Governi.
Governments.
543,1 579,2 590,1 625,3 872,1 911,1 925,2 936,1 1096,1 1169,1 1165,2 1361,3 1554,2 1555,1 1563,1 1584,2 1879,2 1952,1 2608,3 2644,1 2677,1 2736,1 2987,3 3029,1.2 3082,1 3411,1 3471,1 3773,1 3889,1 3922 4041,7 4135,5[543,1] La superiorità della natura su la ragione e l'arte,
l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità
della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di
rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella
considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura, le
qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio,
profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve
con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma
da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in
poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda
{essenzialmente} i germi del male e della
infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato
544 nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui
non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità {(e non
poche nè leggere)} dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti
del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la
perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in
un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa
umana. Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se
stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è
innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini
nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da
se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze
naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è
imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso,
indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla
natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[579,2] Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario.
L'uomo è naturalmente, primitivamente,
580 ed
essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità
appartengono inseparabilmente all'idea della natura e dell'essenza costitutiva
dell'uomo, come degli altri animali. La società è nello stesso modo
primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità
la società non è perfetta, anzi non è vera società. Pertanto l'uomo in società
bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali,
naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può
ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un
essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente
affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch'essendo
primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura
quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler
considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è parimente
indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro
581 essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della
uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza umana, e non sarebbe un uomo,
ch'è impossibile. Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente
questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà
propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in
tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e come
egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire per
sempre; così l'istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può non
poterlo fare. V. p. 452. capoverso
1. Dunque la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità
essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde
alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno
per conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell'ordine delle
cose.
[590,1] Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea
che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla
primissima forma di società, comune si può dire a tutte le {specie di} viventi, è necessaria l'unità, cioè un capo, e questo
veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in
ogni genere di società, pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di
cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia
destinata tutta insieme a un oggetto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire
un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una
compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno
591 mediante un capitale comune e indivisibile (cioè
un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e
ubbiditelo in tutto. (che altro
è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia assoluta?)
Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui, cosa
contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio
all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia
{(cioè il contrario dell'unità)}
v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). {{
V. p. 598 capoverso
1.2.3..}}
[625,3] Lo scopo dei governi {(siccome quello dell'uomo)} è la felicità dei
governati. Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa
cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e
pretendono che costassero all'umanità molto più sangue e molte più vite, che non
costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè
tirannici. Sia pure: che ora non voglio contrastarlo.
626 Orsù, ragguagliamo le partite, dirò così, delle vite. Poniamo che negli stati
presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro,
70 anni l'uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero
50 soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra
ciascheduno. E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in
qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei
cinquanta pieni di attività {e varietà} ch'è il solo
mezzo di felicità per l'uomo sociale. Domando io, quale dei due stati è il
migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità
pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini?
cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual
ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione
matematica. Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in
quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita
monotona e inattiva, sarebbe {(com'è realmente)}
esistenza, ma non vita,
627 anzi nel fatto, un sinonimo
di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè più breve, tutta
però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e
dall'altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe
maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di
morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si
contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore. E non faccia come
il secco matematico che calcola {le quantità} in genere
e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso,
e forza specifica e reale.
[872,1] L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di
qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l'individuo amandosi
naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di
soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro
individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata
dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene
ad essere innato in ogni vivente. {{V. p. 926. capoverso 1.}}
[911,1] Analogo al
pensiero precedente è questo che segue.
912 È
cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di
un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della
schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.
3. ch. 15. ed altri. Puoi vedere anche l'Essai sur l'indifférence en
matière de Religion, ch. 10. nel passo dove cita in
nota il detto luogo di Rousseau
{insieme} con due righe di questo autore.)
Dal che deducono che l'abolizione della libertà {è}
derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi,
questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è
falsa, perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e
che ho toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che
l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o
vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che
questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
[925,2] La superiorità della natura sopra tutte le opere
umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che
tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo
nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è
indubitatamente
926 il più istruito che mai fosse, non
hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e
non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se
nella società primitiva, cioè rendere all'uomo {sociale} quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le antiche
politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le
popolazioni non incivilite, {e allo stesso tempo} non
barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie
primitiva, e non di corruzione. (6. Aprile. 1821.).
[936,1] Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed
importanti. 1. Che la diversità de' linguaggi è naturale e inevitabile fra gli
uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità
delle lingue, e la divisione e suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente
il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che
tanto numero di uomini. {+La confusione de' linguaggi che
dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è
dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella
generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni
ec.}
[1096,1] Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo dello
stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com'erano soggette
a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello
stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente
sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e
nel paragone della felicità, o se vogliamo,
1097
infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni, nel bilancio e
nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e presso gli altri.
Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non
sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma
l'opinione comune è quello[quella] della
indefinita perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o
meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza, che
l'infelicità moderna sia minore dell'antica. Io dimostro che l'uomo essendo
perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più cresce l'infelicità sua:
dimostro che la perfettibilità dello stato
sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci
felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci
allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale aveva toccato i
limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto
è compatibile coll'essenza di stato sociale, e coll'alterazione inevitabile che
l'uomo ne riceve da quello ch'era primitivamente: dimostro infine con prove
teoriche, e con prove storiche e di fatto,
1098 che
l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto,
era meno infelice del moderno. (27. Maggio 1821.).
[1169,1] L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la
perfezione, l'ἀκμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di
quei sistemi politici, nei quali l'ἀκμή dell'uomo, cioè l'ardore e la
1170 forza giovanile, non è punto considerata, ed è
messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero pp.
195-96. (15. Giugno 1821.).
[1165,2] Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno,
sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de'
giovani oggidì, coll'uso del mondo, e coll'esperienza delle cose che {quelli} da principio vedevano da lontano, si spegne non
in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento:
anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13.
Giugno 1821.).
[1361,3] Chi vuol vedere la differenza fra l'amor patrio
antico e moderno, e fra lo stato antico e moderno delle nazioni, e fra l'idea
che s'aveva anticamente, e che si ha presentemente del proprio paese ec.
consideri la pena dell'esilio, usitatissima e somma presso gli antichi, ed
ultima pena de' cittadini romani; ed oggi quasi disusata, e sempre minima, e
1362 spesso ridicola. Nè vale addurre la piccolezza
degli stati. Presso gli antichi l'essere esiliato da una sola città, fosse pur
piccola, povera, infelice quanto si voglia, era formidabile, se quella era
patria dell'esiliato. {+Così forse anche
oggi nelle parti meno civili; o più naturali, come la
Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio
è ben noto. ec.} Oggi l'esilio non si suol dare veramente per pena, ma
come misura di convenienza, di utilità ec. per liberarsi della presenza di una
persona, per impedirla da quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine
principale dell'esiliare, era il gastigo dell'esiliato. ec. ec. (21.
Luglio. 1821.). {{La gravità
della pena d'esilio consisteva nel trovarsi l'esiliato privo de' diritti
e vantaggi di cittadino (giacchè altrove non poteva essere cittadino), i
quali anticamente erano qualche cosa.}}
[1554,2] In questo presente stato di cose, non abbiamo gran
mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo,
intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali,
ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio
ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita
1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando
anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la
noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato
dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità.
V. la mia teoria del piacere,
applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo
antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o
giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).
[1555,1] Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la
natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse
la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando
egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione,
che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi
nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la
gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno
vigore ec. ec.
1556 Quella è l'epoca della perfezione e
quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la
gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il
giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni
vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se
dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il
nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser
giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del
sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque
l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a
larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).
[1563,1] La virtù, l'eroismo, la grandezza d'animo non può
trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non
che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com'io
la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova per se medesima a
colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo può desiderare e
ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene
e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi
il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i
potenti, è lo scopo più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente
parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette.
1564 Perchè dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità
ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione,
bisognando che questo le sia utile, e l'utilità non derivando principalmente che
dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il
potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far
fortuna nel mondo.
[1584,2]
On peut plaider pour la
vie, et il y a cependant assez de bien à dire de la mort, ou de ce qui
lui ressemble.
*
(Corinne,
1585 t. 2. p. 335.) Dalla mia teoria del piacere (v. anche il pensiero precedente, e la p. 1580-81. ) risulta che
infatti, stante l'amor proprio, non conviene alla felicità possibile dell'uomo
se non che uno stato o di piena vita, o di piena morte. O conviene ch'egli e le
sue facoltà dell'animo sieno occupate da un torpore da una noncuranza attuale o
abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni
timore; o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate,
rese capaci di vivissimamente e quasi pienamente occupare, dall'attività,
dall'energia della vita, dall'entusiasmo, da illusioni forti, e da cose {esterne} che in qualche modo le realizzino. Uno stato di
mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il desiderio vivo,
l'amor proprio ardente, senza nessun'attività, nessun pascolo alla vita e
all'entusiasmo. Questo però è lo stato più comune degli uomini. Il vecchio potrà
talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane vorrebbe sempre
trovarsi nel secondo, e oggidì si trova quasi sempre nel terzo. Così dico
proporzionatamente dell'uomo di mezza età. Dal che segue
1586 1. che il giovane senz'attività, il giovane domo e prostrato e
incatenato dalle sventure {ec.} è nello stato
precisamente il più infelice possibile: 2. che l'amor proprio non potendo mai
veramente estinguersi, e i desiderii pertanto esistendo sempre con maggiore o
minor forza, sì nel giovane che nel maturo e nel vecchio; lo stato al quale la
generalità degli uomini, e la natura immutabile inclina è sempre più o meno il
secondo: e quindi la migliore repubblica è quella che favorisce questo secondo
stato, come l'unico conducente generalmente alla maggior possibile felicità
dell'uomo, l'unico voluto e prescritto dalla natura, tanto per se stessa e
primitivamente (come ho spiegato nella teoria
del piacere); quanto anche oggidì, malgrado le infinite alterazioni
della razza umana. (29. Agos. 1821.).
[1879,2] Presso qualunque popolo naturale o poco civilizzato,
il governo militare non fu mai distinto dal civile, e i governatori {+delle provincie o di ciascuna
provincia,} non erano se non se i capitani degli eserciti o di ciascun
esercito. Così presso i greci omerici, così presso tutti i popoli {chiamati} selvaggi, {+così presso i Germani, poi i
Goti, Franchi, Longobardi ec.} così anche presso i romani, dove il
console, il proconsole, il pretore, era al tempo stesso il capo politico della
repubblica o delle province, e il capitano dell'esercito, o degli eserciti
provinciali. In tutti i popoli poco civilizzati, accadendo una conquista, quegli
medesimo rendeva {la} giustizia a' conquistati, e
amministrava le cose loro, quegli medesimo, dico, che li aveva domati o li
domava colle armi. Così anche
1880 oggi. Ciò vuol dire
che in natura non si è mai creduto che vi fosse altra legge, o altro diritto
dell'uomo sull'uomo, che quello della forza. (9. Ott. 1821.). {{V. p. 1911. fine.}}
[1952,1] Il toccar con mano che nessuno stato sociale fu nè
sarà nè può esser perfetto, cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue
forze costitutive, e nella sua ordinazione al ben essere dei popoli e
degl'individui (tutti i savi lo confessano); e che quando anche potesse esser
tale da principio, (come una monarchia, una repubblica) la stessa assoluta
essenza della società porta in se i germi della corruzione, e distrugge
immancabilmente e prestissimo questa perfezione, quest'armonia ec. ne' suoi
principii costitutivi; non è ella una prova bastante che l'uomo non è fatto per
la società, o almeno per una società stretta, e d'
1953
uomini inciviliti, e {che} questa è incompatibile con
la natura umana, e contraddittoria ne' suoi principii? Una tal società da un
lato abbisogna, dall'altro produce immancabilmente la civiltà; e la civiltà
distrugge la perfezione e l'armonia di qualunque siffatta società. Essa non può
trovarsi in natura, e frattanto, come altrove ho mostrato p. 1173
p.
1596, ella non può essere perfetta {e perfettamente
ordinata al suo fine,} che in natura e fra uomini naturali. (19.
Ott. 1821.).
[2608,3] La nazione spagnuola poetichissima per natura e per
clima fra tutte l'Europee (non agguagliata in ciò che
dall'italia e dalla grecia), e
fornita di lingua poetichissima fra le
lingue perfette (non inferiore in detta qualità se non all'italiana, e
non agguagliata di gran lunga da nessun'altra) non ha mai prodotto un poeta nè
un poema che sia o sia stato di celebrità veramente
2609 europea. Tanto prevagliono le istituzioni politiche alle qualità naturali:
῞Ημισυ γὰρ τ' ἀρετῆς
ἀποαίνυται δούλων ἦμαρ
*
(Homer.). E questa osservazione può molto servire a quelli
che sostengono la maggiore influenza del governo rispetto al clima. (18.
Agosto. Domenica. 1822.).
[2644,1] L'uomo odia l'altro uomo per natura, e
necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali è disposto
contro il sistema sociale. E siccome la natura non si può mai vincere, perciò
veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e forma di governo, niuna
legislazione, {niun ordine,} niun mezzo morale,
politico, filosofico, d'opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima
ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare che la società cammini come si
vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo
le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell'uomo verso
l'uomo. (2. Nov. dì de' Morti. 1822).
[2677,1]
{Puoi vedere p.
3791.} Tutti gl'imperi, tutte le nazioni ch'hanno
ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno combattuto con quelli di fuori,
co' vicini, co' nemici: poi liberati dal timore esterno, e soddisfatti
dell'ambizione e della cupidigia di dominare sugli stranieri e di possedere quel
di costoro, e saziato l'odio nazionale contro l'altre nazioni, hanno sempre
rivolto il
2678 ferro contro loro medesime, ed hanno
per lo più perduto colle guerre civili quell'impero e quella ricchezza ec. che
aveano guadagnato colle guerre esterne. Questa è cosa notissima e ripetutissima
da tutti i filosofi, istorici, politici ec. Quindi i politici romani prima e
dopo la distruzion di Cartagine, discorsero della
necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec. L'egoismo nazionale
si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è vero che l'uomo è per sua
natura e per natura dell'amor proprio, nemico degli altri viventi e se-amanti;
in modo che s'anche si congiunge con alcuno di questi, lo fa per odio o per
timore degli altri, mancate le quali passioni, l'odio e il timore si rivolge
contro i compagni e i vicini. Quel ch'è successo nelle nazioni è successo ancora
nelle città, nelle corporazioni, nelle famiglie ch'hanno figurato nel mondo ec.
unite contro gli esteri, finchè questi non erano vinti, divise e discordi e
piene d'invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli estranei. {+Così in ciascuna fazione di una stessa
città, dopo vinte le contrarie o la contraria. V. il proem. del lib. 7. delle Stor. del
Machiavello.} Ed
è bello a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si potria
trar giovamento da' nimici (Opusc. mor. di Plut. volgarizzamento da Marcello Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t. 1. p.
394.) La qual cosa ben parve che
comprendesse
2679 un saggio uomo di governo
nominato Demo, il quale,
in una civil sedizione dell'isola di Chio,
ritrovandosi dalla parte superiore, consigliava i compagni a non
cacciare della città tutti gli avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò
(disse egli) non incominciamo a contendere con gli amici, liberati
che saremo interamente da' nimici: così questi nostri
affetti
*
(soggiunge Plutarco, cioè l'emulazione, la gelosia, e
l'invidia) consumati
contra i nimici meno turberanno gli amici.
*
{+(V.
ancora gl'Insegnamenti Civili di Plut. dove il citato Volgarizzamento p. 434. ha Onomademo in vece di Demo
{{: ὄνομα
Δῆμος.}})}
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[2987,3] La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile,
e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era uno
incomodo e uno
2988 svantaggio che niun bene, {niun comodo,} niun godimento togliesse, e niuna
privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a' tempi nostri era
il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si
trovano commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire
Pomponio Attico e molti filosofi
greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto
contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre,
divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale,
adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non
pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per
la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente,
desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi
miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a
una vita, ch'ei si può ancora promettere,
2989 di molti
anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e
rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi
appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur
si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove
la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura.
Ma neanche nell'estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere
volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho
detto altrove p. 294
p.
2643 circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la cura della vita
crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età scema il valore d'essa vita.
(18. Luglio 1823.).
[3082,1] È cosa dimostrata e dalla ragione e dall'esperienza,
dalle storie tutte, e dalla cognizione dell'uomo, che qualunque società, e più
le civili, e massime le più civili, tendono continuamente a cadere nella
monarchia, e presto o tardi, qualunque sia la loro politica costituzione, vi
cadono inevitabilmente, e quando anche ne risorgono, poco dura il risorgimento e
poco giova, e che insomma nella società non havvi nè vi può avere stato politico
durabile se non il monarchico assoluto. È altrettanto dimostrato, e colle
medesime prove, che la monarchia assoluta, qual ch'ella sia ne' suoi principii,
qual ch'ella per effimere circostanze possa di quando in quando tornare ad
essere per pochi momenti, tende sempre e cade quasi subito e irreparabilmente
nel despotismo; perchè stante
3083 la natura dell'uomo,
anzi d'ogni vivente, è quasi fisicamente impossibile che chi ha potere assoluto
sopra i suoi simili, non ne abusi; vale a dire è impossibile che non se ne serva
più per se che per gli altri, {anzi} non trascuri
affatto gli altri per curarsi solamente di se, il che è nè più nè meno la
sostanza e la natura del despotismo, e il contrario appunto di quello che
dovrebb'essere e mai non fu nè sarà nè può essere la vera {e
buona} monarchia, ente di ragione e immaginario. Ora egli è parimente
certo, almeno lo fu per gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che il
peggiore stato politico possibile {e il più contrario alla
natura} è quello del despotismo. Altrettanto certo si è che lo stato
politico influisce per modo su quello della società, e n'è tanta parte, ch'egli
è assolutamente impossibile ch'essendo cattivo quello, questo sia buono, e che
quello essendo imperfetto, questo sia perfetto, e che dove quello è pessimo, non
sia pessimo questo altresì. Or dunque lo stato
3084
politico di despotismo essendo inseparabile dallo stato di società, e più forte
e maggiore e più durevole nelle società civili, e tanto più quanto son più
civili, ricapitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare, se lo stato di
società nel genere umano può esser conforme alla natura, e se la civiltà è
perfezionamento, e se nella somma civiltà sociale e individuale si può riporre e
far consistere la vera perfezione della società e dell'uomo, e quindi la maggior
possibile felicità d'ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo tende
naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva ordinato, e la felicità e
perfezione ch'essa gli avea destinate. (2. Luglio[Agosto.] dì del Perdono. 1823.).
[3411,1] Come altrove ho detto pp. 545-50
pp. 590-91
pp. 607-10 , la
monarchia è il più, {+anzi il
solo,} perfetto stato di società, perchè il solo naturale, il solo
primitivo, il solo comune agli animali che hanno qualch'ombra di società, il
solo che si trovi nel cominciamento di tutte le nazioni. (In qual modo nascesse
la monarchia, vedilo nel principio della Rep. di Aristotele, che benissimo lo spiega, perocchè
3412 certo le nazioni o le popolazioni non convennero
mai espressamente di ubbidire ad alcuno, nè mai diedero in niun modo i loro
suffragi per li quali riuscisse eletto {ad unanimità}
un monarca, che in questa elezione fondasse di quindi innanzi il diritto di
comandarle.) Da questo principio segue che ogni repubblica o stato franco,
comunque antichissimo, comunque anteriore a quella civilizzazione ch'è affine
alla corruzione, comunque proprio eziandio di tempi {e di
popoli} affatto rozzi, {+od
anche di tempi e popoli eroici e virtuosi e magnanimi ec.,} sempre
ch'esso si trova in una società già formata, già capace di tal nome, (sia
antica, sia moderna, sia civile, sia selvaggia) è indizio certo di corruzione di
questa tal società, ed è esso medesimo una corruzione del governo; il quale
senza fallo, si sappia o non si sappia dalla storia, prima fu monarchico;
ond'esso stato franco è indubitatamente in essa società una sorta di governo
secondaria e non primitiva, ma sottentrata in luogo della primitiva, e nata
dalla corruzione di questa, o certo della respettiva società. (11.
Settembre. 1823.). {{V. p.
3517.}}
[3471,1]
Mὴ μετέχοντας δὲ τῆς
πολιτείας, πῶς οἷόν τε ϕιλικῶς ἔχειν πρὸς τὴν πολιτεῖαν
*
; Aristot.
Polit. l. 2. ed. Victor.
Flor. 1576. ap. Juntas, p.
131. (19. Sett. 1823.).
[3773,1]
3773 Vogliono che l'uomo per natura sia più sociale di
tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più
vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano
ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo
i principii da me in più luoghi sviluppati p. 55
pp. 872. sgg.
pp.
1078-79
pp.
1083-84
pp.
2204-206
p.
2644
pp. 2736. sgg.
p.
3291. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua
natura dello spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito
estremo di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi
estremi si trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo
in assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella
natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli
tiene la sommità fra gli esseri terrestri.
[3889,1] Come altrove ho dimostrato pp. 543. sgg.
pp. 590-91
pp. 3411-12, il solo perfetto stato di {una}
società umana stretta, si è quello di perfetta unità, cioè d'assoluta monarchia,
quando il monarca viva e governi e sia monarca pel ben essere de' suggetti,
secondo lo spirito {+la ragione e
l'essenza} della vera monarchia, e secondo che accadeva in principio.
Ma quando l'effetto della monarchia si riduca in somma a questo, che un solo
nella nazione, viva, e tutti gli altri non vivano se non se in un solo e per un
solo, e i suggetti servano {unicamente} al ben essere
del monarca, in vece che questo a quelli, e che l'effetto e la sostanza
dell'unità della nazione sia questo, che quanto essa unità è più perfetta, tanto
la vita e il ben essere più si ristringa in un solo, o almeno lo spirito d'essa
unità e il proposito della costituzion nazionale miri in effetto a questo fine; allora è certamente meglio
qualsivoglia altro stato; perocchè senza la perfetta unità, gli uomini in
società stretta non possono veramente godere del perfetto
3890 ben esser sociale, nè la nazione è capace di perfetta vita; ma
egli è peggio non vivere e non essere (or la nazione sotto una tal monarchia,
non è) che non vivere {perfettamente} e non essere
perfetta. Or, come ho altresì provato altrove pp. 543. sgg. , non può assolutamente
accadere che l'assoluta monarchia non cada nel detto stato, nè che conservi il
suo stato vero per alcuna cagione intrinseca ed essenziale, e per altro che per
caso, il quale è straordinariamente difficile che abbia luogo, e mille cagioni
intrinseche ed essenziali alla monarchia assoluta considerata rispettivamente
alla natura dell'uomo, si oppongono positivamente alla detta conservazione ec.
(17. Nov. 1823.).
[3922,1] Ma oltre di tutto ciò, bisogna accuratamente
distinguere la forza dell'animo dalla forza del corpo. L'amor proprio risiede
nell'animo. L'uomo è tanto più infelice generalmente, quanto è più forte e viva
in lui quella parte che si chiama animo. Che la parte detta corporale sia più
forte, ciò per se medesimo non fa ch'egli sia più infelice, nè accresce il suo
amor proprio, se non in quanto il maggiore o minor vigore del corpo è per certe
parti {+e rispetti, e in certi
modi,} legato e corrispondente e proporzionato a quello della parte
chiamata animo. Ma nel totale e sotto il più de' rispetti, tanto è lungi che la
maggior forza del corpo sia cagione di maggiore amor proprio e infelicità, che
anzi questa e quello sono {naturalmente} in ragione
inversa della forza propriamente corporale, sia abituale sia passeggera. L'amor
proprio e quindi l'infelicità sono in proporzione diretta del sentimento della
vita. Ora accade, generalmente e naturalmente parlando, che ne' più forti di
corpo la vita sia bensì maggiore, ma il sentimento della vita minore, e tanto
minore quanto maggiore si è e la somma della vita e la forza. Ne' più deboli
{di corpo} viceversa. O volendoci esprimere in
altro modo, e forse più chiaramente, ne' più forti
3923
di corpo la vita esterna e{è} maggiore, ma l'interna è
minore; e al contrario ne' più deboli di corpo. Infatti è cosa osservata che
generalmente, naturalmente, e in parità di altre circostanze, le nazioni e
gl'individui più deboli di corpo sono più disposti e meno impediti a pensare,
riflettere, ragionare, immaginare, che non sono i più forti; e un individuo
medesimo lo è più in uno stato e tempo di debolezza corporale o di minor forza,
che in istato di forza corporale, o di forza maggiore. Gli uomini sensibili, di
cuore, di fantasia; insomma di animo mobile, suscettibile, e più vivo in una
parola che gli altri, sono delicati e deboli di complessione, e ciò così
ordinariamente, che il contrario, cioè molta e straordinaria sensibilità ec. in
un corpo forte, sarebbe un fenomeno. {#2.
V. p. 3945.} La vita
è il sentimento dell'esistenza. Questo è tutto in quella parte dell'uomo, che
noi chiamiamo spirituale. Dunque la maggiore o minor vita, e quindi amor proprio
e infelicità, si dee misurare dalla maggior forza non del corpo ma dello
spirito. E la maggior forza dello spirito consiste nella maggior delicatezza,
finezza ec. degli organi che servono alle funzioni spirituali. Delicatezza
d'organi difficilmente si trova in una complessione non delicata; e viceversa
ec. La delicatezza del fisico interno corrisponde naturalmente ed è accompagnata
da quella dell'esterno. Di più la forza del corpo rende l'uomo più materiale, e
quindi propriamente parlando, men vivo, perchè la vita, cioè il sentimento
dell'esistenza, è nello spirito e dello spirito. {+Così le passioni ed azioni, le sensazioni e piaceri
{ec.} materiali, tanto più quanto sono più
forti; {#1. (rispettivamente alla
capacità ed agli abiti fisici e morali, ec. dell'individuo)}; le
attuali attualmente, le abituali abitualmente.} Le sensazioni
materiali in un corpo forte, o in un individuo che per esercizio o per altra
3924 cagione ha acquistato maggior forza corporale
ch'ei non aveva per natura, o in un corpo debole che si trovi in passeggero
stato di straordinaria forza, sono più forti, ma non perciò veramente più vive,
anzi meno perchè più tengono del materiale, e la materia (cioè quella parte
delle cose e dell'uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia) non vive, e
il materiale non può esser vivo, e non ha che far colla vita, ma solo colla
esistenza, la quale considerata senza vita, non è capace nè di amor proprio nè
d'infelicità. Così la materia non è capace di vita, e una cosa, un'azione, una
sensazione ec. quanto è più materiale, tanto è men viva. Insomma ciascuna specie
di viventi rispetto all'altre, ciascuno individuo rispetto a' suoi simili,
ciascuna nazione rispetto all'altre, ciascuno stato dell'individuo sia naturale,
sia abituale, sia attuale e passeggero, rispetto agli altri suoi stati, quanto
ha più del materiale, e meno dello spirituale, tanto è, propriamente parlando,
men vivo, tanto meno partecipa della vita e per quantità e per intensità e
grado, tanto ha minor somma e forza di amor proprio, e tanto è meno infelice.
Quindi tra' viventi le specie meno organizzate, avendo un'esistenza più
materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le nazioni
{umane} le settentrionali, più forti di corpo, men
vive di spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl'individui umani i
più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici. Tra' vari stati
degl'individui, quello p. e. di ebbrietà, benchè più vivo quanto al corpo,
essendo però men vivo quanto
3925 allo spirito (che in
quel tempo è obruto dalla materia, e le
sensazioni spirituali dalle materiali, e le azioni stesse dello spirito, {{benchè più forti ec,}} hanno allora più del materiale
che all'ordinario), e quindi la vita essendo allora più materiale, e quindi
propriamente men vita (come in tempo di sonno o letargo, benchè questo sia
inerte, e l'ebbrietà più svegliata ancora e più attiva talvolta che lo stato sobrio), è meno infelice.
[4041,7] Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato
e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e
felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera
intenzione, non cercasse
4042 di farli tali, usando a
questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga si
è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch'è più
prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi
de' filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera
quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua
felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di
Quaresima. 1824.).
[4135,5] La società contiene ora più che mai facesse, semi di
distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di
ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa
veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e
stabilire verità negative e {non} positive, cioè
distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli
animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel
quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come
dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l'assenza di
questo o di quell'errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche
verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l'esser purificato da un
errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo:
l'uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono
necessari all'uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello
stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre
cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato
sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale
4136 in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può
non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione
naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì
non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura
quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch'elle sieno convenienti
all'uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non
naturali, ha distrutto l'amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato,
anzi rinato, uno universale egoismo. L'egoismo è naturale, proprio dell'uomo:
tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l'egoismo è
incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato {naturale} per questa parte, è distruttivo dello stato
sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la
filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la
società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce
gl'intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l'uomo alla maniera
naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è,
dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed
effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società,
la quale per l'addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell'altro, e presso
tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se,
possono esser pessimi all'uomo, posta la società; e questa può non poter
sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in
fatti al presente. (18. Aprile 1825.).
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