventa prosaica coll'esperienza. Ma bene
spesso colui che da giovane fu per assuefazione o per natura più notabilmente
poetico, tanto più presto (anche nella stessa gioventù) e più gagliardamente
diviene prosaico coll'esperienza. Un eccesso tira l'altro, perchè gli eccessi;
contro quello che a prima vista apparisce sono più affini, amici e vicini fra
loro, che con quello che è fra loro di mezzo. Colui che per avere uno spirito
gagliardamente poetico, sente fortemente, fortemente {e
presto} deve sentire la nullità e la malvagità degli uomini e delle
cose. Egli diviene fortemente disingannato, perchè fu capace di essere
fortemente ingannato, e lo fu infatti. Prima della cognizione egli prova
gagliarde illusioni, dopo la cognizione, gagliardi, e pronti, e costanti ed
interi disinganni. La stessa forza della sua natura
2033 o delle sue facoltà acquisite, che dava risalto ed energia alle sue
illusioni, ne rende altrettanta a' suoi disinganni. E perciò la vecchiezza del
poeta, è forse (almeno spessissimo) assai più prosaica in tutti i sensi, che
quella dell'uomo d'indole primitivamente fredda, e tanto più quanto la sua
giovanezza, prima della sufficiente esperienza, fu più vivamente e veramente
poetica in qualunque senso. Giacchè per poetica intendo anche inclinata alla
virtù, all'eroismo, magnanimità ec. ancorchè non applicata punto alla poesia, ma
solamente ai fatti, ai desiderii, alle passioni ec. (2. Nov.
1821.). {{V. p.
2039.}}
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2208,2] Ho detto pp. 1648-49
pp.
2039-41
pp.
2107-09 che l'uomo di gran sentimento più presto degli altri è
soggetto a divenire indifferente sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol
dire ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto)
2209 più facilmente e prontamente degli altri. E per
due cagioni. 1. Perchè più soffre essendo più sensibile, onde le cause
dell'assuefazione che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni,
essendo in lui maggiori che negli altri, più presto la cagionano. {+Oltre ch'egli più vivamente le sente
ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per grado di forza
ec.} 2. Perch'egli è anche per se stesso e indipendentemente dalle
circostanze, più assuefabile degli altri. {+(Massime a questi generi di cose.)} Ond'egli
impara la sventura più presto degli altri, come gli uomini di talento (che per
lo più sono anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui
sono inclinati ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono,
concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli uomini di poco o
mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo un numero o una
massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad assuefare e
2210 rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento,
non vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore,
sempre sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli
ch'era assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene spesso tali
per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza, quanto appresso
a poco nella prima giovanezza. Anzi di più, perchè meno distratti nelle loro
sensazioni, e meno aiutati dalla forza naturale. Laddove all'uomo di sentimento
lo stesso esser poco capace di distrazione, lo stesso attender vivamente alle
sensazioni, facilita l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e
incapacità di più attendervi. (1. Dic. 1821.).
[2473,1]
2473 Alle ragioni da me recate in altri luoghi pp.
1473-74
pp.
1648-49
pp. 2039-41, per le quali il giovane per natura sensibile, e
magnanimo e virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli
altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e
insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della
detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più
presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno
della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità
di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in
questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. {{Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non
isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio
e persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure di quella virtù
che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni
degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e
respingerle, come si trova il virtuoso.
2474 In
somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli
uomini, {nè così presto,} com'è obbligato a
concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno
infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui
medesimo.}}
{{Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli
uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente
dall'esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di
malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile,
immedicabile {ed eterna,} a cui necessariamente dee
giungere {(e tosto)} l'uomo d'ingegno al tempo
stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.)}}
[3058,2]
Corruptio optimi pessima. Questo proverbio si
verifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sensibilissimi che col tempo
e coll'uso del mondo divengono più insensibili degl'insensibilissimi per natura,
come ho detto altrove pp. 1473-74
pp.
1648-49
pp. 2039-41
pp.
2107-110
pp.
2208-210
pp.
2473-74, e danno nell'eccesso contrario ec. (28. Luglio.
1823.)
[3837,1]
3837 Il giovane che al suo ingresso nella vita, si
trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal
mondo, innanzi di aver deposta la tenerezza verso se stesso, propria di
quell'età, e di aver fatto l'abito {e il callo} alle
contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli uomini, agli oltraggi, punture,
smacchi, dispiaceri che si ricevono nell'uso della vita sociale, alle sventure,
ai cattivi successi nella società e nella vita civile; il giovane, dico, che o
da' parenti, come spesso accade, o da que' di fuori, si trova ributtato ed
escluso dalla vita, e serrata la strada ai godimenti (di qualsivoglia sorta) o
più che agli altri o al comune de' giovani non suole accadere; o tanto che tali
ostacoli vengano ad essere straordinari e ad avere maggior forza che non
sogliono, a causa di una sua non ordinaria sensibilità, immaginazione,
suscettibilità, {delicatezza di spirito e d'indole,}
vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso se stesso, maggiore amor
proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e di godimento, maggior capacità
e facilità di soffrire, maggior delicatezza sopra ogni offesa, ogni danno,
ogn'ingiuria, ogni disprezzo, ogni puntura {ed ogni
lesione} del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e rivolge bene
spesso tutto l'ardore {{e la {morale e
fisica}}} forza o generale della sua età, o particolare della
sua indole, o l'uno e l'altro insieme, tutta, dico, questa forza e questo ardore
che lo spingevano verso la felicità, l'azione, la vita, ei la rivolge a
proccurarsi l'infelicità, l'inattività, la morte morale.
3838 Egli diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico,
egli vuol soffrire, egli vi si ostina, i partiti {più tristi,
più acerbi verso se stesso,} più dolorosi e più spaventevoli, e che
prima di quella sua poca esperienza della vita egli avrebbe rigettati con
orrore, divengono del suo gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo
scegliere uno stato, il più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia
che reca, il più difficile a sopportarsi perchè più lontano e men partecipe
della vita, è quello ch'ei preferisce, ei vi si compiace tanto più quanto esso è
più orribile per lui, egl'impiega tutta la forza del suo carattere e della sua
età in abbracciarlo, e in sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua
risoluzione, e in continuarlo, {+e si
compiace fra l'altre cose in particolare nell'impossibilitarsi a poter mai
fare altrimenti, e nello abbracciar quei partiti che gli chiudano per sempre
la strada di poter vivere, o soffrir meno, perchè con ciò ei viene a ridursi
e a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura, il che piace,
come altrove ho detto p. 313
pp. 2217-21 , e se
qualche cosa mancasse e potesse aggiungersi al suo male, ei non sarebbe
contento ec.} egl'impiega tutta la sua vita morale in abbracciare,
sopportare e mantenere {costantemente} la sua morte
morale, tutto il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in
sostenere la monotonia e l'uniformità della vita, tutta la sua costanza in
scegliere di soffrire, voler soffrire, continuare a soffrire, {+tutta la sua gioventù in invecchiarsi
l'animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed abbracciare e seguir
gl'istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il pensare, la vita de'
vecchi.} Come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza
naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa di suoi
difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento,
egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l'obbliga a soffrir tanto, egli
elegge di soffrire dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice
uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti,
e rinunzia affatto al godere.
[4105,2] L'infelicità abituale, ed anche il solo essere
abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue
a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di
sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è
che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o
doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha
altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il
tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio,
perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma.
Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile.
Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non
s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può
interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e
di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della
4106
natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o
tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno
in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli
destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè
dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a
mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua
immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli
altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha
perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si
estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la
furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente
alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se
medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a
vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per
ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se
stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le
azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si
riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in
un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non
d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra
di se. Ora
4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè
rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è
insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a
soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea
di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un
piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è
noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima
la più grande e fertile per natura.
[4149,6] Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro
ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che
più non sente ec. (Bologna. 3. Nov.
1825.).
Related Themes
Memorie della mia vita. (pnr) (9)
Gioventù. (1827) (5)
Vecchiezza. (1827) (3)
Egoismo. (1827) (2)
Sensibilità. Sentimento. (1827) (2)
Rassegnazione. (1827) (2)
Civiltà. Incivilimento. (1827) (1)
Compassione. (1827) (1)
Disperazione. (1827) (1)
L'uomo sensibile vi si abitua più presto. (1827) (1)
Macchiavellismo di società. (1827) (1)
Virtù. (1827) (1)
Monaci. Monache. Vita monastica. (1827) (1)
Sacrifizi di se stesso ec. (1827) (1)
Sventure. (1827) (1)