Monarchia e Repubblica.
Monarchy and Republic.
Vedi Costituzioni. See Constitutions. 302,2 523,3 543,1 579,2 590,1 671 683,1 120,1 709,1 902,segg. 911,1 930,2 1563,1 1586,1 3082,1 3411,1 3471,1 3889,1[302,2] La corruttela de' costumi è mortale alle repubbliche,
e utile alle tirannie, e monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della
natura e differenza di queste due sorte di governi. (3. 9.bre
1820.).
[523,3] Molto acutamente Floro dice di Antonio il
triumviro: Desciscit in regem: nam aliter salvus esse non
potuit, nisi confugisset ad servitutem.
*
(IV. 3.)
Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se non signore o servo:
libero e uguale agli
524 altri, non poteva. E così quasi
tutti i Romani di quello e de' seguenti tempi: così la massima parte degli
uomini d'oggidì. Non c'è altro stato che non convenga loro, fuorchè
l'uguaglianza e la libertà. Non saprebbero se non regnare, o come fanno,
servire. Ma servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà. E tale è
la natura degli uomini servi per carattere, e corrotti dall'incivilimento,
spogli di virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni grandi
{forti} e nobili, d'integrità, di coraggio,
d'ingegno, {di eroismo, capacità di sacrifizi,} ec. ec.
Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente, e a mantenere relativamente
e generalmente lo stato uguale e libero di un popolo. In chi domina l'egoismo,
non può che servire o regnare. Così i nostri principi. Regnano, e saprebbero
servire. {(Così i nostri
magistrati, ministri, grandi. Regnano e servono. Sanno riunir l'una cosa
all'altra. Le mettono effettivamente in opera ambedue.)} Ma come
sarebbero capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno, e che
son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e di uguaglianza. Questa
non può nè convenire particolarmente, nè conservarsi in una nazione, senza le
qualità e le forze della natura. Un uomo o una nazione snaturata, non può esser
libera, nè
525 molto meno uguale: non può se non regnare
o servire. La libertà richiede homines non mancipia,
ἄνδρας καὶ οὐκ ἀνδράποδα, e chi è schiavo o dei padroni servendo, o di se
stesso, dell'egoismo, e delle basse inclinazioni regnando, non può comportare lo
stato libero, nè uguale. L'amor di se stesso è inseparabile dall'uomo. Questo lo
porta ad innalzarsi. Dove l'innalzamento ec. in somma la soddisfazione dell'amor
proprio è impossibile, quivi l'uomo non può vivere. Ora nello stato di perfetta
libertà ed uguaglianza, l'individuo non fa progressi senza virtù e pregi veri,
perchè la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i vantaggi ec. dipendono dalla
moltitudine, la quale non potendo giudicare secondo gli affetti e inclinazioni
particolari, perchè queste son varie e infinite, e non si accordano insieme,
bisogna che giudichi secondo le regole e le opinioni universali, cioè le vere.
Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti), non
può sopportare la libertà e l'uguaglianza, nè trovar vita in questo stato.
(18 Gen. 1821).
[543,1] La superiorità della natura su la ragione e l'arte,
l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità
della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di
rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella
considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura, le
qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio,
profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve
con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma
da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in
poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda
{essenzialmente} i germi del male e della
infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato
544 nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui
non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità {(e non
poche nè leggere)} dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti
del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la
perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in
un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa
umana. Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se
stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è
innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini
nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da
se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze
naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è
imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso,
indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla
natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[579,2] Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario.
L'uomo è naturalmente, primitivamente,
580 ed
essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità
appartengono inseparabilmente all'idea della natura e dell'essenza costitutiva
dell'uomo, come degli altri animali. La società è nello stesso modo
primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità
la società non è perfetta, anzi non è vera società. Pertanto l'uomo in società
bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali,
naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può
ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un
essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente
affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch'essendo
primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura
quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler
considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è parimente
indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro
581 essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della
uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza umana, e non sarebbe un uomo,
ch'è impossibile. Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente
questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà
propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in
tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e come
egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire per
sempre; così l'istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può non
poterlo fare. V. p. 452. capoverso
1. Dunque la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità
essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde
alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno
per conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell'ordine delle
cose.
[590,1] Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea
che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla
primissima forma di società, comune si può dire a tutte le {specie di} viventi, è necessaria l'unità, cioè un capo, e questo
veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in
ogni genere di società, pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di
cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia
destinata tutta insieme a un oggetto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire
un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una
compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno
591 mediante un capitale comune e indivisibile (cioè
un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e
ubbiditelo in tutto. (che altro
è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia assoluta?)
Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui, cosa
contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio
all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia
{(cioè il contrario dell'unità)}
v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). {{
V. p. 598 capoverso
1.2.3..}}
[669,1]
L'orgueil nous sépare de la société: notre
amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours
disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque
toujours punie par le mépris universel.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans
ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633), p.
99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di
questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non
sussiste veramente, se l'individuo non accomuna
670 più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente
la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando
affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o
piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed
intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine;
e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della
società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla
ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società,
e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
671 la
condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle
istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente,
come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la
Francia, era divenuta la patria del più pestifero
egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni,
come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio
mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli
che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia
ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per
universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si
è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo,
e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del
commercio sociale (sia relativo alla conversazione,
672
sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando
per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti
i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno
aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque
riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo,
perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi
loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro
vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal
passo cit. di Mad. di Lambert, si vede
nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come
673
una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti
{spontaneamente, e in forza del vero, e del merito}
nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che
tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti
persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando
gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo
loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di
renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più
forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro
difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto
l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso
loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi
674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che
non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e
tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano
effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di
quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si
opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva
godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè
distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo
suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è
propriamente barbare[barbarie], o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo
individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb.
1821.).
[683,1]
La sua
compagnia
*
(di Antonio
Giacomini) ne' collegi de' magistrati fu
qualche volta ad alcuni non molto gioconda. Nondimeno il suo parere le
più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli
ottanta e de' richiesti e pratiche, nelle quali
più larghe consultazioni l'autorità
de' particolari cittadini cede e dà luogo
alle vere e ferme ragioni {molto} più
facilmente, che non fa ne' magistrati di minor
numero d'uomini.
*
Iacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini.
Lucca, per Francesco Bertini 1818. p. 85 - 86.
(22. Feb. 1821.).
[120,1] Nelle repubbliche le cagioni degli avvenimenti
appresso a poco erano manifeste, si pubblicavano le orazioni che aveano indotto
il popolo o il consiglio a venire in quella tal deliberazione, le ambascerie si
eseguivano in pubblico, ec. e poi dovendosi tutto fare colla moltitudine le
parole e le azioni erano palesi, ed essendoci molti di egual potere, ciascuno
era intento a scoprire i motivi e i fini dell'altro e tutto si divulgava. Vedete
p. e. le lettere di Cicerone che contengono quasi {tutta}
la storia di quei tempi. Ma ora che il potere è ridotto in pochissimi, si vedono
gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle macchine che
si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da persone
nascostevi dentro. E il mondo umano è divenuto come il naturale, bisogna
studiare gli avvenimenti come si studiano i fenomeni, e immaginare le forze
motrici andando tastoni come i fisici. Dal che si può vedere quanto sia scemata
l'utilità della storia. V. Montesquieu l. c. ch. 13. fine. {{V. p. 709. capoverso 1.}}
[709,1]
Alla p. 120.
Aggiungete che nelle monarchie, o reggimenti di un solo o di pochi (che
reggimento di pochi si può veramente chiamare ogni monarchia, dove non è
possibile che tutto effettivamente dipenda, derivi, e si regoli secondo la
volontà di un solo, massime quanto più ella è grande) le cagioni degli
avvenimenti sono molto più menome e moltiplici che negli stati liberi e
popolari, {ancorchè paia l'opposto.} Perchè le cagioni
che operano in tutto un popolo, o nella massima, o in buona parte di quello, o
in somma in molti, non sono nè così piccole, nè tante, nè così varie, nè così
difficili a congetturare, quando anche fossero nascoste, come quelle che operano
in uno o in diversi individui particolarmente. E si vede in fatti, chi conosce
un tantino la storia de' regni, come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati
da piccolissimi affettucci di quel re, di quel ministro ec. da menome
circostanze, da una passioncella, da una parola, da una ricordanza, da
un'assuefazione individuale,
710 da un carattere
particolare, da inclinazioni; da qualità, accidenti della vita, amicizie o
nimicizie ec. contratte dal principe o dal ministro ec. nello stato privato.
Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura e difficile allo
scrittore, e come spesso debba riuscire in gran parte falsa, e quindi inutile ai
lettori; consistendo la chiave di sommi avvenimenti, la spiegazione di somme
maraviglie, nella cognizione di aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a
sapere. E così oggi gli scrittori di aneddoti e bazzecole di corte, sono più
benemeriti forse della storia, che i sommi storici, {e
scrittori} delle massime cose. (2. Marzo 1821.).
[902,3] Un grand'esercito, sì per se stesso, sì per le imposte
che bisognano a mantenerlo, non si mantiene senza incomodo e danno e spesa dei
sudditi. Finchè i sudditi non sono stati affatto servi, finchè la moltitudine è
stata qualche cosa, finchè la voce della nazione si è fatta sentire, finchè la
carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è stata ad intierissima
disposizione di questo solo che comanda, e come la carne, così tutto il resto, e
la nazione per tutti i versi; fino, dico,
903 ad un tal
punto, il principe non potendo adoperare la nazione a' suoi propri fini, se non
sino ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose. La nazione,
che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente 1. di
guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2. le leve
forzate, o almeno eccessive, 3. l'eccesso delle imposte per far la guerra. Non
tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe in gravissimi pericoli e
disturbi al di dentro. Così che era dell'interesse del principe di risparmiare
la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e risparmiarla, sì nelle altre
cose, sì massimamente dove si trattava del suo sangue, e delle sue proprietà più
care, che sono i figli, i congiunti ec. Dal tempo della distruzione della
libertà, fino ai principii o alla metà del seicento, i sovrani se anche erano
più tiranni d'oggidì, cioè più violenti e sanguinarii, appunto per l'urto in cui
erano colla nazione, non sono stati però mai padroni così assoluti de' popoli,
come in appresso. Basta legger le storie e vedere come fossero frequenti e
facili e pericolose in quei tempi le sedizioni, i tumulti popolari ec. che per
qualunque cagione nascessero, mostravano pur certo che la nazione era ancor
viva, ed esisteva. E non era strano in quei tempi, come dopo,
904 il vedere scorrere il sangue de' principi per mano de' suoi
soggetti. Di più il potere era assai più diviso, tanto colle baronie, signorie,
feudi, ch'era il sistema monarchico d'allora, quanto colle particolari
legislazioni, privilegii, governi in parte indipẽdenti[indipendenti] delle città o provincie componenti le
monarchie. Così che il re, non trovando tutto a sua sola disposizioine, e non
potendo servirsi della nazione per le sue voglie, se non con molti ostacoli, le
armate venivano ad esser necessariamente piccole: ed è cosa manifesta che quando
la signoria di una nazione è divisa in molte signorie, il signore di tutte, non
può prendere da ciascuna se non poco, e infinitamente meno di quello che
prenderebbe s'egli fosse il signore immediato, e se tutto dipendesse
intieramente dall'arbitrio suo. Cosa dimostrata dalla storia, ed osservata dai
politici. Ed anche per questo si stima nella guerra come principalissimo
vantaggio, l'assoluta padronanza di un solo, e la intera monarchia, come quella
di Macedonia in mezzo alla grecia
divisa ne' suoi poteri. {+(Il che però ne'
miei principii si deve intendere solamente nel caso che quelle nazioni
combattute da una potenza dispotica non siano dominate da vero amor di
patria, o meno, se è possibile, di quella nazione soggetta al dispotismo. E
tale era la grecia ai tempi Macedonici, laddove la
sola Atene aveva una volta resistito alla potenza
dispotica della Persia, e vintala. Perchè del resto è
certo che un solo vero soldato della patria, val più di dieci soldati di un
despota, se in quella nazione monarchica non esiste altrettanto o simile
patriotismo. E appunto nella battaglia di Maratona,
uno si trovò contro dieci, cioè 10.m. contro 100.m. e vinsero.)} Sono
anche note le costituzioni di quei tempi, le carte nazionali, l'uso degli stati
generali, corti ec. come in Francia, in
Ispagna ec. con che o la moltitudine faceva ancora
sentir la sua voce, o certo il potere restava meno indipendente ed uno, e il
monarca più legato.
[911,1] Analogo al
pensiero precedente è questo che segue.
912 È
cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di
un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della
schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.
3. ch. 15. ed altri. Puoi vedere anche l'Essai sur l'indifférence en
matière de Religion, ch. 10. nel passo dove cita in
nota il detto luogo di Rousseau
{insieme} con due righe di questo autore.)
Dal che deducono che l'abolizione della libertà {è}
derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi,
questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è
falsa, perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e
che ho toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che
l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o
vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che
questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
[930,2] A quello che ho detto pp. 896-910 delle guerre antiche
paragonate colle moderne, aggiungete che una nazione intera potrà muover guerra
per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora più difficilmente che il principe), ma
non mai per un assoluto capriccio. Al contrario il principe. Perchè molti non
possono avere uno stesso capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e
variabile, secondo le
931 teste, e senza una causa
uniforme di esistere. Così che la nazione non si può accordare tutta intiera in
un capriccio. Ma s'ella non ha bisogno di convenirci, dipendendo già tutta
intera da un solo, e questo solo avendo capricci come gli altri perchè uomo, e
più degli altri perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della guerra
e della pace, e di tutto quello che spetta a' suoi sudditi; vedete quali sono le
conseguenze; osservate se combinino coi fatti, e poi anche ditemi se dalla
possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano esser più
rare o più frequenti delle antiche. (11. Aprile 1821.).
[1563,1] La virtù, l'eroismo, la grandezza d'animo non può
trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non
che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com'io
la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova per se medesima a
colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo può desiderare e
ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene
e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi
il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i
potenti, è lo scopo più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente
parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette.
1564 Perchè dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità
ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione,
bisognando che questo le sia utile, e l'utilità non derivando principalmente che
dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il
potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far
fortuna nel mondo.
[1586,1] La scienza non supplisce mai all'esperienza, cosa
generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar gli
ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa nè
comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai scritto, non sa
scrivere; il filosofo che non
1587 ha veduto il mondo
da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini,
perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo sotto una
forma ch'egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni ec. de'
cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini se
non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le relazioni ch'egli
ha con gli uomini, sono l'unico mezzo ch'egli ha di acquistarne esperienza.
Dunque egli non può mai conoscer {la vera natura di}
coloro a' quali comanda, e de' quali deve regolar la vita. Io ho molto
conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a
comandare, non aveva la menoma idea di quest'arte, nutriva in questo proposito
mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la
carta del navigare. Ell'era frattanto di molto spirito e talento,
sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini
affatto diversi da quel che sono:
1588 il principe che
ne vede e tratta assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono,
tuttavia potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando,
e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una
nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia
tanto regnare, quanto quella dama comandare a' figli e a' domestici. Sotto
questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all'ereditario. Vero
è però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben
governarli. Connaître un
autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc
qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais
les comprendre, Dieu seul le fait.
*
(Corinne. l. 10. ch. 1. t. 2. p. 114.)
(30. Agos. 1821.)
[3082,1] È cosa dimostrata e dalla ragione e dall'esperienza,
dalle storie tutte, e dalla cognizione dell'uomo, che qualunque società, e più
le civili, e massime le più civili, tendono continuamente a cadere nella
monarchia, e presto o tardi, qualunque sia la loro politica costituzione, vi
cadono inevitabilmente, e quando anche ne risorgono, poco dura il risorgimento e
poco giova, e che insomma nella società non havvi nè vi può avere stato politico
durabile se non il monarchico assoluto. È altrettanto dimostrato, e colle
medesime prove, che la monarchia assoluta, qual ch'ella sia ne' suoi principii,
qual ch'ella per effimere circostanze possa di quando in quando tornare ad
essere per pochi momenti, tende sempre e cade quasi subito e irreparabilmente
nel despotismo; perchè stante
3083 la natura dell'uomo,
anzi d'ogni vivente, è quasi fisicamente impossibile che chi ha potere assoluto
sopra i suoi simili, non ne abusi; vale a dire è impossibile che non se ne serva
più per se che per gli altri, {anzi} non trascuri
affatto gli altri per curarsi solamente di se, il che è nè più nè meno la
sostanza e la natura del despotismo, e il contrario appunto di quello che
dovrebb'essere e mai non fu nè sarà nè può essere la vera {e
buona} monarchia, ente di ragione e immaginario. Ora egli è parimente
certo, almeno lo fu per gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che il
peggiore stato politico possibile {e il più contrario alla
natura} è quello del despotismo. Altrettanto certo si è che lo stato
politico influisce per modo su quello della società, e n'è tanta parte, ch'egli
è assolutamente impossibile ch'essendo cattivo quello, questo sia buono, e che
quello essendo imperfetto, questo sia perfetto, e che dove quello è pessimo, non
sia pessimo questo altresì. Or dunque lo stato
3084
politico di despotismo essendo inseparabile dallo stato di società, e più forte
e maggiore e più durevole nelle società civili, e tanto più quanto son più
civili, ricapitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare, se lo stato di
società nel genere umano può esser conforme alla natura, e se la civiltà è
perfezionamento, e se nella somma civiltà sociale e individuale si può riporre e
far consistere la vera perfezione della società e dell'uomo, e quindi la maggior
possibile felicità d'ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo tende
naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva ordinato, e la felicità e
perfezione ch'essa gli avea destinate. (2. Luglio[Agosto.] dì del Perdono. 1823.).
[3411,1] Come altrove ho detto pp. 545-50
pp. 590-91
pp. 607-10 , la
monarchia è il più, {+anzi il
solo,} perfetto stato di società, perchè il solo naturale, il solo
primitivo, il solo comune agli animali che hanno qualch'ombra di società, il
solo che si trovi nel cominciamento di tutte le nazioni. (In qual modo nascesse
la monarchia, vedilo nel principio della Rep. di Aristotele, che benissimo lo spiega, perocchè
3412 certo le nazioni o le popolazioni non convennero
mai espressamente di ubbidire ad alcuno, nè mai diedero in niun modo i loro
suffragi per li quali riuscisse eletto {ad unanimità}
un monarca, che in questa elezione fondasse di quindi innanzi il diritto di
comandarle.) Da questo principio segue che ogni repubblica o stato franco,
comunque antichissimo, comunque anteriore a quella civilizzazione ch'è affine
alla corruzione, comunque proprio eziandio di tempi {e di
popoli} affatto rozzi, {+od
anche di tempi e popoli eroici e virtuosi e magnanimi ec.,} sempre
ch'esso si trova in una società già formata, già capace di tal nome, (sia
antica, sia moderna, sia civile, sia selvaggia) è indizio certo di corruzione di
questa tal società, ed è esso medesimo una corruzione del governo; il quale
senza fallo, si sappia o non si sappia dalla storia, prima fu monarchico;
ond'esso stato franco è indubitatamente in essa società una sorta di governo
secondaria e non primitiva, ma sottentrata in luogo della primitiva, e nata
dalla corruzione di questa, o certo della respettiva società. (11.
Settembre. 1823.). {{V. p.
3517.}}
[3471,1]
Mὴ μετέχοντας δὲ τῆς
πολιτείας, πῶς οἷόν τε ϕιλικῶς ἔχειν πρὸς τὴν πολιτεῖαν
*
; Aristot.
Polit. l. 2. ed. Victor.
Flor. 1576. ap. Juntas, p.
131. (19. Sett. 1823.).
[3889,1] Come altrove ho dimostrato pp. 543. sgg.
pp. 590-91
pp. 3411-12, il solo perfetto stato di {una}
società umana stretta, si è quello di perfetta unità, cioè d'assoluta monarchia,
quando il monarca viva e governi e sia monarca pel ben essere de' suggetti,
secondo lo spirito {+la ragione e
l'essenza} della vera monarchia, e secondo che accadeva in principio.
Ma quando l'effetto della monarchia si riduca in somma a questo, che un solo
nella nazione, viva, e tutti gli altri non vivano se non se in un solo e per un
solo, e i suggetti servano {unicamente} al ben essere
del monarca, in vece che questo a quelli, e che l'effetto e la sostanza
dell'unità della nazione sia questo, che quanto essa unità è più perfetta, tanto
la vita e il ben essere più si ristringa in un solo, o almeno lo spirito d'essa
unità e il proposito della costituzion nazionale miri in effetto a questo fine; allora è certamente meglio
qualsivoglia altro stato; perocchè senza la perfetta unità, gli uomini in
società stretta non possono veramente godere del perfetto
3890 ben esser sociale, nè la nazione è capace di perfetta vita; ma
egli è peggio non vivere e non essere (or la nazione sotto una tal monarchia,
non è) che non vivere {perfettamente} e non essere
perfetta. Or, come ho altresì provato altrove pp. 543. sgg. , non può assolutamente
accadere che l'assoluta monarchia non cada nel detto stato, nè che conservi il
suo stato vero per alcuna cagione intrinseca ed essenziale, e per altro che per
caso, il quale è straordinariamente difficile che abbia luogo, e mille cagioni
intrinseche ed essenziali alla monarchia assoluta considerata rispettivamente
alla natura dell'uomo, si oppongono positivamente alla detta conservazione ec.
(17. Nov. 1823.).
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