[280,3] L'abito dell'eroismo può essere in un corpo debole, ma
l'atto difficilmente, e non senza un grande
281 sforzo,
nè senza ripugnanza, e quasi contro natura. E perciò vediamo moltissimi che per
abito sono tutt'altro che eroi, far non di rado azioni eroiche; e viceversa.
Anzi si può dire che gli uomini d'abito di principii e d'animo eroico, lo sono
di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel fatto, lo sono di rado nell'abito nei
sentimenti e nell'animo. {Estendete queste osservazioni
all'entusiasmo.}
[470,2] La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la
sola natura è grande, e fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si
accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è
grande. Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti
ec. nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un
uomo perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è mai perfetto.
471 L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie.
Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno);
tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec.
tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro
poemi. (3. Gen. 1821.).
[536,3] È degna di esser veduta, consultata, e anche
537 tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia
c. 13. Nam quibusdam
*
etc. sino alla fine)
contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui
non possit animus, si tanquam parturiat unus pro
pluribus:
*
e quindi venivano a prescrivere il curam fugere,
*
e l'honestum rem actionemve, ne
sollicitus
sis, aut non suscipere, aut susceptam
deponere.
*
La qual filosofia, è presso a poco la
filosofia dell'{inazione e del} nulla, la filosofia
perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni. E quella disputazione
di Tullio si può avere per una
disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quę est enim ista securitas?
*
dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa
porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e
scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cic. chiama la
natura, optimam bene vivendi
ducem.
*
c. 5.): ma non ottiene neanche il suo
fine, ch'è la felicità dell'individuo
538 in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è
contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato
sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella
maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi?
Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che
vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, {e nella
società,} ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli
antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi,
attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non
curanza, ordine, pace, {inazione}, amore del nostro
bene, e non curanza {di quello} degli altri, o del
pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo? (21.
Gen. 1821.).
[1563,1] La virtù, l'eroismo, la grandezza d'animo non può
trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non
che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com'io
la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova per se medesima a
colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo può desiderare e
ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene
e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi
il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i
potenti, è lo scopo più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente
parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette.
1564 Perchè dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità
ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione,
bisognando che questo le sia utile, e l'utilità non derivando principalmente che
dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il
potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far
fortuna nel mondo.
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
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