Egoismo.
Egoism.
463,2 523,3 536,3 669,1 894,segg. 898 930,1 978,1 1100,1 1563,1 1594,2 1596,1 1648,1 1723,1 1724,1 1823,1 1824,2 1913,1 2273,marg. 2292,1 2429,1 2436,1 2473,1 2677,1 3107,1 3291,1 3314,1 3361,2 3435,1 3471,1 3480,1 4127,9Egoismo, non dispiacevole ne' deboli.
Egoism, not disagreeable in the weak.
3555definizione dell'egoismo.
definition of egoism.
Vedi Compassione, Beneficenza. See Compassion, Benefaction. 3291,1 3314,1 3361,2Egoismo del timore.
Egoism of fear.
Vedi Timore. See Fear.[463,2] L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di
ciascuno. Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri
tutto per te solo. E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro
vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per
te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi. Perchè di qualunque cosa tu
voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il
commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un
passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se
con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno
464
contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto
il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se
ne deve seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere. E l'azione essendo eccessiva,
dev'esserlo anche la reazione. E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee
crescere necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno a una
preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà
costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o
aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue
forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse
adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è perduto, posto il
sistema dell'egoismo universale. Anche per altra parte, questo egoismo cagiona
l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma pel disinganno che
cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi
nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia che
ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro
vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o
no.
465 La qual cosa cambia il carattere delle persone,
e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi
più ben fatti. Anzi principalmente in questi, perchè l'egoismo non vi entra come
passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta,
e odio de' malvagi e degl'ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus
maneat, acrioris viri esse, merito perire:
*
diceva Ottone Imp. appresso Tacito
Hist. l. 1. c. 21.
(2. Gen. 1821.). {{V. p. 607.
fine.}}
[523,3] Molto acutamente Floro dice di Antonio il
triumviro: Desciscit in regem: nam aliter salvus esse non
potuit, nisi confugisset ad servitutem.
*
(IV. 3.)
Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se non signore o servo:
libero e uguale agli
524 altri, non poteva. E così quasi
tutti i Romani di quello e de' seguenti tempi: così la massima parte degli
uomini d'oggidì. Non c'è altro stato che non convenga loro, fuorchè
l'uguaglianza e la libertà. Non saprebbero se non regnare, o come fanno,
servire. Ma servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà. E tale è
la natura degli uomini servi per carattere, e corrotti dall'incivilimento,
spogli di virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni grandi
{forti} e nobili, d'integrità, di coraggio,
d'ingegno, {di eroismo, capacità di sacrifizi,} ec. ec.
Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente, e a mantenere relativamente
e generalmente lo stato uguale e libero di un popolo. In chi domina l'egoismo,
non può che servire o regnare. Così i nostri principi. Regnano, e saprebbero
servire. {(Così i nostri
magistrati, ministri, grandi. Regnano e servono. Sanno riunir l'una cosa
all'altra. Le mettono effettivamente in opera ambedue.)} Ma come
sarebbero capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno, e che
son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e di uguaglianza. Questa
non può nè convenire particolarmente, nè conservarsi in una nazione, senza le
qualità e le forze della natura. Un uomo o una nazione snaturata, non può esser
libera, nè
525 molto meno uguale: non può se non regnare
o servire. La libertà richiede homines non mancipia,
ἄνδρας καὶ οὐκ ἀνδράποδα, e chi è schiavo o dei padroni servendo, o di se
stesso, dell'egoismo, e delle basse inclinazioni regnando, non può comportare lo
stato libero, nè uguale. L'amor di se stesso è inseparabile dall'uomo. Questo lo
porta ad innalzarsi. Dove l'innalzamento ec. in somma la soddisfazione dell'amor
proprio è impossibile, quivi l'uomo non può vivere. Ora nello stato di perfetta
libertà ed uguaglianza, l'individuo non fa progressi senza virtù e pregi veri,
perchè la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i vantaggi ec. dipendono dalla
moltitudine, la quale non potendo giudicare secondo gli affetti e inclinazioni
particolari, perchè queste son varie e infinite, e non si accordano insieme,
bisogna che giudichi secondo le regole e le opinioni universali, cioè le vere.
Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti), non
può sopportare la libertà e l'uguaglianza, nè trovar vita in questo stato.
(18 Gen. 1821).
[536,3] È degna di esser veduta, consultata, e anche
537 tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia
c. 13. Nam quibusdam
*
etc. sino alla fine)
contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui
non possit animus, si tanquam parturiat unus pro
pluribus:
*
e quindi venivano a prescrivere il curam fugere,
*
e l'honestum rem actionemve, ne
sollicitus
sis, aut non suscipere, aut susceptam
deponere.
*
La qual filosofia, è presso a poco la
filosofia dell'{inazione e del} nulla, la filosofia
perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni. E quella disputazione
di Tullio si può avere per una
disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quę est enim ista securitas?
*
dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa
porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e
scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cic. chiama la
natura, optimam bene vivendi
ducem.
*
c. 5.): ma non ottiene neanche il suo
fine, ch'è la felicità dell'individuo
538 in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è
contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato
sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella
maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi?
Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che
vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, {e nella
società,} ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli
antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi,
attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non
curanza, ordine, pace, {inazione}, amore del nostro
bene, e non curanza {di quello} degli altri, o del
pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo? (21.
Gen. 1821.).
[669,1]
L'orgueil nous sépare de la société: notre
amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours
disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque
toujours punie par le mépris universel.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans
ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633), p.
99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di
questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non
sussiste veramente, se l'individuo non accomuna
670 più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente
la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando
affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o
piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed
intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine;
e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della
società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla
ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società,
e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
671 la
condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle
istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente,
come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la
Francia, era divenuta la patria del più pestifero
egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni,
come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio
mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli
che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia
ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per
universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si
è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo,
e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del
commercio sociale (sia relativo alla conversazione,
672
sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando
per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti
i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno
aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque
riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo,
perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi
loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro
vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal
passo cit. di Mad. di Lambert, si vede
nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come
673
una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti
{spontaneamente, e in forza del vero, e del merito}
nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che
tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti
persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando
gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo
loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di
renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più
forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro
difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto
l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso
loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi
674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che
non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e
tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano
effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di
quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si
opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva
godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè
distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo
suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è
propriamente barbare[barbarie], o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo
individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb.
1821.).
[893,1] 3. Come senz'amor patrio non c'è società, dico ancora
che senz'amor patrio non c'è virtù, se non
altro, grande, e di grande utilità. La virtù non è altro in somma, che
l'applicazione e ordinazione dell'amor proprio (solo mobile possibile delle
azioni {e desiderii} dell'uomo e del vivente) al bene
altrui, considerato quanto più si possa come altrui, perchè in ultima analisi,
l'uomo non lo cerca o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come {bene} proprio. Ora se questo bene altrui, è il bene
assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l'uomo non
lo può cercare. Se è il bene di pochi, l'uomo può cercarlo, ma allora la virtù
ha poca estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca
grandezza. Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così
che è rara e difficile; giacchè siamo da capo, mancando {allora} o essendo poco efficace lo sprone che muove l'uomo ad
abbracciar la virtù, cioè il ben proprio. Talchè anche per questo capo
894 è dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza, o
poca importanza e pregio delle società, dei corpi, dei partiti ec. E riguardo
all'altro capo, cioè la poca utilità delle virtù che si rapportano al bene o
agl'interessi qualunque di pochi, o poco importanti ec. questa è la ragione per
cui non sono lodevoli, anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini,
partiti, corporazioni, e l'amore e spirito di questi negl'individui. Giacchè le
virtù e i sacrifizi a cui questi amori conducono l'individuo, sono piccoli,
ristretti, bassi, umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità. In oltre
nuocono alla società maggiore, perchè siccome l'amor di patria produce il
desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l'amore de' piccoli corpi,
essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione degl'individui
verso quelli che non appartengono a quella tal corporazione, e il desiderio di
superarli in qualunque modo. Così che nasce la solita disunione d'interessi, e
quindi di scopo, e così queste piccole società, distruggono le grandi, e
dividono i cittadini dai cittadini, e i nazionali dai nazionali, restando tra
loro la società sola di nome. {+Dal che
potete intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere, come
particolarmente di queste famose moderne e presenti, le quali ancorchè
studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene di tutta la
patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene, e sempre
gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire
i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l'amor della setta
(fosse pur questa purissima) nuoce all'amore della nazione ec.}
{{V. p. 1092, principio.}} Resta
dunque che l'egoismo sociale, abbia per
oggetto una società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere
negl'inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che l'uomo per cercare
il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso;
895 il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell'egoismo individuale. L'egoismo universale (giacchè anche questo non
potrebb'essere altro che egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori dei
viventi) è contraddittorio nella sua stessa nozione, giacchè l'egoismo è un amore di preferenza, che
si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l'universale esclude {l'idea della} preferenza. Molto più poi è stravagante
l'amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i
viventi, e quanto si possa, di tutto l'esistente: cosa contraddittoria alla
natura, che ha congiunto indissolubilmente all'amor proprio una qualità
esclusiva, per cui l'individuo si antepone agli altri, e desidera esser più
felice degli altri, e da cui nasce l'odio, passione così naturale {e indistruggibile} in tutti i viventi, come l'amor
proprio. Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è
altro che una nazione. Perchè l'amore delle particolari città native è dannoso
oggi, come l'amore de' piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non
dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d'altra parte, staccando l'individuo
dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a
superarsi l'una coll'altra, e quindi nemiche scambievoli. Del che non si può
dare maggior pregiudizio. Le città antiche, se anche erano piccole come le
moderne, e tuttavia servivano
896 di patria, erano però più importanti assai, per la somma
forza d'illusioni che vi regnava, e che somministrando grandi eccitamenti, e
premi grandi ancorchè illusorii, bastava alle grandi virtù. Ma questa forza
d'illusioni non è propria se non degli antichi, che come il fanciullo, sapevano
trar vita vera da tutto, ancorchè menomo. La patria moderna dev'essere
abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d'interessi non vi si possa
trovare, come chi ci volesse dare per patria l'europa. La
propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci
conviene. E conchiudo che senza amor
nazionale non si dà virtù grande. Da tutto ciò deducete il gran
vantaggio del moderno stato, che ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la
possibilità della virtù, certo della virtù grande, e grandemente utile; della
virtù stabile e solida, e che abbia una base e una fonte durevole e ricca.
[896,2] 5. Le guerre moderne sono certo meno accanite delle
antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto. Questo è
naturalissimo. Non esistendo più nazioni,
897 e quindi
nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore. Chi vince non
vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I soli governi sono nemici fra loro.
Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come l'asino di
Fedro cambia solamente la soma, o
l'asinaio); ma sopra il solo governo. Una nazione conquistata perde il suo
governo, e ne riceve un altro che presso a poco è il medesimo. Non essendo
nemica della conquistatrice, {non avendo avuto guerra con
essa, nè questa con lei,} partecipa ai di lei vantaggi, alle cariche
pubbliche ec. Non perde le proprietà, nè la libertà civile, nè i costumi ec.
(Alle volte non perderà neppure le sue leggi) Ma come tutto il suo, non era suo,
ma del suo padrone, così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui,
come presso gli antichi, passa {di peso e senza
scomporsi} ad essere di un altro padrone. {+Anticamente il privato perdeva individualmente le sue
proprietà perchè individualmente ne aveva. Ora non egli che non le ha
individualmente, e non le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte
insieme le proprietà de' suoi sudditi, ch'erano generalmente ed unitamente
sue; e questo per conseguenza accade senza cangiamenti nello stato de'
particolari, e senza nuove violazioni de' diritti privati e
individuali.} S'ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di
dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua indipendenza
era pur tale. E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt'uno
che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista;
ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo
straniero, se non come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo. Il diritto delle nazioni
898
è nato dopo che non vi sono state più
nazioni. Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della
conquista, e gli gode ora come la conquistatrice. Quanto alle guerre, elle non
sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche. Perchè la sorgente
delle guerre, che una volta era l'egoismo
nazionale, ora è l'egoismo
individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni. E
questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello. Dunque, come
quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e
la forza è l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia,
perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti. Questi che
esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del
Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra
che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli Cristiani
fino a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie,
le stesse guerre, {lo stesso trionfo della forza ec. nè il
Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto;} colla
differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora
gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o
gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii,
adesso verso nessuno; allora le nimicizie
899
partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi
vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono
oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la
servitù è comune a lui col vincitore; {+allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa
naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno
anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda;}
allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva,
adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move,
quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla,
quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi tra loro,
sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni
anticamente.
[930,1] Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna
d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede, o per
rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, {e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati,} tutte
accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società
egoista. L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera,
o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di
esser subito calpestato dall'egoismo
che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina {pneumatica} dalla quale, senza le debite precauzioni, si
fosse sottratta l'aria. (11. Aprile 1821.).
[978,1] Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non
il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero. (23. Aprile.
1821.)
[1100,1]
1100 L'uomo non si può muovere neanche alla virtù, se
non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi
nessuna modificazione dell'amor proprio può condurre alla virtù. E così l'uomo
non può esser virtuoso per natura. Ecco come l'egoismo universale, rendendo per
ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all'individuo, e la
mancanza delle illusioni {e di cose che le destino, le
mantengano, le realizzino,} producono inevitabilmente l'egoismo
individuale, anche nell'uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente
virtuoso. Perchè l'uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone
evidentemente e per ogni parte all'amor
proprio suo. E perciò gli resta solo l'egoismo, cioè la più brutta modificazione
dell'amor proprio, e la più esclusiva d'ogni genere di virtù. (28. Maggio
1821.).
[1563,1] La virtù, l'eroismo, la grandezza d'animo non può
trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non
che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com'io
la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova per se medesima a
colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo può desiderare e
ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene
e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi
il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i
potenti, è lo scopo più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente
parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette.
1564 Perchè dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità
ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione,
bisognando che questo le sia utile, e l'utilità non derivando principalmente che
dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il
potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far
fortuna nel mondo.
[1594,2] La bellezza è naturalmente compagna della virtù.
L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa
coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva
corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non
corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è
certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi
naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo
sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli
uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son
ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del
vantaggio che si accorge
1595 di avere sugli altri, e
cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso
della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e
piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco
l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de'
potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si
trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e
facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi
ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo,
ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
[1596,1] Il sopraddetto si può se non altro, e con molto
maggior forza applicare a dimostrare le ingenite {ed
essenziali} contraddizioni che rinchiude uno stato di civiltà come il presente. (31.
Agos. 1821.).
[1648,1]
1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più
soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella
malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile,
pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della
sua sensibilità ec.
{Quasi si verifica in questo senso
e modo ciò che quel vecchio disse a Pico
p. 1178, della stupidità dei vecchi stati
spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli
è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non
porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono
spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito
disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi
spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi
esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria
sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto,
disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e
vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco
a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come
effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,
1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono
gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar
lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto,
capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore
dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono
pe' nostri tempi.
1650
(7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653.
fine.}}

[1723,1] Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque
ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è
quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}}
parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare.
Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio
sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di
render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a
cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar
se stesso e i suoi prossimi in Dio, e
1724 per l'amore
di Dio. (17. Sett. 1821.).
[1724,1] L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta
principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima
professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta
amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura
umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima,
incostantissima ec. Schiller uomo di
gran sentimento era nemico di Goëthe
(giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma
v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne
godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de'
giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa
professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è
maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia
de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si
trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che
tra giovane e giovane; tra
1725 due vecchi che tra due
giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne'
giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi
dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.
[1823,1] L'uomo tende sempre a' suoi simili (così ogni
animale), e non può interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui
tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque de' suoi simili. Non vi
vuole che un intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l'uomo
inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i poeti (massime stranieri) de'
nostri giorni pretendano d'interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un
ente ideale, un'allegoria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci
indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a
cuore, voglia interessarci per quello a cui l'irresistibile natura ci ha fatti
indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale
d'indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra' simili
e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se
non perchè l'abbiamo
1824 perduto o illanguidito per
noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri
esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della nostra
indifferenza. Lo stesso accade {riguardo a'} nostri
simili, nella sostituzione dell'amore universale all'amor di patria. ec.
(1. Ott. 1821.). {{V. p. 1830. e
1846.}}
[1824,2] Dalle osservazioni fatte sul Cristianesimo in altri
pensieri pp. 253-54
pp.
1685-88, risulta ch'esso nella sua perfezione, ricade, include,
consiste in un vero e totale egoismo, sebbene esso gli professi massime
dirittamente contrarie, e ne sembri il più forte, intero, e irreconciliabil
nemico; sino a pretendere di spegnere affatto l'amor proprio, non solo
cogl'infiniti sacrifizi che ordina o consiglia, ma col volere e porre per
indispensabile condizione, che questi
1825 ed ogni
altra azione dell'uomo in ultima e perfetta analisi non abbiano per fine se
stesso, ma assolutamente e puramente Iddio. Il che allora sarà fisicamente
moralmente, matematicamente possibile, quando la natura del vivente e della vita
sarà cambiata ne' suoi principii costitutivi. (1. Ott. 1821.).
{{V. p.
1882.}}
[1913,1] Oggi chi conoscendo ed avendo sperimentato il mondo,
non è divenuto egoista, se ha niente niente di senso e d'ingegno, non può esser
divenuto che misantropo. (14. Ott. 1821.).
[2271,1] Il partire, il restare contenti di una persona, non
vuol dire, e non è altro in sostanza che il restar contenti di se medesimi. Noi
amiamo la conversazione, usciamo soddisfatti dal colloquio ec. di coloro che ci
fanno restar contenti di noi medesimi, in qualunque modo, o perchè essi lo
proccurino, o perchè non sappiano altrimenti, ci diano campo di figurare. ec.
Quindi è che quando tu resti contento di un altro, ciò vuol dire in ultima
analisi che tu ne riporti l'idea di te stesso superiore all'idea di colui. Così
che se questo può giovare all'amore verso quella tal persona, ordinariamente
però non giova nè alla stima, nè al timore, nè al peso, nè al conto, nè all'alta
opinione ec. cose che gli uomini in società desiderano di riscuotere dagli altri
uomini assai più che l'amore.
2272 (E con ragione,
perchè l'amore verso gli altri è inoperoso, non così il timore, l'opinione, il
buon conto ec.) E però volendo farsi largo nel mondo, solamente i giovanetti e i
principianti cercano sempre di lasciar la gente soddisfatta di se. Chi ben
pensa, proccura tutto il contrario, e sebben pare a prima vista che quegli il
quale parte malcontento di voi porti con se de' sentimenti a voi sfavorevoli,
nondimeno il fatto è che egli suo malgrado, e senza punto avvedersene, {+anzi e desiderando e cercando e credendo
il contrario,} porta de' sentimenti a voi favorevolissimi secondo il
mondo, giacchè l'esser malcontento di voi, non è per lui altro che esser
malcontento di se stesso rispetto a voi, e quindi in un modo o nell'altro tu
nella sua idea resti superiore a lui stesso (che è quello appunto che gli dà
pena); e gl'impedisci di ecclissar la opinione di te, con l'opinione e
l'estimazione di se. Ne seguirà l'odio, ma non mai il disprezzo
2273 (neppur quando tu l'abbia fatto scontento con
maniere biasimevoli, ed anche villane); e il disprezzo, o la poca opinione, è
quello che in società importa soprattutto di evitare; e il solo che si possa
evitare, perchè l'odio non è schivabile; essendo innato nell'uomo e nel vivente
l'odiare gli altri viventi, e massime i compagni; non è schivabile per quanta
cura si voglia mai porre nel soddisfare a tutti colle opere, colle parole, colle
maniere, e nel ménager, e cattivare, e studiare, e
secondare l'amor proprio di tutti. Laddove il disprezzo verso gli altri non è
punto innato nell'uomo: bensì egli desidera di concepirlo, e lo desidera in
virtù dell'odio che porta loro; ma dipendendo esso dall'intelletto, e da' fatti,
e non dalla volontà, si può benissimo impedire. {+Tutti questi effetti sono maggiori oggidì di quello che
mai fossero nella società, a causa del sistema di assoluto e universale e
accanito e sempre crescente egoismo, che forma il carattere del
secolo.}
(22. Dic. 1821.).
[2292,1]
2292 Chi deve governare gli uomini, dovrebbe conoscerli
più che alcun altro mai. I principi per lo contrario, cresciuti fra
l'adulazione, e vedendo gli uomini sempre diversi da quello che sono, (per le
infinite simulazioni della corte) e da giovani avendo poca voglia, più tardi
poco tempo di attendere agli studi, non possono conoscer gli uomini nè come li
conoscono i filosofi, nè come li conosce chi ha praticato e sperimentato il
mondo qual egli è. Quindi nella cognizione degli uomini, dote in essi di prima
necessità per il bene de' sudditi, i principi non solo non sono superiori, ma
necessariamente inferiori ai più meschini e ignoranti che vivono nel mondo. A
questo gran difetto rimedierebbero gli studi: e infatti quanti principi sono
stati studiosi o in gioventù o in seguito, quanti principi sono stati filosofi,
tanti sono stati buoni principi, avendo appreso dai libri a conoscer quel mondo
e
2293 quelle cose che avevano a governare. Marcaurelio, Augusto, Giuliano ec. Parrebbe questo un grandissimo pregio e un vero trionfo
della filosofia, e dimostrazione della sua utilità. Ma io dico che la filosofia
non ha fatto nè farà mai questo buon effetto di darci dei buoni principi, se non
fino ch'ella fu, o quando ella è imperfetta: allo stesso modo che solo in questo
caso ella può darci de' buoni privati, e ce ne diede e ce ne dà. Vengo a dire
che la filosofia moderna (la quale può dirsi che nella sua natura, cioè in
quanto filosofia, o scienza della ragione e del vero, sia perfetta) non farà de'
buoni principi, come non farà mai de' buoni privati; anzi ne farà dei pessimi,
perchè la perfezione della filosofia, non è insomma altro che l'egoismo; e però
la filosofia moderna non farà de' principi (come
2294
vediamo de' privati) se non de' puri e perfetti egoisti. Tanto peggiori de'
principi ignoranti, quanto che in questi l'egoismo ha una base meno salda; la
natura che lo cagiona, v'aggiunge molti lenitivi e modificativi; le illusioni
della virtù della grandezza d'animo, della compassione, della gloria non sono
irrevocabilmente chiuse per loro, come per un principe filosofo moderno: e se
non altro in quelli la coscienza e l'opinione ripugna al costume, e al vizio; in
questi li rassoda, li protegge (essendo un filosofo moderno, necessariamente
egoista, e {quindi} malvagio, per principii), anzi li
comanda, e condannerebbe il principe se non fosse egoista dopo aver conosciute
le cose e gli uomini. Così che anche un principe inclinatissimo alla virtù,
divenendo filosofo alla moderna, diverrebbe quasi per forza e suo malgrado
vizioso,
2295 come accade ne' privati. Volete una prova
di fatto? Volete conoscere che cosa sia un principe filosofo moderno? Osservate
Federico II. e paragonatelo con
M. Aurelio. Di maniera che è da
desiderarsi sommamente oggidì che un principe non sia filosofo, il che tanto
sarebbe, quanto freddo e feroce e inesorabile egoista, ed un egoista che ha in
mano, e può disporre a' suoi vantaggi una nazione, è quanto dire un tiranno.
Ecco il bel frutto e pregio della filosofia moderna, la quale finisce
d'impossibilitare i principi ad esser virtuosi (siccome fa ne' privati), e a
conoscer gli uomini, senza il che non possono esser buoni principi. Ma siccome
questo effetto della filosofia moderna, non è in quanto moderna, ma in quanto
vera e perfezionata filosofia (giacchè niente di falso le possiamo imputare), e
siccome le cose si denno considerare e giudicare nella
2296 loro perfezione cioè nella pienezza del loro essere, e delle loro
qualità e proprietà, così giudicate che cosa sia per essenza la filosofia, la
sapienza, la ragione, la cognizione del vero, tanto riguardo al regolare le
nazioni, cioè riguardo a' principi, quanto assolutamente parlando. (27.
Dic. 1821.).
[2429,1]
2429 A voler esser lodato o stimato dagli altri,
bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie
loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano: colui vale
alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia
genere, {o propriamente o almeno metaforicamente
parlando,} è sempre incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel
cospetto di quanta gente tu vuoi, un'azione o una produzione ec. la più degna e
la più lodevole che si possa immaginare; t'inganni a partito se credi che
quell'azione ec. essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima,
gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di
te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai
l'arte o il coraggio d'essere il primo a far questo. Ciò massimamente in questi
tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della
modestia. (7. Maggio. 1822.).
[2436,1] Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo
(cioè di quella modificazione dell'amor proprio così chiamata) in cui si trova
presentemente, si può rassomigliare al sistema
2437
dell'aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l'une l'altre,
ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e
uguale l'uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l'equilibrio, e il
sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di
nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte,
e da tutte contro ciascuna.
[2473,1]
2473 Alle ragioni da me recate in altri luoghi pp.
1473-74
pp.
1648-49
pp. 2039-41, per le quali il giovane per natura sensibile, e
magnanimo e virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli
altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e
insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della
detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più
presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno
della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità
di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in
questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. {{Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non
isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio
e persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure di quella virtù
che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni
degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e
respingerle, come si trova il virtuoso.
2474 In
somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli
uomini, {nè così presto,} com'è obbligato a
concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno
infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui
medesimo.}}
{{Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli
uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente
dall'esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di
malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile,
immedicabile {ed eterna,} a cui necessariamente dee
giungere {(e tosto)} l'uomo d'ingegno al tempo
stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.)}}
[2677,1]
{Puoi vedere p.
3791.} Tutti gl'imperi, tutte le nazioni ch'hanno
ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno combattuto con quelli di fuori,
co' vicini, co' nemici: poi liberati dal timore esterno, e soddisfatti
dell'ambizione e della cupidigia di dominare sugli stranieri e di possedere quel
di costoro, e saziato l'odio nazionale contro l'altre nazioni, hanno sempre
rivolto il
2678 ferro contro loro medesime, ed hanno
per lo più perduto colle guerre civili quell'impero e quella ricchezza ec. che
aveano guadagnato colle guerre esterne. Questa è cosa notissima e ripetutissima
da tutti i filosofi, istorici, politici ec. Quindi i politici romani prima e
dopo la distruzion di Cartagine, discorsero della
necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec. L'egoismo nazionale
si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è vero che l'uomo è per sua
natura e per natura dell'amor proprio, nemico degli altri viventi e se-amanti;
in modo che s'anche si congiunge con alcuno di questi, lo fa per odio o per
timore degli altri, mancate le quali passioni, l'odio e il timore si rivolge
contro i compagni e i vicini. Quel ch'è successo nelle nazioni è successo ancora
nelle città, nelle corporazioni, nelle famiglie ch'hanno figurato nel mondo ec.
unite contro gli esteri, finchè questi non erano vinti, divise e discordi e
piene d'invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli estranei. {+Così in ciascuna fazione di una stessa
città, dopo vinte le contrarie o la contraria. V. il proem. del lib. 7. delle Stor. del
Machiavello.} Ed
è bello a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si potria
trar giovamento da' nimici (Opusc. mor. di Plut. volgarizzamento da Marcello Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t. 1. p.
394.) La qual cosa ben parve che
comprendesse
2679 un saggio uomo di governo
nominato Demo, il quale,
in una civil sedizione dell'isola di Chio,
ritrovandosi dalla parte superiore, consigliava i compagni a non
cacciare della città tutti gli avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò
(disse egli) non incominciamo a contendere con gli amici, liberati
che saremo interamente da' nimici: così questi nostri
affetti
*
(soggiunge Plutarco, cioè l'emulazione, la gelosia, e
l'invidia) consumati
contra i nimici meno turberanno gli amici.
*
{+(V.
ancora gl'Insegnamenti Civili di Plut. dove il citato Volgarizzamento p. 434. ha Onomademo in vece di Demo
{{: ὄνομα
Δῆμος.}})}

[3107,1] Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
{caso}, ma molto più la sventura congiunta colla
virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si
compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo,
cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè
l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque,
malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi
3108 mali,
pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura,
di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui
possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore
all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il
compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun
sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo,
singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi
seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e
si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si
compiaccia della compassione.
{Veggansi le pagg. 3291-97. e
3480-2.}
L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così
anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario,
all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte
ridurre o riferire a questo amore, non
3109 deriva in
sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor
proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere
col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando
l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace
perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.
V. p.
3167.}

[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi.
{Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi.
{Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).


[3314,1]
Alla p. 3298.
Un uomo (o donna) di carattere naturalmente pacifico, {placido,} quieto, riposato, ordinato, inclinato a una certa pigrizia,
è per natura portato all'egoismo. Quanto più l'uomo o per indole e condizion
primitiva, o per effetto dell'età, o per istanchezza del mondo, per disinganno
ec. ama il riposo, la pace, l'ordine, l'uniformità della vita, è lontano dal
calore, {dai desiderii vivi,} dai disegni vasti o
impetuosi, o fervidi, o attivi ec. è dedito all'inazione, al metodo; anzi quanto
più egli è tollerante delle ingiurie e degli stessi patimenti per debolezza
d'animo o di corpo o d'ambedue, quanto è più disposto e solito di rinunziare al
risentimento, di chinare il capo alle circostanze, alla necessità, di
sacrificare e di posporre qualunque cosa alla conservazione della sua quiete
interna ed esterna e della sua inattività; quanto più l'uomo è vile e codardo;
quanto più suole appagarsi del presente, soddisfarsi di ciò che gli accade,
pigliar le cose come vengono; tanto meno egli è disposto e solito di
sacrificarsi o adoperarsi
3315 per altrui; tanto meno è
accessibile alla compassione, tanto più è inclinato e tanto più ha d'egoismo.
L'abitudine dell'ozio in qualsivoglia età, è sempre conciliatrice d'egoismo. In
somma per tutte queste osservazioni, e per qualunque altra si voglia fare
intorno ai vari caratteri degli uomini, apparisce e sempre apparirà, che la
natura dell'egoismo è un ghiaccio dell'animo; un freddo, un congelamento, una
quasi concrezione, una durezza o un induramento, una secchezza o un
disseccamento dell'amor proprio; una povertà, una scarsezza di vita; una
inattività effettiva, o un'inclinazione alla medesima ec.; o naturale o
avventizia che sia, o morale o fisica, o l'uno e l'altro, o portata dalla
nascita e cresciuta {poi e confermata}
coll'assuefazione colle circostanze cogli avvenimenti della vita ec., o da
queste prodotta in contrario e in dispetto dell'indole primitiva ec. (31.
Agosto. 1823.). {{Io credo potere asserire che
generalmente gli uomini meno soggetti a passioni {veementi,} quelli che non amano il piacere, quelli che mai non
vissero per li piaceri, mai non furono trasportati da' piaceri e
3316 dal desiderio e furore di questi (sieno
piaceri corporali o spirituali), o che più nol sono; anche i meno iracondi,
i più pazienti, e simili, per natura, o per abito contratto; sono i più
inclinati all'egoismo, i più alieni abitualmente dal compatire e dal
beneficare; spesso anche i più ingiusti per volontà riflettuta. E i contrari
viceversa.}}
[3361,2]
Alla p. 3282.
L'uomo (così la donna) debole e bisognoso dell'opera altrui, o nato o divenuto,
s'abitua ad essere in qualche modo, più o meno, servito e sovvenuto dagli altri,
ed esso a non servire nè aiutare nessuno, perch'ei non può, quando anche da
principio il desideri, quando anche per indole sia inclinato a beneficare. Per
quest'abito ei contrae l'egoismo, il quale, come vedete, non è ingenito in lui
per se stesso, {+(quando anche ei sia
stato sempre debole e bisognoso fin dalla nascita),} ma figlio di un
abito da lui fatto o più presto o più tardi, incominciato fin dal principio
della vita, o sul fior degli anni, o al mezzo, o sul declinare ec. Per
quest'abito ei s'avvezza a considerare (se non per ragione, certo praticamente)
3362 gli altri come fatti per lui, e sè come fatto
per se solo, ch'è appunto l'egoismo; diventa alieno dalla compassione e dalla
beneficenza ch'egli non ha mai potuto o non può più esercitare, di cui non ha
mai potuto acquistare o ha dovuto perdere l'abitudine. (5. Sett.
1823.).
[3435,1] L'immaginazione e le grandi illusioni onde gli
antichi erano governati, e l'amor della gloria che in lor bolliva, li facea
sempre mirare alla posterità ed all'eternità, e {cercare} in ogni loro opera la perpetuità {+e proccurar sempre l'immortalità loro e delle opere
loro.} Volendo onorare un defonto[defunto] innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che
ancor dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse
occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell'esequie
si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità delle antiche
fabbriche d'ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le nostre, {anche pubbliche,} non saranno certo vedute da posteri
molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo,
3436 la profondissima impronta delle antiche {medaglie e} monete, che passate per tante mani, dopo
tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono,
dove i coni delle nostre monete di cent'anni fa son già scancellati; tutte
queste e tant'altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche
illusioni e dell'antica forza e dominio d'immaginazione. Se fabbricavano per
fasto i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio
non si appagava dell'ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano
esser testimoni della sua potenza e {contribuire a}
pascere la sua vanità: se per diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo
s'aveva da propagare nel futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni
avvenire avevano a partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune,
se i privati, se per comodo, {per onore, per vantaggio}
particolare o pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o privati o
pubblici; se in ricompensa di virtù, di belle azioni, di beneficii pubblici o
privati; se in onor privato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimonianza
d'amore ec. ec. qualunque fine si proponessero, qualunque
3437 effetto dovesse seguitare a quell'opera, esso aveva ad essere
eterno, s'aveva a stendere in tutto l'avvenire, non aveva {a} cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non
permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di
proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi
d'una idea ristretta a poco più che a quello ch'essi vedevano. L'immaginazione
spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e
la posterità, perocchè il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed
arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma
il futuro per una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti
non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l'eternità.
[3471,1]
Mὴ μετέχοντας δὲ τῆς
πολιτείας, πῶς οἷόν τε ϕιλικῶς ἔχειν πρὸς τὴν πολιτεῖαν
*
; Aristot.
Polit. l. 2. ed. Victor.
Flor. 1576. ap. Juntas, p.
131. (19. Sett. 1823.).
[3480,1] Io notava un vecchio ributtantemente egoista,
compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sacrifizi e sofferenze
volontarie (vere o false ch'elle fossero, e volontarie veramente o no), e farlo
con una certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime a chi conoscesse il
carattere della persona, lui essere persuaso di fare e sostener cose eroiche, e
che quei sacrifizi e patimenti dimostrassero in lui una gran superiorità
d'animo, e rinunzia di se stesso e del suo amor proprio. Egli aveva ben caro che
così paresse agli
3481 altri, e a questo fine ne
parlava, ma dava bene ad intendere che tale si era infatti la sua propria
opinione. Tanto poteva in un animo il più radicato nel più schietto e completo
egoismo, intollerante d'ogni menomo incomodo, e capace di sacrificar chi e che
che sia ad una sua menoma comodità; tanto poteva, dico, in un animo qual esso
era infatti, e di più totalmente inerte, solitario, e segregato affatto dalla
società, il desiderio di parere sì agli occhi altrui, sì ancora a' suoi propri,
capace di grandi sacrifizi, superiore all'amor proprio, il contrario di egoista,
ed insomma eroe. E tanto è vero che non si trova quasi uomo così impudentemente
e perfettamente egoista nel fatto, che non desideri grandemente di comparire
almeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, e non si compiaccia
sommamente dell'opinione di essere un eroe. Perocchè a tutti è grato il fare
stima di se, e si può esser certi che tutti, o in un modo o nell'altro, si
stimano, e grandemente, e così continuamente come e' si amano, che vuol dir
tuttafiata, senza intervallo alcuno,
3482 benchè la
stima di se stesso (come anche l'amore, secondo che altrove s'è dimostrato pp. 2488-92 ) abbia in un
medesimo individuo ora il più ora il manco, secondo diverse circostanze e
cagioni. Del resto puoi vedere la {pag. {124}.}
3108-9. e pp. 3167-9.
{+Questo che io dico dei vecchi {egoisti} si può applicare ai fanciulli, egoisti
estremi, ignari ancora dell'eroismo, perchè niuno gliene ha parlato, e
nondimeno vaghi di molte piccole glorie, come di star male o di farlo
credere, perchè si parli di loro nella famiglia, e per aver qualche
somiglianza cogli adulti, alla quale aspirano generalmente e continuamente
in mille cose, solo per vanità o vogliamo dire ambizione ec. V. l'Alfieri di sè che facea gli esercizi militari da
piccolo.}
(20. Sett. vigilia della Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.).
[4127,9]
D. Le plaisir
est-il l'objet principal et immédiate[immédiat] de notre existence, comme l'ont dit quelques
philosophes? R. Non: il ne l'est pas plus que la douleur; le plaisir est
un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement à mourir.
D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits palpables:
l'un, que le plaisir, s'il est pris au-delà du besoin, conduit à la
destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de manger ou de
boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L'autre,
4128 que la douleur conduit quelquefois à la conservation: par
exemple un homme qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la
douleur, et c'est afin de ne pas périr tout entier.
*
Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen
français, chap. 3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou
Méditation sur les Révolutions des Empires, par le même
auteur, 4.me édition. Paris 1808. p. 359-360.
Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il
fine dell'esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio
dire, il fine naturale dell'uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale
dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è
nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo
è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita,
azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della
natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare
l'esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell'esistenza generale, e di
quell'ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto
alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi,
non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella
modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha
provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose
sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun
vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e
costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del
dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione
4129 la somma e intensità del suo piacere. Dunque la
natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità
degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia
di sua natura per necessario,
perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna
specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente
e innegabile nell'ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione
spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai
spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta,
e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse. Un'altra
contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e
per natura universale, infelici (essere - infelicità,
cose contraddittorie), si è da me dichiarata altrove pp. 4099-4100.
[3553,2] Ho notato altrove p. 108 che la
debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del
subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di
vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non
distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:
3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo
l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea
{+(come ne' fanciulli e nelle
donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però
l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di
quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli
uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora
l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone,
naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo
posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed
essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza
dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le
creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza
essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri
ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da
esso riceve diletto.
{La debolezza
ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere
ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in
quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in
parte.} Senza ciò i fanciulli,
3555 massime
dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo
degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli
adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio
mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi}
un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi
di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura
esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente
egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi
siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri).
Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto
della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira
naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor
proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa
sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima
di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi
bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi
3556 delle donne, nelle quali indipendentemente
dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così
di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini,
gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor
debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a
risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad
altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di
compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son
maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè
non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno
qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo
ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso
questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che
cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la
piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p.
200
pp.
1880-81
{#1. nè la sola sveltezza che in questi
piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e
che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec.
secondo il detto altrove p. 221
pp. 1716-17
p. 1999
pp. 2336-37 da me
sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la
3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30.
Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}

[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi.
{Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi.
{Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).


[3314,1]
Alla p. 3298.
Un uomo (o donna) di carattere naturalmente pacifico, {placido,} quieto, riposato, ordinato, inclinato a una certa pigrizia,
è per natura portato all'egoismo. Quanto più l'uomo o per indole e condizion
primitiva, o per effetto dell'età, o per istanchezza del mondo, per disinganno
ec. ama il riposo, la pace, l'ordine, l'uniformità della vita, è lontano dal
calore, {dai desiderii vivi,} dai disegni vasti o
impetuosi, o fervidi, o attivi ec. è dedito all'inazione, al metodo; anzi quanto
più egli è tollerante delle ingiurie e degli stessi patimenti per debolezza
d'animo o di corpo o d'ambedue, quanto è più disposto e solito di rinunziare al
risentimento, di chinare il capo alle circostanze, alla necessità, di
sacrificare e di posporre qualunque cosa alla conservazione della sua quiete
interna ed esterna e della sua inattività; quanto più l'uomo è vile e codardo;
quanto più suole appagarsi del presente, soddisfarsi di ciò che gli accade,
pigliar le cose come vengono; tanto meno egli è disposto e solito di
sacrificarsi o adoperarsi
3315 per altrui; tanto meno è
accessibile alla compassione, tanto più è inclinato e tanto più ha d'egoismo.
L'abitudine dell'ozio in qualsivoglia età, è sempre conciliatrice d'egoismo. In
somma per tutte queste osservazioni, e per qualunque altra si voglia fare
intorno ai vari caratteri degli uomini, apparisce e sempre apparirà, che la
natura dell'egoismo è un ghiaccio dell'animo; un freddo, un congelamento, una
quasi concrezione, una durezza o un induramento, una secchezza o un
disseccamento dell'amor proprio; una povertà, una scarsezza di vita; una
inattività effettiva, o un'inclinazione alla medesima ec.; o naturale o
avventizia che sia, o morale o fisica, o l'uno e l'altro, o portata dalla
nascita e cresciuta {poi e confermata}
coll'assuefazione colle circostanze cogli avvenimenti della vita ec., o da
queste prodotta in contrario e in dispetto dell'indole primitiva ec. (31.
Agosto. 1823.). {{Io credo potere asserire che
generalmente gli uomini meno soggetti a passioni {veementi,} quelli che non amano il piacere, quelli che mai non
vissero per li piaceri, mai non furono trasportati da' piaceri e
3316 dal desiderio e furore di questi (sieno
piaceri corporali o spirituali), o che più nol sono; anche i meno iracondi,
i più pazienti, e simili, per natura, o per abito contratto; sono i più
inclinati all'egoismo, i più alieni abitualmente dal compatire e dal
beneficare; spesso anche i più ingiusti per volontà riflettuta. E i contrari
viceversa.}}
[3361,2]
Alla p. 3282.
L'uomo (così la donna) debole e bisognoso dell'opera altrui, o nato o divenuto,
s'abitua ad essere in qualche modo, più o meno, servito e sovvenuto dagli altri,
ed esso a non servire nè aiutare nessuno, perch'ei non può, quando anche da
principio il desideri, quando anche per indole sia inclinato a beneficare. Per
quest'abito ei contrae l'egoismo, il quale, come vedete, non è ingenito in lui
per se stesso, {+(quando anche ei sia
stato sempre debole e bisognoso fin dalla nascita),} ma figlio di un
abito da lui fatto o più presto o più tardi, incominciato fin dal principio
della vita, o sul fior degli anni, o al mezzo, o sul declinare ec. Per
quest'abito ei s'avvezza a considerare (se non per ragione, certo praticamente)
3362 gli altri come fatti per lui, e sè come fatto
per se solo, ch'è appunto l'egoismo; diventa alieno dalla compassione e dalla
beneficenza ch'egli non ha mai potuto o non può più esercitare, di cui non ha
mai potuto acquistare o ha dovuto perdere l'abitudine. (5. Sett.
1823.).
Related Themes
Memorie della mia vita. (pnr) (15)
Civiltà. Incivilimento. (1827) (8)
Macchiavellismo di società. (1827) (8)
Amor proprio. (1827) (7)
definizione dell'egoismo. (1827) (6)
Odio verso i nostri simili. (1827) (4)
Gioventù. (1827) (5)
Della natura degli uomini e delle cose. (pnr) (4)
Antichi. (1827) (5)
Monarchia e Repubblica. (1827) (4)
Virtù. (1827) (4)
Fanciulli. (1827) (5)
Condizioni che portano a farne. (1827) (2)
Sacrifizi di se stesso ec. (1827) (3)
Educazione. Insegnamento. (1827) (3)
Donne. (1827) (3)
Compassione. (1827) (3)
Governi. (1827) (3)
Principe. (1827) (2)
Amor patrio. (1827) (2)
Despotismo. (1827) (2)
Cristianesimo, ha peggiorato i costumi. (1827) (2)
Vecchiezza. (1827) (3)
Piacere (Teoria del). (1827) (2)
Illusioni. (1827) (2)
Galateo morale. (1827) (2)
Eroi. Eroismo. (1827) (2)
Invidia. (1827) (2)
Amore verso gli animali. (1827) (1)
Amore dei propri simili. (1827) (1)
Amicizia. (1827) (1)
Fisonomia. Occhi. (1827) (1)
Amore universale. (1827) (1)
Bellezza, segno di bontà. (1827) (1)
Superbia. (1827) (1)
Barbarie. (1827) (1)
Tranquillità della vita. (1827) (1)
Sensibilità. Sentimento. (1827) (1)
Orientali. (1827) (1)
Inclinati sempre all'eroico. (1827) (1)
Stima di se stesso. È in ragione inversa della stima che uno ha della sua scienza, professione ec. (1827) (1)
Bisogno che ne sentono anche i più vili. (1827) (1)
Contraddizioni e mostruosità evidenti e orribili nel sistema della Natura e della esistenza. (1827) (1)
Amano di esser trattati da uomini. (1827) (1)
Armonie della Natura. (1827) (1)
Compassione verso le bestie. (1827) (1)
Debolezza, amabile. (1827) (1)
Delicatezza delle forme. (1827) (1)
non dispiacevole ne' deboli. (1827) (1)
Grazia. (1827) (1)
Romanticismo. (1827) (1)
. Suo stato, costumi ec. antichi e moderni. (1827) (1)
Errore di chi si propone di rimandar tutti contenti di se. Anzi bisogna cercare il contrario. (danno) (1)
Filosofia antica, e Filosofia moderna. (1827) (1)
Filosofia perfetta, e mezza Filosofia. (1827) (1)
. (1827) (1)
Eroismo. Tempi Eroici. (1827) (1)
Sapienza umana. Sua vanità e stoltezza. (1827) (1)
Lode di se medesimo. (1827) (1)
necessaria. (1827) (1)
Necessità di vantarsi e parlar di se stesso. (danno) (1)
Grandezza antica, piccolezza moderna: durabilità delle opere antiche, caducità delle moderne. (danno) (1)
Aristocrazia. Oligarchia. (1827) (1)
Scienza e Ignoranza. (1827) (1)
alla vivacità, alla vita. (1827) (1)