Principe.
Prince.
Vedi Diritti dei principi. See Rights of Princes. 549,segg. 549,2 549,3 550,1 550,2 551,1 552,1 553,1 553,1 553,2 556,1 556,1 557,1 558,1 559,1 559,2 560,1 561,1 562,1 563,1 1534,2 1563,1 1586,1 1879,2 2292,1 3768 4096,3[549,1]
549 In un corpo dunque perfettamente libero e uguale,
manca affatto l'unità, solo mezzo di ottenere il solo scopo della società; anzi
solo costituente della società: e però in un corpo libero ed uguale, non esiste
se non il nome e la sembianza della società; {vale a dire che
più persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.}
[549,2] Come dunque lo scopo della società è il ben comune;
{e} il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione
degl'individui al detto bene, ossia l'unità; così l'ordine, lo stato vero, la
perfezione della società, non può essere se non quello che produce e cagiona
perfettamente questa cospirazione e unità. Giacchè la perfezione di qualunque
cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.
[549,3] Come dunque riunire ad un sol centro le opinioni,
gl'interessi, le volontà di molti? Non c'è altro mezzo che subordinarle, e farle
dipendere e regolare da una sola opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle
opinioni, volontà, interessi di un solo. L'unità è ottenuta; ma perch'ella sia
vera unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente
550 diriggere e regolare e determinare le opinioni
interessi volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di
ciascuno: in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente da lui solo, in tutto quello che concerne lo
scopo di detta società, cioè il di lei bene comune. Ecco dunque la monarchia
assoluta e dispotica. Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma
inerente all'essenza, alla ragione della società umana, cioè composta
d'individui per se stessi discordanti.
[550,1] Colla monarchia assoluta e dispotica, l'unità è, come
dissi, ottenuta. Questo è il mezzo per conseguire il bene comune. Ma esso bene,
cioè il fine, sarà ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà
di quel solo corrisponderanno {e tenderanno}
effettivamente al detto fine; e quanto i suoi interessi saranno tutta una cosa
cogl'interessi comuni.
[550,2] Ecco la necessità di un principe quasi perfetto:
irreprensibile nei giudizi e opinioni
551
{prudenza ec.} per discernere e determinare il vero
bene universale {e i veri mezzi di ottenerlo;}
irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza, nelle
inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine), per
diriggere effettivamente le sue forze e quelle de' sudditi a quel fine, nel
quale egli giudica riposto il comun bene.
[551,1] Se il principe non è tale, siamo da capo. Siccome egli
è divenuto l'anima e la testa, e in somma la forza movente della società, {anzi si può dire che la forza attiva e negativa della società
sia tutta riposta e rinchiusa in lui;} così quanto egli non mira al
ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca di
nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile e
dannosa. E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano dalla
servitù, dall'esser tutti destinati al bene di un solo, dall'impiegare le loro
forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li
capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso
vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il
loro bene, ma il loro
552 male. In somma tutte le
calamità che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i viventi d'ogni specie, e quindi
certa sorgente d'infelicità. Così la società diviene un male infinito, diviene
formalmente l'infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore o
minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se
stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal {di} lei fine, ch'è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio
fine.
[552,1] Se dunque la società non può stare {, anzi non esiste} senza unità; e la perfetta unità non può stare
senza un principe assoluto; nè questo principe corrisponde al fine di essa
unità, e società, e di se stesso, se non è perfetto; perchè il governo
monarchico e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto.
Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli animali, nè
fra le cose. Ed ecco lo stato di società necessariamente imperfetto. Ma parlando
di quella perfezione che è nell'uso e nella vita comune (Cic.
de Amicit. c. 5.); un principe
553 perfetto in questo senso si poteva trovare nei
principii della società. 1. Perchè la virtù, le illusioni che la producono e
conservano, esistevano allora: oggi non più. 2. Perchè la scelta può cadere
sopra il più degno e il più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per
buona e retta volontà, di corrispondere al fine del principato e della società,
ossia 1o. di conoscere, 2o. di proccurare il ben comune di quel corpo che lo
sceglieva.
[553,1] Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero
al principato quell'uomo che eminebat per doti
dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto
uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l'uomo, al fine
della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione della
società.
[553,1] Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero
al principato quell'uomo che eminebat per doti
dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto
uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l'uomo, al fine
della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione della
società.
[553,2] Se questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire
pel comune vantaggio ad un solo che fosse degno e capace di conoscerlo e
proccurarlo, abbia mai avuto luogo effettivamente; non
554 appartiene al mio proposito. Questo discorso non considera nè deve
considerare altro che la ragione delle cose, e quindi come avrebbero dovuto
andare, e avrebbero potuto andare da principio, e secondo natura; non come sono
andate, o vanno. Del resto negli scarsi vestigi storici che rimangono delle
antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene se non alle
antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di effettiva e
realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col pubblico bene
delle rispettive società. Così nei popoli Americani, così nei selvaggi (dove la
tirannia par che s'ignori, sebbene si conosca la monarchia, o militare, o
civile), così negli antichi Germani, de' quali Tacito ed altri; così fra i Celti,
de' quali Ossian; così fra i greci
Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia
posteriore al primitivo. Insomma considerando le storie de' primi tempi, si può
vedere che l'idea della tirannia, sebbene antica, non è però antichissima:
555 bensì antichissima e primordiale nella società è
l'idea della monarchia assoluta. {V. Goguet, Origine delle scienze e
delle arti.} Assoluta s'intende, non mica in
modo che questa parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per
costituente la natura di quel tale governo. Ma senza tante definizioni, e
sanzioni, e formole, e spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano
col fatto al reggimento di un solo
assolutamente; senza però neppur pensare ch'egli dovesse esser padrone della
vita, {dell'opera,} e delle sostanze loro a capriccio,
ma in vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le definizioni, le
circoscrizioni, le formole chiare e precise, non sono in natura, ma inventate e
rese necessarie dalla corruzione degli uomini, i quali oggidì hanno bisogno di
stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni (o morali o
materiali) distintissime, minutissime, specificatissime, numerosissime, {matematiche} ec. perchè si tolga alla malizia ogni
sutterfugio, ogni scanso, ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e
indeterminato. E già vengo a questa corruzione.
[556,1]
556 Essendo gli uomini quali ho detto di sopra, si
poteva trovare un principe e capace e buono. Essendo la società nello stato
primitivo e naturale, senza troppe regole, senza troppa ambizione, senza
impegni, senz'altre corruzioni e impedimenti; si poteva e scegliere il detto
uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
[556,2] Ridotti gli uomini allo stato di depravazione (e il
nostro discorso comprende tanto l'antica, quanto la moderna depravazione, perchè
anche l'antica bastava all'effetto che dirò), non fu più possibile trovare un
principe perfetto. Quando anche si fosse trovato, non fu più possibile, ch'egli
divenuto principe, si conservasse tale: sì per la corruzione individuale degli
uomini; sì per la generale della società; i costumi mutati, le illusioni
cominciate a scoprire, la virtù cominciata a conoscere inutile o meno utile di
certi vizi, gli esempi che hanno forza di guastare qualunque divina indole. In
somma non fu più possibile che l'uomo anche più perfetto, avuto in mano il
potere, non se ne abusasse. Quando anche
557 fosse stato
possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia nata e
cresciuta, l'ambizione ec. e quindi la necessità di regole fisse, strette, e
indipendenti dall'arbitrio, rendevano impossibile la scelta del successore.
Bisognò dunque, perch'ella fosse certa
e invariabile commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario.
E dove questo non fu stabilito, non si guadagnò altro che un aumento di mali
nelle turbolenze della scelta, perchè la società ridotta com'era, non poteva più
scegliere {nè} senza turbolenza, nè un principe
degno.
[557,1] Dacchè il monarca non fu più o eleggibile, o bene
scelto, la monarchia divenne il peggiore di tutti gli stati. Perchè un uomo
veramente perfetto per quell'incarico, essendo raro da principio, rarissimo in
seguito, com'era possibile, che senza una scelta accurata, si potesse trovare
quest'uomo rarissimo, capace del principato? Com'era possibile che
558 l'azzardo della nascita, o di una scelta parimente,
si può dir casuale, perchè diretta da tutt'altro che dal vero, si combinasse a
cadere appunto in quest'uomo sommo e quasi unico, difficilissimo a trovare anche
mediante la più matura considerazione e cura? Tanto più che la corruzione della
società, esiggeva allora in un perfetto principe, maggiori e più difficili
qualità che per l'addietro: così che non solo il buono era più straordinario di
prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era più
sufficientemente perfetto per allora.
[558,1] La perfezione dunque del principe cosa essenziale alla
monarchia, non fu più nè considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò
più nell'ordine della società. E siccome, oltre che la perfezione era rarissima,
il principe era tale in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli
poteva non solo non essere il migliore, ma anche il peggiore degl'individui: e
ciò non solo per accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione, il
potere, l'adulazione ec. contribuivano
559
positivamente, definitamente, e necessariamente a farlo tale.
[559,1] Da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto,
la monarchia perdè la sua ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo
scopo, cioè al ben comune. L'unità restava, ma non il di lei fine: anzi l'unità
in vece di condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo
impossibile. Così anche la società, perduta la sua ragione e il suo scopo, cioè
il comun bene, tornava ad essere inutile e dannosa, con quel di più che
risultava dall'assurdità, barbarie, e pregiudizio sommo, dell'esser tutti nelle
mani di un solo, inteso a danneggiarli.
[559,2] In questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la
società, o diminuire, laxare quell'unità, ch'essendo
da principio e in natura il massimo e più necessario de' beni sociali, così dopo
la corruzione, è il sommo de' mali, e l'istrumento e sorgente delle più
terribili infelicità.
[560,1]
560 Allora fu che i popoli abbandonando, e distruggendo
il loro primo, vero, e naturale governo, inerente alla vera natura della
società, si rivolsero ad altri governi, alle repubbliche ec. divisero i poteri,
divisero in certo modo l'unità; ripigliando quella parte di libertà e di
uguaglianza, che restava loro sotto la primitiva monarchia, andarono anche più
oltre, e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile colla natura e
ragione della società. Ed era ben naturale, perchè quel monarca assoluto che
doveva disporre di quest'altra porzione di libertà ec. non esistendo più pel
comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
[561,1] Riprendendo il filo del discorso: coll'influenza, la
forza, la viridità, l'osservanza della natura, era finita la perfezione e
l'utilità dell'assoluta monarchia: coll'assoluta monarchia era finito lo stato
vero ed essenziale della società. Lungi dunque dalla natura, e lungi
dall'essenza di se stessa, la società non poteva esser più felice. Nè vi poteva
più esser governo perfetto, non solo perchè l'uomo era allontanato dalla natura,
fuor della
562 quale non v'è perfezione {in qualunque stato;} ma anche e principalmente perchè
quel solo governo che potesse da principio esser perfetto, perchè il solo
conveniente all'essenza della società, era da circostanze irrimediabili e
perpetue escluso per sempre dalla perfezione; ed anche (presso questo o quel
popolo) escluso effettivamente ed intieramente dalla società.
[562,1] La natura, sola fonte {possibile} di felicità anche all'uomo sociale, è sparita. Ecco
l'arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno avanti per
supplire all'assenza o corruzione della natura, rimediarci, sostituire i loro
(pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura; occupare in somma il luogo
da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre l'uomo cioè a
quella felicità, a cui la natura lo conduceva. Quante forme di governo non sono
state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante chimere, quante
utopie ne' pensieri de' filosofi! certo essi erravano ne' principii, giacchè
pretendevano d'immaginare un governo perfetto, e
563
(lasciando tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità
nell'applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del
governo non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non
ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e
conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma non può esser altro che
semplicissima.
[563,1] Fra tante miserie di governi che quasi facevano a
gara, qual fosse il più imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare
l'infelicità degli uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e
democratico, fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser
suscettibile in potenza ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di
forza d'animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti. L'uomo non
era più tanto naturale, da potersi trovar uno che reggesse al dominio senza
corrompersi, e senza abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza
limiti, non poteva più sussistere, nè per parte del principe che ne
564 abusava inevitabilmente, nè per parte del popolo.
Perchè se questo non era costretto e circoscritto da freni, da leggi, da forze,
in somma da catene, non era più capace di ubbidire spontaneamente, di badare
tranquillamente alla sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino, o il
pubblico a se stesso, non aspirare all'occasione anche al principato, in somma
non era capace di non tendere alla πλεονεξία in ogni cosa. L'ubbidienza e
sommissione totale al principe, e l'esser pronto a servirlo, non è insomma altro
che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a sacrificarsi per gli altri,
un contribuire pro virili parte al pubblico bene. Dico
quando la detta sommissione è spontanea. Ma l'egoismo non è capace di sacrifizi.
Dunque la detta sommissione spontanea non era più da sperare; la comunione
degl'interessi d'ogni individuo coll'interesse pubblico era impossibile. Nato
dunque l'egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non era servo, nè il
principe comandare senza esser tiranno. (V. p. 523. capoverso ult.) {+Le
cose non andavano più alla buona, nè secondo natura, e questo o quello non
andava in questo o quel modo, se non per una necessità certa e definita: ed
era divenuta indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione
della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole, delle
forze.}
[1534,2] Principi insigni e famosi per la
1535 bontà, e per l'amore scambievole di lui[loro] verso i popoli, e de' popoli verso lui[loro], non furono e non saranno mai fuorchè in un sistema di
tranquillo, sicuro, ma assoluto dispotismo. Nè un Giuseppe II. nè un Enrico IV. nè un Marco
Aurelio, nè altri tali non sarebbero stati in un regno come quello di
Falaride, e come altri antichi,
quando il popolo cozzava colla tirannide che soffriva; nè in una monarchia
costituzionale, alla moderna, quando il principe cozza col popolo che non può
vincere. Le ragioni le vedrai facilmente, e consistono nell'egoismo, che è la
cagione tanto della clemenza, quella[quanto]
della crudeltà e della tirannide de' principi, e determina i loro caratteri a
questa o a quella, secondo la diversità delle circostanze. Augusto sarebbe forse stato un buono ed amato principe,
se la sua tirannide fosse stata tranquilla, e se il tempo e le circostanze le
avessero permesso di esserlo. ec. ec. ec. (20. Agos. 1821.).
[1563,1] La virtù, l'eroismo, la grandezza d'animo non può
trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non
che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com'io
la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova per se medesima a
colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo può desiderare e
ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene
e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi
il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i
potenti, è lo scopo più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente
parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette.
1564 Perchè dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità
ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione,
bisognando che questo le sia utile, e l'utilità non derivando principalmente che
dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il
potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far
fortuna nel mondo.
[1586,1] La scienza non supplisce mai all'esperienza, cosa
generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar gli
ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa nè
comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai scritto, non sa
scrivere; il filosofo che non
1587 ha veduto il mondo
da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini,
perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo sotto una
forma ch'egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni ec. de'
cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini se
non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le relazioni ch'egli
ha con gli uomini, sono l'unico mezzo ch'egli ha di acquistarne esperienza.
Dunque egli non può mai conoscer {la vera natura di}
coloro a' quali comanda, e de' quali deve regolar la vita. Io ho molto
conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a
comandare, non aveva la menoma idea di quest'arte, nutriva in questo proposito
mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la
carta del navigare. Ell'era frattanto di molto spirito e talento,
sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini
affatto diversi da quel che sono:
1588 il principe che
ne vede e tratta assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono,
tuttavia potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando,
e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una
nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia
tanto regnare, quanto quella dama comandare a' figli e a' domestici. Sotto
questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all'ereditario. Vero
è però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben
governarli. Connaître un
autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc
qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais
les comprendre, Dieu seul le fait.
*
(Corinne. l. 10. ch. 1. t. 2. p. 114.)
(30. Agos. 1821.)
[1879,2] Presso qualunque popolo naturale o poco civilizzato,
il governo militare non fu mai distinto dal civile, e i governatori {+delle provincie o di ciascuna
provincia,} non erano se non se i capitani degli eserciti o di ciascun
esercito. Così presso i greci omerici, così presso tutti i popoli {chiamati} selvaggi, {+così presso i Germani, poi i
Goti, Franchi, Longobardi ec.} così anche presso i romani, dove il
console, il proconsole, il pretore, era al tempo stesso il capo politico della
repubblica o delle province, e il capitano dell'esercito, o degli eserciti
provinciali. In tutti i popoli poco civilizzati, accadendo una conquista, quegli
medesimo rendeva {la} giustizia a' conquistati, e
amministrava le cose loro, quegli medesimo, dico, che li aveva domati o li
domava colle armi. Così anche
1880 oggi. Ciò vuol dire
che in natura non si è mai creduto che vi fosse altra legge, o altro diritto
dell'uomo sull'uomo, che quello della forza. (9. Ott. 1821.). {{V. p. 1911. fine.}}
[2292,1]
2292 Chi deve governare gli uomini, dovrebbe conoscerli
più che alcun altro mai. I principi per lo contrario, cresciuti fra
l'adulazione, e vedendo gli uomini sempre diversi da quello che sono, (per le
infinite simulazioni della corte) e da giovani avendo poca voglia, più tardi
poco tempo di attendere agli studi, non possono conoscer gli uomini nè come li
conoscono i filosofi, nè come li conosce chi ha praticato e sperimentato il
mondo qual egli è. Quindi nella cognizione degli uomini, dote in essi di prima
necessità per il bene de' sudditi, i principi non solo non sono superiori, ma
necessariamente inferiori ai più meschini e ignoranti che vivono nel mondo. A
questo gran difetto rimedierebbero gli studi: e infatti quanti principi sono
stati studiosi o in gioventù o in seguito, quanti principi sono stati filosofi,
tanti sono stati buoni principi, avendo appreso dai libri a conoscer quel mondo
e
2293 quelle cose che avevano a governare. Marcaurelio, Augusto, Giuliano ec. Parrebbe questo un grandissimo pregio e un vero trionfo
della filosofia, e dimostrazione della sua utilità. Ma io dico che la filosofia
non ha fatto nè farà mai questo buon effetto di darci dei buoni principi, se non
fino ch'ella fu, o quando ella è imperfetta: allo stesso modo che solo in questo
caso ella può darci de' buoni privati, e ce ne diede e ce ne dà. Vengo a dire
che la filosofia moderna (la quale può dirsi che nella sua natura, cioè in
quanto filosofia, o scienza della ragione e del vero, sia perfetta) non farà de'
buoni principi, come non farà mai de' buoni privati; anzi ne farà dei pessimi,
perchè la perfezione della filosofia, non è insomma altro che l'egoismo; e però
la filosofia moderna non farà de' principi (come
2294
vediamo de' privati) se non de' puri e perfetti egoisti. Tanto peggiori de'
principi ignoranti, quanto che in questi l'egoismo ha una base meno salda; la
natura che lo cagiona, v'aggiunge molti lenitivi e modificativi; le illusioni
della virtù della grandezza d'animo, della compassione, della gloria non sono
irrevocabilmente chiuse per loro, come per un principe filosofo moderno: e se
non altro in quelli la coscienza e l'opinione ripugna al costume, e al vizio; in
questi li rassoda, li protegge (essendo un filosofo moderno, necessariamente
egoista, e {quindi} malvagio, per principii), anzi li
comanda, e condannerebbe il principe se non fosse egoista dopo aver conosciute
le cose e gli uomini. Così che anche un principe inclinatissimo alla virtù,
divenendo filosofo alla moderna, diverrebbe quasi per forza e suo malgrado
vizioso,
2295 come accade ne' privati. Volete una prova
di fatto? Volete conoscere che cosa sia un principe filosofo moderno? Osservate
Federico II. e paragonatelo con
M. Aurelio. Di maniera che è da
desiderarsi sommamente oggidì che un principe non sia filosofo, il che tanto
sarebbe, quanto freddo e feroce e inesorabile egoista, ed un egoista che ha in
mano, e può disporre a' suoi vantaggi una nazione, è quanto dire un tiranno.
Ecco il bel frutto e pregio della filosofia moderna, la quale finisce
d'impossibilitare i principi ad esser virtuosi (siccome fa ne' privati), e a
conoscer gli uomini, senza il che non possono esser buoni principi. Ma siccome
questo effetto della filosofia moderna, non è in quanto moderna, ma in quanto
vera e perfezionata filosofia (giacchè niente di falso le possiamo imputare), e
siccome le cose si denno considerare e giudicare nella
2296 loro perfezione cioè nella pienezza del loro essere, e delle loro
qualità e proprietà, così giudicate che cosa sia per essenza la filosofia, la
sapienza, la ragione, la cognizione del vero, tanto riguardo al regolare le
nazioni, cioè riguardo a' principi, quanto assolutamente parlando. (27.
Dic. 1821.).
[3765,1]
Alla p. 3557.
principio. L'aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile
principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per
quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne' contrarii verso i
contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all'uomo che
all'altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri
fanciulli. E la donna è più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel
rispetto della debolezza ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non
solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli
riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto {{altronde}} amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le
3766 nazioni militari generalmente sono più portate
verso le donne, o verso τὰ παιδικά ec. (V. Aristot.
Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della
debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto della timidità
in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace
p. e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o
per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si
riferisca a quel che ho detto de' militari. Il veder che uno teme e ha ragion di
temere, e ch'e' non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i
coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti;
quando non v'abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la
pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in
parte, deriva che gl'individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono
naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che
gl'individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso
i viventi più deboli di loro, verso i loro {stessi}
individui più deboli ec. Ed
3767 è proposizione
costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di
accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de'
costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè
sommamente egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi pp. 2206-208
pp. 2387-89
p. 2630). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli
altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si
attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi
ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad
opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la
natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben
difficile ch'ei se ne astenga, o se ne astenga per altro che per sazietà. Si
applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza
naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e
viceversa quelle a queste (p. 3271.
segg.) Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne
3768 divenute potenti {in
qualunque modo,} sono state e sono generalmente come più furbe e
triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o
generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o
sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i
Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente
alle varie qualità ed al vario spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e
alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e
secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott.
1823.).
[4096,3] Chi vuol vedere la differenza che passa tra l'antica
filosofia e la moderna, e quel che di questa ci possiamo promettere, le
consideri ambedue sul trono, cioè ἐξουσίαν
4097
λαβούσας, la quale non hanno i filosofi privati. Ora se egli è vero che la
qualità d'ogni cosa non d'altronde si conosca meglio e più veramente che dagli
effetti, da quelli de' principi filosofi si dovrà giudicare delle due filosofie
meglio che da' privati, i quali hanno per necessità più parole che effetti, o
effetti più deboli, e più desiderii e progetti che esecuzioni, perchè quel che
vogliono, massime in cose grandi e rilevanti, nol possono. Paragoninsi dunque
fra loro Marcaurelio e Federico, ambedue, si può dire, perfetti
nella rispettiva filosofia, ambedue filosofi in parole e in opere, e
corrispondenti ne' loro fatti alle loro massime. E si troverà quello in un
secolo inclinante alla barbarie essere stato il padre de' suoi popoli ed esempio
di virtù {morali} d'ogni genere anche a' privati ed a
tutti i tempi. Questo in un secolo sommamente civile essere stato il maggior
despota possibile, il più freddo egoista verso i suoi popoli, il più
indifferente al loro bene e curante del proprio, e solito e determinato ad
antepor questo a quello, il maggior disprezzatore {#1. dico ne' fatti e in parte eziandio ne' detti.}
della morale in quanto morale, della virtù in quanto virtù, e del giusto come
giusto; in somma, se non il più vizioso (chè egli non l'era per calcolo), certo
il men virtuoso principe del suo tempo, e forse di tutti i tempi, perchè non
avendo niuna delle virtù che vengono, o vogliamo dir venivano dalla forza della
mente, mancava anche di quelle che nascono dalla debolezza (come {n'}erano in Luigi
XV.). Fu anche disaffezionato stranamente alla sua patria, come gli è
stato
4098 agramente rimproverato dai Tedeschi e fra
gli altri da Klopstock, decisamente
vago delle cose straniere, e solito d'antepor gli stranieri ai suoi
nell'affetto, nella inclinazione e nei fatti. (1. Giugno.
1824.).
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