28. Maggio 1821.
[1098,3] Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè
chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime,
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utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa.
Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi
disusati, che oltre all'essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono
così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da
ogni senso di affettazione o di studio ad usarle[usarli], e in somma così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.)
che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che
sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove
l'antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove quegli
altri si possono paragoragonare[paragonare] alle
cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi rassomigliano a quelle
frutta che intonacate di cera si conservano per mangiarle fuor di stagione, e
allora si cavano dall'intonacatura vivide e fresche e belle e colorite, come si
cogliessero dalla pianta. E sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello
scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti
in disparte, e custoditi, per poi ripigliarli. (28. Maggio
1821.).