27. Maggio 1821.
[1096,1] Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo dello
stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com'erano soggette
a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello
stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente
sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e
nel paragone della felicità, o se vogliamo,
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infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni, nel bilancio e
nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e presso gli altri.
Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non
sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma
l'opinione comune è quello[quella] della
indefinita perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o
meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza, che
l'infelicità moderna sia minore dell'antica. Io dimostro che l'uomo essendo
perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più cresce l'infelicità sua:
dimostro che la perfettibilità dello stato
sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci
felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci
allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale aveva toccato i
limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto
è compatibile coll'essenza di stato sociale, e coll'alterazione inevitabile che
l'uomo ne riceve da quello ch'era primitivamente: dimostro infine con prove
teoriche, e con prove storiche e di fatto,
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l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto,
era meno infelice del moderno. (27. Maggio 1821.).