Compassione, Beneficenza, Sacrifizi di se, Interesse per altrui, ec. propri de' giovani, de' vigorosi, de' sani, de' fortunati, degli allegri, de' coraggiosi ec.; ancorché iracondi, vendicativi ec. Insensibilità, Egoismo ec. proprio de' vecchi, malati, deboli, sventurati, timidi, tristi ec.; ancorché mansueti ec.
Compassion, Benefaction, Self-sacrifice, Interest for others, etc. are typical of the young, the strong, the healthy, the fortunate, the joyful, the courageous, etc., even if they are irate and vindictive, etc. Insensitivity, egoism etc. are typical of the old, sick, weak, unfortunate, timid, sad, etc., even if they are gentle.
3271,1 3765,1 3836,1 4024,5 4105,2 4231,2 4282,10 4283,2 4287,1[3271,1] Secondo ch'io osservo e che si potrà spiegare colle
ragioni da me recate in altri luoghi pp. 97-99
p.
1589
p.
1605, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in
qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla
beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità
delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o
rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco
o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in
proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle
sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che
l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici.
{Veggansi le pagg.
3765-68.} Quanto più l'uomo è in istato di esser
3272 soggetto di compassione, o di bramarla, o di
esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di
meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso
tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli
aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui,
tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli
non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o
pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo
debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e
si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è
destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole
comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera
altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed
{ancora} agli uomini più deboli e più bisognosi di
lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e
3273 massime
quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o
del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e
travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato
perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili.
Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur
molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se
le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta
e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli
altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di
esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne'
patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo {come} rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui
beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar
tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si
crede in diritto di esigerlo, quasi
3274 egli medesimo
n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di
aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al
possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini,
nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che
ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali
ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui
sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a
dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire
alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel
mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben
sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.
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[3765,1]
Alla p. 3557.
principio. L'aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile
principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per
quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne' contrarii verso i
contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all'uomo che
all'altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri
fanciulli. E la donna è più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel
rispetto della debolezza ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non
solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli
riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto {{altronde}} amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le
3766 nazioni militari generalmente sono più portate
verso le donne, o verso τὰ παιδικά ec. (V. Aristot.
Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della
debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto della timidità
in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace
p. e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o
per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si
riferisca a quel che ho detto de' militari. Il veder che uno teme e ha ragion di
temere, e ch'e' non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i
coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti;
quando non v'abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la
pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in
parte, deriva che gl'individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono
naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che
gl'individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso
i viventi più deboli di loro, verso i loro {stessi}
individui più deboli ec. Ed
3767 è proposizione
costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di
accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de'
costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè
sommamente egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi pp. 2206-208
pp. 2387-89
p. 2630). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli
altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si
attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi
ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad
opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la
natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben
difficile ch'ei se ne astenga, o se ne astenga per altro che per sazietà. Si
applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza
naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e
viceversa quelle a queste (p. 3271.
segg.) Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne
3768 divenute potenti {in
qualunque modo,} sono state e sono generalmente come più furbe e
triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o
generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o
sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i
Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente
alle varie qualità ed al vario spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e
alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e
secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott.
1823.).
[3836,1] Similmente, come {+in generale} i più forti per l'ordinario, così
gl'individui in quel punto, sogliono essere (proporzionatamente alle loro
rispettive abitudini e caratteri {+età,
circostanze morali, fisiche, esteriori, {+di fortuna, di condizione e grado sociale, di
avvenimenti ec.} costanti, temporarie, momentanee ec.}) più
del lor solito disposti alle grandi e generose azioni, agli atti eroici, al
sacrifizio di se stessi, alla beneficenza, alla compassione (dico più disposti,
e voglio dire la potenza, non l'atto, che ha bisogno dell'occasione e di
circostanze, che mancando, come per lo più, fanno che l'uomo neppur si avveda in
quel punto di tal sua disposizione e potenza, ed anche in tutta la sua vita non
si accorga che in quei tali punti egli ebbe ed ha questa disposizione ec.);
perocchè la sua vita in quel punto è maggiore, e quindi più potente l'amor
proprio, e quindi questo è meno egoista, secondo le teorie altrove esposte pp. 3291-97. Lasciando le
illusioni proprie e naturali di quello stato, proporzionatamente all'abitual
condizione morale dell'individuo ec.
[4024,5] Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed
occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e
compatire,
4025 e i malinconici in contrario, o certo
meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo pp.
69-70
p.
255. (31. Gen. 1824.).
[4105,2] L'infelicità abituale, ed anche il solo essere
abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue
a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di
sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è
che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o
doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha
altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il
tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio,
perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma.
Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile.
Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non
s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può
interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e
di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della
4106
natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o
tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno
in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli
destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè
dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a
mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua
immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli
altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha
perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si
estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la
furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente
alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se
medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a
vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per
ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se
stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le
azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si
riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in
un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non
d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra
di se. Ora
4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè
rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è
insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a
soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea
di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un
piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è
noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima
la più grande e fertile per natura.
[4231,2]
Intermittenza morale.
*
Passioni e qualità morali intermittenti.
- Aggiungerò che quest'odiosa passione (l'avarizia)
provenendo sovente dalla debolezza della nostra costituzione, avviene
che le infermità corporali talvolta la sviluppino. Una dama che per sei
mesi dell'anno era soggetta ai vapori e alla malinconia, era pur anche
durante quel tempo d'una sordida parsimonia; ma come appena le funzioni
corporee ripigliavano la loro armonia, ella si faceva adorare per la sua
grande generosità.
*
Alibert, Physiologie des passions,
nel N. Ricoglitore di Milano, quaderno 23. p.
788. - Questa osservazione si può sommamente estendere. Ciascuno di
noi, se bene osserva, troverà in se questa sì fatta intermittenza. Io, inclinato
all'egoismo, perchè debole e infermo, sono mille volte più egoista l'inverno che
la buona stagione; nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza
dell'avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli
altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto
confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico. - Quante
cose poi non si potrebbero dire sopra questa medesima intermittenza,
considerata, non nelle qualità, ma nelle facoltà intellettuali e sociali, sia
ingenite, sia acquisite! (Recanati. 10. Dic. Festa
della Venuta. 1826.).
[4282,10] L'estate, oltrechè liberandoci dai patimenti,
produce in noi il desiderio de'
4283 piaceri, ci dà
anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e
libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell'aria. Dalla qual
sicurezza d'animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della
inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza
che produce il freddo, nasce l'egoismo, l'indifferenza per gli altri ec.
[4283,2] Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi
per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo
fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se
medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
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