Scienza e Ignoranza.
Knowledge and Ignorance.
246,2 252,1 274,1 304,2 314,1 326,1 331,1 334,3 349,1 375,1 378,1 393,2 420,2 436,1 520,1 595,2 651,1 654,2654,1 866,1 870,1 925,2 1175,1 1252,2 1262,2 1464,1 1825,1 1981,2 2245,1 2292,1 2390,1 2391,1 2554,1 2672,2.3 2684,1 2685,3 3899,1 3993,1 4041,7 4135,5 4206,4Scienza e Ignoranza. Luogo di Federico II.
Knowledge and Ignorance. Passage from Ferederick II.
3954,1[246,2] Dalla teoria del
piacere esposta in questi pensieri pp.165-83 si comprende facilmente quanto e perchè la
matematica sia contraria al piacere, e siccome la matematica, così tutte le cose
che le rassomigliano o appartengono, esattezza, secchezza, precisione,
definizione, circoscrizione, sia che appartengano al carattere e allo spirito
dell'individuo, sia a qualunque cosa corporale o spirituale. Perchè
[252,1] Alla tirannia fondata sopra l'assoluta barbarie,
superstizione, e intera bestialità de' sudditi, giova l'ignoranza, e nuoce
definitivamente e mortalmente l'introduzione dei lumi. Perciò Maometto, con buona ragione proibì gli studi. Alle
tirannie esercitate sopra popoli inciviliti fino a un certo punto, fino a quel
mezzo, nel quale consiste la vera perfezione dell'incivilimento e della natura,
l'incremento e propagazione dei lumi, delle arti, mestieri, lusso ec. non
solamente non pregiudica, ma giova sommamente, anzi assicura e consolida la
tirannia, perchè i sudditi da quello stato di mediocre incivilimento che lascia
la natura ancor libera, e le illusioni, e il coraggio, e l'amor di gloria e di
patria, e gli altri eccitamenti alle grandi azioni, passa all'egoismo,
all'oziosità riguardo all'operare, all'inattività, alla corruttela, alla
freddezza, alla mollezza ec. La sola natura è madre della grandezza e del
disordine. La ragione tutto all'opposto. La tirannia non è mai sicura se non
quando il popolo non è capace di grandi azioni. Di queste non può esser capace
per ragione, ma per natura. Augusto,
Luigi 14. ed altri tali mostrano di
aver bene inteso queste verità. (28. 7.bre 1820.).
[274,1]
Alla p. 252
capoverso 1. Vedi in questo proposito la p. 114. pensiero ultimo, e considera la gran
contrarietà di Catone ai progressi
dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch'io
dico, cioè dell'esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici,
favorevolissimi alla tirannia. V. anche Montesquieu
Grandeur etc. ch. 10. principio.
Certo la profonda filosofia di Seneca,
di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio
Prisco, di Aruleno Rustico,
di Tacito ec. non
impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi,
quando n'ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne
avevano avuti mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia,
sebbene paiano suoi nemici, così scambievolmente la
275
tirannia giova loro, 1. perchè il tiranno ama e proccura che il popolo si
diverta, o pensi (quando non si possa impedire) in vece che operi, 2. perchè
l'inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del pensiero,
mancando quella dell'azione, 3. perchè l'uomo snervato e ammollito è più capace
e più voglioso o di pensare, o di spassarsi coll'amenità ec. degli studi
eleganti, che di operare, 4. perchè il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la
riflessione, la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico;
l'eloquenza non più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5.
perchè la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l'immaginazione lieta
aerea brillante e insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione
del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche
luogo all'immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalle verità,
dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie
naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella de' settentrionali,
massime oggidì, fra' quali la poca vita della natura, dà luogo all'immaginativa
fondata sul pensiero,
276 sulla metafisica, sulle
astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui
dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime
che colla poesia. (14. 8.bre 1820.).
[304,2] Quel detto scherzevole di un francese
Glissez, mortels, n'appuyez
pas
*
a me pare che contenga tutta la sapienza
umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della più sublime e profonda
e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla
natura, e non al nostro intelletto nè alla ragione, ma all'istinto ingenito ed
intimo, e tutti noi l'avevamo messo in pratica da
305
fanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche,
esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che
da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza
di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed
eseguivano senza sognarsi d'esser filosofi, e senza stenti nè fatiche nè
ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè la natura ci aveva già fatto
saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo; anzi
tanto più, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi
operavamo per istinto e disposizione ch'era dentro di noi, ed immedesimata colla
nostra natura, e però più certamente e immancabilmente e continuamente efficace.
Così l'apice del sapere {umano} e della filosofia
consiste a conoscere la di lei propria inutilità {se l'uomo
fosse ancora qual era da principio,} consiste a correggere i danni
ch'essa medesima ha fatti, a rimetter l'uomo in quella condizione in cui sarebbe
sempre stato, s'ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della
filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia. (7. Nov.
1820.)
[314,1]
314
Alla p. 252.
La Spagna è una prova e un esempio vivo e presente di
quello ch'io dico. Nella Spagna barbara di barbarie non
primitiva ma corrotta per la superstizione, la decadenza da uno stato molto più
florido, civile, colto e potente, gli avanzi de' costumi moreschi ec. nella
Spagna, dico, l'ignoranza sosteneva la tirannia.
Questa dunque doveva cadere ai primi lampi di una certa filosofia, derivati
dall'invasione e dimora de' francesi, e dalla rivoluzione del mondo. L'ignoranza
è come il gelo che assopisce i semi e gl'impedisce di germogliare, ma non gli
uccide, come l'incivilimento, e passato l'inverno, quei semi germogliano alla
primavera. Così è accaduto nella Spagna, dove quel
popolo, tornato quasi vergine ha sentito le scosse dell'entusiasmo, e l'avea già
dimostrato nell'ultima guerra. E perciò s'è veduto quivi il contrario delle
altre nazioni, come osserva l'autore del
Manuscrit venu de
S.te Hélène, cioè che lo spirito rivoluzionario
esisteva solamente in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati,
nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non aveano che a perdere:
315 perchè il torpore della nazione non derivava da
eccesso d'incivilimento, ma da difetto; e i pochi colti, probabilmente non lo
erano all'eccesso, come altrove, ma quanto basta e conviene, e non più. Quando
la Spagna sarà bene incivilita ricadrà sotto la tirannia,
sostenuta non più dall'ignoranza, ma per lo contrario dall'eccesso del sapere,
dalla freddezza della ragione, dall'egoismo filosofico, dalla mollezza, dal
genio per le arti e gli studi pacifici. E questa tirannia sarà tanto più
durevole quanto più moderata della precedente. E se il re di
Spagna avrà vera politica dovrà promuovere a tutto
potere l'incivilimento del suo popolo (e in questi tempi vi potrà riuscire più
facilmente e più presto). E con ciò non consoliderà la loro indipendenza, come
si crede comunemente, ma gli assoggetterà di nuovo, e ricupererà quello che ha
perduto. Non c'è altro stato intollerante di tirannia, o capace di esserne
esente, fuorchè lo stato naturale e primitivo, o una civilizzazione media, com'è
ora quella della Spagna, com'era quella de' Romani ec.
Atene e la grecia
{quando furono} sommamente civili, non furono mai
libere veramente. (10 Nov. 1820.).
[326,1] Dicono che la felicità dell'uomo non può consistere
fuorchè nella verità. Così parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia
falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render
felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell'ignoranza del vero. E
questo, appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e perchè la natura ha
fatto l'uomo felice. Ora essa l'ha fatto anche ignorante, come gli altri
animali. Dunque l'avrebbe fatto
327 infelice esso, e le
altre creature; dunque l'uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure le altre
creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari moltissimi
secoli perchè l'uomo acquistasse il complemento, anzi il principale
dell'esistenza, ch'è la felicità (giacchè nemmeno ora siam giunti all'intiera
cognizione del vero); dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente
infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidì;
dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione
del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl'individui) sono
usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura. E la perfezione
consiste nella felicità quanto all'individuo, e nella retta corrispondenza
all'ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest'ordine in
un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l'ignoranza è
incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E se
la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perchè,
supponendo che l'abbia posta riguardo all'uomo nella cognizione del vero, ha
nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli non bastano a
discoprirlo?
328 Non sarebbe questo un vizio organico,
fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso così
difficile il solo mezzo di ottener quello ch'ella voleva soprattutto, e si
prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la felicità dell'uomo il quale tiene
evidentemente il primo rango nell'ordine delle cose di quaggiù? Come ha
ripugnato con ogni sorta di ostacoli a quello ch'ella cercava? Ma l'uomo dovea
ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi
consideriamo come brutale; non però dovea mettersi in un altr'ordine di cose, e
considerarsi come appartenente ad un'altra categoria, e porre la sua dignità,
non nel primeggiare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi
assolutamente fuori della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e
indipendenti dalle leggi universali della natura. (14. Nov.
1820.).
[331,1]
331 Quello ch'io dico della filosofia de' romani, e in
genere di ogni filosofia, si conferma dall'esser cosa già osservata che la
religione si ritrova presso la culla di tutti i popoli, in quella
guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor
tomba.
*
(Essai sur
l'indifférence en matière de Religion. nelle prime linee del
Capo 2. E poco dopo il principio del C. 1. dopo aver detto che la filosofia
greca, tanto temuta da Catone, e
nondimeno insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di
Roma vincitrice del mondo, soggiunge ch' è un fatto degno della più seria
considerazione che tutti gl'imperi la cui storia è da noi
conosciuta, e che erano stati consolidati dal tempo e dalla
prudenza, si videro rovesciati dai Sofisti
*
. Nel capo
secondo si estende maggiormente in provare che la filosofia fu la
distruttrice di Roma, e conviene con Montesquieu il quale non teme di attribuire la caduta di
quest'impero alla filosofia di Epicuro,
*
aggiungendo in nota che Bolinghbroke pensa in questo punto assolutamente come
Montesquieu: "L'obblio ed il disprezzo della Religione furono la cagione
principale dei mali che"
332 "provò
Roma in seguito: la Religione e
lo Stato decaddero nella medesima
proporzione."
*
T. 4 p. 428.).
*
Colla differenza che laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli
stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall'errore, io dico
che sono stabiliti e conservati dall'errore, e distrutti dalla verità. La verità
non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il
tempo e l'esperienza non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori del
falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero. E chi considera le cose
al rovescio, va contro la conosciuta natura delle cose umane. Questo è il
controsenso fondamentale in cui è caduto l'autore sopracitato. Egli avrebbe
difesa molto meglio la Religione se l'avesse difesa non come dettame
dell'intelligenza, ma come dettame del cuore. E quando egli dice che dunque
l'esistenza e la felicità, la perfezione e la vita dell'uomo sarebbero contro
natura, perchè la natura è il complesso delle perpetue verità, s'inganna, perchè
la natura è il complesso delle verità in tal modo che tutto quello ch'esiste sia
vero, ma non tutto quello ch'è vero sia conosciuto da ciascuna delle di lei
parti. Ed una di queste verità che son comprese
333 nel
sistema della natura, è che l'errore e l'ignoranza è necessaria alla felicità
delle cose, perchè l'ignoranza e l'errore è voluto, dettato, e stabilito
fortemente da lei, e perch'ella in somma ha voluto che l'uomo vivesse in quel
tal modo in cui ella l'ha fatto. E non perchè l'uomo ha voluto speculare il
fondo delle cose, contro quello che doveva anzi poteva fare naturalmente, perciò
è meno vero ch'egli doveva ignorare quello che ha scoperto, e che la sua
felicità sarebbe stata vera, se egli
avesse errato, e ignorato quelle verità che così considerate riescono
indifferenti all'uomo, e che la natura ha seguite (ma segretamente) nel suo
sistema, perchè gli erano necessarie, (16. Nov. 1820.). {{o perchè così gli è piaciuto.}}
[334,3] Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il
mondo era in uno stato di morte all'epoca della prima comparsa del
Cristianesimo; che questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva impossibile.
Quindi
335 conchiudono che questo non poteva essere
effetto se non dell'onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità, che
l'errore perdeva il mondo, la verità lo salvò. Solito controsenso. Quello che
uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò
non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch'egli produsse,
entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di
una grande illusione. Non consideriamo adesso s'egli sia vero o falso, ma
solamente che questo non prova nulla in suo favore. Ma come si stabilì con tanti
ostacoli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo ai governi ec.? Quasi
che quella fosse la prima volta che il fanatismo di una grande illusione trionfa
di tutto. Non ha considerato menomamente il cuore umano, chi non sa di quante
illusioni egli sia capace, quando anche contrastino ai suoi interessi, e come
egli ami spessissimo quello stesso che gli pregiudica visibilmente. Quante pene
corporali non soffrono per false opinioni i sacerdoti
dell'India ec. ec.! E la setta dei flagellanti nata
sui principii del Cristianesimo, che illusione era? {E i
sacrifizi infiniti che facevano gli antichi filosofi p. e. i Cinici alla
professione della loro setta, spogliandosi di tutto il loro nella ricchezza
ec.? E il sacrifizio de' 300. alle Termopili?}
Ma come
336 trionfò il Cristianesimo della filosofia,
dell'apatia che aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di quel tempo non
erano 1. nè stabili, definiti e fissi, 2. nè estesi e divulgati, 3. nè profondi
come ora; conseguenza naturale della maggiore esperienza, della stampa, del
commercio universale, delle scoperte geografiche che non lasciano più luogo a
nessun errore d'immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si danno la
mano in modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque genere
influisca sopra lo spirito umano. Quei lumi erano bastati a spegnere l'error
grossolano delle antiche religioni, ma non solamente permettevano, anzi si
prestavano ad un error sottile. E quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava
al metafisico, all'astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava in quei tempi. V. Plotino, Porfirio, Giamblico, e i
seguaci di Pitagora, anch'esso astratto
e metafisico. L'oriente poi, non solo allora, ma
antichissimamente, aveva inclinato alla sottigliezza, ed anche alla profondità e
verità, nella morale e nel resto. Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec. ec. A
distrugger l'error più
337 sottile vi volevano lumi
molto più profondi, sottili e universali di quelli d'allora. Tali sono quelli
d'oggidì, così perfetti che sono interamente sterili d'errore, e da essi non può
derivare error più sottile, come dai lumi antichi, il quale pur dia qualche vita
al mondo. Ai mali della filosofia presente, non c'è altro rimedio che la
dimenticanza, e un pascolo materiale alle illusioni.
[349,1]
L'Essai sur
l'indifférence en matière de religion, {alquanto} dopo il principio del capo V. nel luogo dove
tratta delle origini storiche del Deismo, dimostra i neri presentimenti che
agitavano i Capi della Riforma intorno al futuro stato delle opinioni, della
religione, e dei popoli. Buon Dio, qual
tragedia, esclamava uno di essi, vedrà mai
la posterità! Pur troppo bene. Essi cominciavano
350 a sentire e prevedere la febbre divorante e
consuntiva della ragione, e della filosofia; la distruzione di tutto il bello il
buono il grande, e di tutta la vita; l'opera micidiale e le stragi di quella
ragione e filosofia che aveva avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista
devastazione in Germania, patria del pensiero, (come la
chiama la Staël) non inducendo gli uomini da
principio se non ad esaminar la religione, e negarne alcuni punti, per poi
condurli alla scoperta di tutte le verità più dannose, e all'abbandono di tutti
gli errori più vitali e necessari. I lumi cagionati dal risorgimento delle
lettere, erano appunto allora giunti a quel grado che bastava per cominciare
l'infelicità e il tormento di un popolo, al quale la natura era stata meno larga
dei mezzi di felicità, che sono l'immaginazione ricca e varia, e le illusioni.
Ne avevano naturalmente quanto bastava (e così gl'inglesi ai tempi di Ossian, come gli stessi germani ai
tempi de' Bardi e di Tacito), ma non tanti, nè tanto forti da resistere ai lumi così
lungamente, come i paesi meridionali, e soprattutto (la
Spagna e) l'Italia, dove anche
oggidì si vive poco, è vero, perchè manca il corpo e il pascolo materiale e
sociale delle illusioni, ma si pensa anche ben poco. (23. Nov.
1820.)
{{La Spagna s'è trovata finora nello
stesso caso. Il suo clima, e la situazione geografica, e il governo ec.
351 proteggevano le illusioni come in
italia, senza però lasciarnela profittare, nè
proccurarsene punto di vita, massime esterna e sociale.}}
[375,1] La ragione è nemica della natura, non già quella
ragione primitiva di cui si serve l'uomo nello stato naturale, e di cui
partecipano gli altri animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci
di conoscere. Questa l'ha posta nell'uomo la stessa natura, e nella natura non
si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell'uso della ragione che non
è naturale, quell'uso eccessivo ch'è proprio solamente dell'uomo, e dell'uomo
corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, nè proprio
dell'uomo primitivo.
[378,1] Il Capo 9. dell'Essai ec. qui sopra
citato è il più forte profondo e concludente forse di tutta l'opera, perchè le
prove della Religione non sono dedotte dalla considerazione dell'uomo qual egli
è, dalle opinioni ec. ma dalla natura dell'uomo. Farai bene a rileggerlo. Ma
ecco il suo raziocinio. La felicità non si trova se non nella perfezione di cui
l'essere è capace. Un essere non è perfetto se le sue facoltà non sono
perfettamente d'accordo fra loro, perfettamente sviluppate secondo la loro
natura, e se non godono ciascuna del suo proprio oggetto secondo tutta
l'estensione della sua capacità. Non è perfetto s'egli non è in conformità colle
leggi che risultano dalla sua natura. Ma per conformarcisi
379 bisogna conoscerle. Dunque l'uomo non sarà felice se non quando
conosca se stesso, e i rapporti necessari che ha con altri esseri. E deve
poterli conoscere, altrimenti sarebbe un essere contraddittorio,
perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non avrebbe
alcun mezzo di pervenirvi.
*
L'uomo dunque
inclinando alla perfezione o felicità, inclina sommamente alla cognizione del
vero. Dalla cognizione deriva l'amore o l'odio, ossia il giudizio relativo alla
qualità buona o cattiva. Dall'amore o l'odio deriva l'azione, perchè l'uomo non
si può determinare se non a quello che crede bene. L'ignoranza assoluta è uno
stato di morte, perchè, supponendo che l'uomo non abbia un motivo per creder le
cose buone o cattive, la sua indifferenza è totale, e non potendo amare nè
odiare, non può scegliere, dunque non può agire, dunque non può vivere. Sicchè
conoscere, amare, operare; ecco tutto l'uomo. L'oggetto della facoltà di
conoscere, è la verità. L'estensione di questa facoltà si misura dal desiderio.
L'uomo sente un desiderio infinito di conoscere e {così} di amare. Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l'intelligenza è
capace di conoscere la verità infinita; la sua facoltà di amare, è capace di
amare il Bene infinito. Laddove la sua facoltà di agire essendo limitata, egli
non sente un desiderio infinito di agire, come essere fisico. Dunque la felicità
dell'uomo
380 consiste nella perfezione della
conoscenza; dell'amore, o sia disposizione dell'anima verso gli oggetti; e
dell'azione che deriva da questi due principii. Dunque consiste nel vero:
perchè: 1. l'ignoranza assoluta è lo stesso che mancanza intera di cognizione,
amore, e azione. 2. l'errore ingannandolo sui suoi rapporti, e sull'accordo e
sviluppo delle sue facoltà, contraddice alla perfezione, ossia distrugge
l'armonia dell'uomo e delle sue facoltà colle leggi che risultano dalla sua
natura, e quindi distrugge la sua felicità. Ecco l'argomentazione. Ecco le
risposte.
[393,2] Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini, e
l'attribuir ch'io fo tutto o quasi tutto alla natura, e pochissimo o nulla alla
ragione, ossia all'opera dell'uomo o della creatura, non si oppone al
Cristianesimo.
[420,2]
Alla p. 416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato
dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o
minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo
stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per
421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà
questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de'
selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle
credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono
primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati
dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo
un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso
stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma
all'infelicità. V. p. 314. Quindi è
che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita,
è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la
natura, una certa mezzana ignoranza,
422 mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era
lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più
vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto
(eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e}
barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza
dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva
conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo
dalla natura: se non in
423 quanto quell'ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana
dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che
produce} l'incivilimento non
medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito
p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è
dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non
per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo
stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura,
la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani,
Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della
Spagna e simili più moderne ed europee.).
[436,1] Nella Genesi non si trova nulla in
favore della pretesa scienza infusa in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho
detto p. 394. fine. Dio, dice la Genesi,
adduxit ea
*
(gli
animali) ad Adam, ut videret
quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis,
*
(che
forse è quanto dire: omnis enim
anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens) ipsum est nomen eius.
Appellavitque Adam
nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et
omnes bestias terrae.
*
(Gen. 2. 19. et
20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di quelle qualità
degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente di quelle che
appariscono a prima giunta agli occhi, all'orecchio ec: qualità dalle quali
ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli oggetti sensibili
437 nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico e
quelle parole che formano le radici degl'idiomi.
[520,1]
520 L'intiera filosofia è del tutto inattiva, e un
popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione. In questo senso io
sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna
rivoluzione, o movimento, o impresa ec. pubblica o privata; anzi ha dovuto per
natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci ec. Ma la mezza
filosofia è compatibile coll'azione, anzi può cagionarla. Così la filosofia avrà
potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di
Francia, di Spagna ec. perchè
la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato nè in
Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma
solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa;
non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento. E questi
errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori
per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un'ignoranza
barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle
521 credenze della natura, o primitiva, o ridotta a
stato sociale ec. Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di
medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima
analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall'eccesso
dell'incivilimento, il quale non è mai separato dall'eccesso {relativo} dei lumi, dal quale anzi in gran parte deriva. E infatti la
mezza filosofia è la molla di quella poca vita e movimento popolare d'oggidì.
Trista molla, perchè, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la
sua base nella natura, come gli errori e le molle dell'antica vita, o della
fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in
credenze o cognizioni non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto
imperfettamente ragionevole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza
è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione.
E presto o tardi, ci
522 deve arrivare, perchè tale è
l'essenza sua, al contrario degli errori naturali. E l'azione presente non può
essere se non effimera, e finirà nell'inazione come per sua natura è sempre
finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e
sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente
sostanzialmente e primordialmente all'uomo. Del resto la mezza filosofia, non
già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l'amor patrio e le
azioni che ne derivano, in Catone, in
Cic. in Tacito, {Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco,} e negli altri antichi filosofi e patrioti
allo stesso tempo. Quali poi fossero gli effetti de' progressi {e perfezionamento} della filosofia presso i Romani è ben
noto.
[595,2]
᾽Αμαϑία μὲν ϑράσος,
λογισμὸς δ᾽ ὄκνον ϕέρει.
*
L'ignoranza fa l'uomo pronto,
596 la considerazione ritenuto; L'ignoranza fa che
l'uomo si risolva facilmente, la ragione difficilmente. In
latino traducono così: Inscitia
quidem audaciam, consideratio autem tarditatem fert.
*
Sentenza di Tucidide, lib. 2.
nell'orazione funebre detta da Pericle, che incomincia, οἱ μὲν πολλοὶ τῶν
ἐνϑάδε ἤδη εἰρηκότων
*
. Sentenza celebre presso gli antichi.
Luciano: (in {Epist.
ad Nigrinum, quae praemittitur} Nigrino, seu de Philosophi
moribus) ᾽Αποϕεύγοιμ᾽ ἂν
*
{(scamperò)}
εἰκότως καὶ τὸ τοῦ Θουκυδίδου λέγοντος, ὅτι ἡ ἀμαϑία
μὲν, ϑρασεῖς, ὀκνηροὺς δὲ τὸ λελογισμένον ἀπεργάζεται.
*
Imperitia audaces, res autem
considerata timidos efficit.
*
Plinio
(Epist. IV.
7.): Hanc ille vim, (seu quo alio
nomine vocanda est intentio quicquid velis obtinendi) si ad potiora
vertisset, quantum boni efficere potuisset? quanquam minor vis
bonis, quam malis inest, ac sicut ἀμαϑία μὲν ϑράσος, λογισμὸς
δὲ ὄκνον ϕέρει, ita recta ingenia debilitat
verecundia, perversa
597 confirmat
audacia.
*
S. Girolamo: (Epist. 126. ad Evagr. (così
è numerata nella mia edizione t. 3. p. 31. a.) Tuum certe spiritualem illum interpretem non
recipies; qui imperitus sermone et scientia, tanto supercilio et
auctoritate Melchisedek
Spiritum Sanctum pronunciavit, ut illud verissimum comprobarit, quod
apud Graecos canitur: imperitia confidentiam, eruditio timorem
creat.
*
[651,1]
La
curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin
et plus vîte dans le chemin de la vérité.
*
Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 72.
Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo. La
curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non
l'effetto della conoscenza. Esaminate la natura, e
652
vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo;
come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli
appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p. e. le cose fisiche,
astronomiche ec. le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante,
del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per
informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste
sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali,
basta alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed
ovvie). Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una
causa, che realmente non è quella ec. In somma non è niente vero, che l'uomo sia
portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione. La curiosità, qual è
oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un
andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec. buone ed utili,
anzi necessarie in
653 quel grado che la natura aveva
dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e
sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente. Così che sebbene
queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono
naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare
della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini
quelle conseguenze che se ne deducono. (13. Feb. 1821.). {{V. p. 657. capoverso 1.}}
[654,1]
Modérez votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont
dangereuses, et elles ne donnent ordinairement que beaucoup d'orgueil;
elles démontent les ressorts de l'ame..... Notre ame a bien plus de quoi
jouir, qu'elle n'a de quoi connoître
*
: (i mezzi di godere che
quelli di conoscere: questo è il senso,
655 come
apparisce dal contesto, e da altri luoghi delle sue op. paralleli a questo)
nous avons les lumières propres et nécessaires à
notre bien être; mais nous ne voulons pas nous en tenir là; nous courons
après des vérités qui ne sont pas faites pour nous... {Ces réflexions dégoûtent des sciences
abstraites.}
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille,
dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, p. {74 - 75 -} 76. Nous avons en nous
de quoi jouir, mais nous n'avons pas de quoi connoître. Nous avons les
lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous courons
après des vérités qui ne sont pas faites pour nous{{...}} Ces réflexions dégoûtent des vérités abstraites.
*
La même, Traité de la Vieillesse, l.
c. p. {146 - }147. (13. Feb.
1821.).
[866,1] Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non
ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre
trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i
greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della
civiltà, i settentrionali de' Romani nello
867 stesso
caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che
furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e
illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l'impotenza sono compagne
inseparabili; {+vuol dire che il fare non è proprio nè
facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è
sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o
barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per
qualunque motivo e scopo agiscano.} Non dubito di
pronosticarlo. L'europa, tutta civilizzata, sarà preda di
quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi
di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma
finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e
piene {e
persuasive, e costanti, e non ragionate,} e grandi
illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e
potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà
alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta
opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi
tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. {{Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi
un'altra essenza ed esistenza.}}
868
(24. Marzo 1821.)
[870,1] Intorno alla ragione proclamata, e alla tentata
geometrizzazione del mondo, nella rivoluzione francese v. anche parecchie cose
notabili, e qualche notizia e fatto nell'Essai sur
l'indifférence en matière de Religion, nell'ultima
parte del capo 10. (che abbraccierà una 20.na[ventina] di pagg.) dove riduce le dottrine che ha esposte,
all'esempio formale della rivoluzione francese, da quel periodo che
incomincia Esisteva, sono già
trent'anni, una nazione governata da una stirpe antica di
re
*
ec. sino alla fine del capo.
(26. Marzo 1821.).
[925,2] La superiorità della natura sopra tutte le opere
umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che
tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo
nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è
indubitatamente
926 il più istruito che mai fosse, non
hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e
non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se
nella società primitiva, cioè rendere all'uomo {sociale} quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le antiche
politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le
popolazioni non incivilite, {e allo stesso tempo} non
barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie
primitiva, e non di corruzione. (6. Aprile. 1821.).
[1175,1] Quanto più cresce il mondo rispetto all'individuo,
tanto più l'individuo impiccolisce. I nostri antichi, conoscendo pochissima
parte di mondo,
1176 ed essendo in relazione con molto
più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi. Noi
conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo
piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si
verifica che essendo cresciuto il mondo, l'individuo s'è impiccolito sì
fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l'uomo
{e le sue facoltà} impiccoliscono a misura che il
mondo cresce in riguardo loro. (16. Giugno 1821.).
[1252,2] - Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il
mondo filosofo, e filosofica tutta la vita umana, {+che è quanto dire, che non vi fosse più vita al
mondo.} E pur questo è il desiderio ec. de' filosofastri{{, anzi della maggior parte de' filosofi presenti e
passati.}}
[1262,2] Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer
vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non passa
giorno che non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui
l'ignoranza. Vero è che così viceversa accade del dolore. (2. Luglio
1821.).
[1464,1]
1464 Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove
pp. 1341-42 che il primo principio delle cose è
il nulla. (7. Agos. 1821.).
[1825,1] L'uomo, e l'animale proporzionatamente, sono
ragionevoli per natura. Io dunque non condanno la ragione in quanto è qualità
naturale, ed essenziale nel vivente, ma in quanto (per sola forza d'indebite e
non naturali assuefazioni) cresce e si modifica in modo che diviene il
principale ostacolo alla nostra felicità, strumento dell'infelicità, nemico
delle altre qualità ec. naturali dell'uomo e della vita umana. (1. Ott.
1821.).
[1981,2] Che bello e felice stato dev'esser dunque quello, il
quale quanto a se rende lecita, e domanda la cosa la più contraria all'essenza
di qualunque cosa, la più contraddittoria coll'esistenza {e
co' suoi principii,} quella che ridotta ad atto distruggerebbe tutto
ciò che vive, e sovvertirebbe l'ordine di tutto ciò che ne dipende o vi ha
relazione!
[2245,1] La sola virtù che sia e costante ed attiva, è quella
ch'è amata e professata per natura e per illusioni, non quella che lo è per sola
filosofia, quando anche la filosofia porti alla virtù, il che non può fare se
non mentre ell'è imperfetta. Del resto osservate i romani. La virtù fondata
sulla filosofia non esistè in Roma fino a' tempi de' Gracchi. Virtuosi per filosofia non
furono mai tanti in roma, quanti a' tempi de' Tiberi, Caligola, Neroni, Domiziani. Troverete
nell'antica Roma dei Fabrizi (nemicissima della filosofia, come si sa dal fatto di Cinea) dei Curii ec. ma dei Catoni[(Cato
Maior; Cato Minor)], dei Bruti stoici non li troverete.
2246 Or bene
che giovò a Roma la diffusione l'introduzione della virtù
filosofica, e per principii? La distruzione della virtù operativa ed efficace, e
quindi della grandezza di Roma. (11. Dic.
1821.).
[2292,1]
2292 Chi deve governare gli uomini, dovrebbe conoscerli
più che alcun altro mai. I principi per lo contrario, cresciuti fra
l'adulazione, e vedendo gli uomini sempre diversi da quello che sono, (per le
infinite simulazioni della corte) e da giovani avendo poca voglia, più tardi
poco tempo di attendere agli studi, non possono conoscer gli uomini nè come li
conoscono i filosofi, nè come li conosce chi ha praticato e sperimentato il
mondo qual egli è. Quindi nella cognizione degli uomini, dote in essi di prima
necessità per il bene de' sudditi, i principi non solo non sono superiori, ma
necessariamente inferiori ai più meschini e ignoranti che vivono nel mondo. A
questo gran difetto rimedierebbero gli studi: e infatti quanti principi sono
stati studiosi o in gioventù o in seguito, quanti principi sono stati filosofi,
tanti sono stati buoni principi, avendo appreso dai libri a conoscer quel mondo
e
2293 quelle cose che avevano a governare. Marcaurelio, Augusto, Giuliano ec. Parrebbe questo un grandissimo pregio e un vero trionfo
della filosofia, e dimostrazione della sua utilità. Ma io dico che la filosofia
non ha fatto nè farà mai questo buon effetto di darci dei buoni principi, se non
fino ch'ella fu, o quando ella è imperfetta: allo stesso modo che solo in questo
caso ella può darci de' buoni privati, e ce ne diede e ce ne dà. Vengo a dire
che la filosofia moderna (la quale può dirsi che nella sua natura, cioè in
quanto filosofia, o scienza della ragione e del vero, sia perfetta) non farà de'
buoni principi, come non farà mai de' buoni privati; anzi ne farà dei pessimi,
perchè la perfezione della filosofia, non è insomma altro che l'egoismo; e però
la filosofia moderna non farà de' principi (come
2294
vediamo de' privati) se non de' puri e perfetti egoisti. Tanto peggiori de'
principi ignoranti, quanto che in questi l'egoismo ha una base meno salda; la
natura che lo cagiona, v'aggiunge molti lenitivi e modificativi; le illusioni
della virtù della grandezza d'animo, della compassione, della gloria non sono
irrevocabilmente chiuse per loro, come per un principe filosofo moderno: e se
non altro in quelli la coscienza e l'opinione ripugna al costume, e al vizio; in
questi li rassoda, li protegge (essendo un filosofo moderno, necessariamente
egoista, e {quindi} malvagio, per principii), anzi li
comanda, e condannerebbe il principe se non fosse egoista dopo aver conosciute
le cose e gli uomini. Così che anche un principe inclinatissimo alla virtù,
divenendo filosofo alla moderna, diverrebbe quasi per forza e suo malgrado
vizioso,
2295 come accade ne' privati. Volete una prova
di fatto? Volete conoscere che cosa sia un principe filosofo moderno? Osservate
Federico II. e paragonatelo con
M. Aurelio. Di maniera che è da
desiderarsi sommamente oggidì che un principe non sia filosofo, il che tanto
sarebbe, quanto freddo e feroce e inesorabile egoista, ed un egoista che ha in
mano, e può disporre a' suoi vantaggi una nazione, è quanto dire un tiranno.
Ecco il bel frutto e pregio della filosofia moderna, la quale finisce
d'impossibilitare i principi ad esser virtuosi (siccome fa ne' privati), e a
conoscer gli uomini, senza il che non possono esser buoni principi. Ma siccome
questo effetto della filosofia moderna, non è in quanto moderna, ma in quanto
vera e perfezionata filosofia (giacchè niente di falso le possiamo imputare), e
siccome le cose si denno considerare e giudicare nella
2296 loro perfezione cioè nella pienezza del loro essere, e delle loro
qualità e proprietà, così giudicate che cosa sia per essenza la filosofia, la
sapienza, la ragione, la cognizione del vero, tanto riguardo al regolare le
nazioni, cioè riguardo a' principi, quanto assolutamente parlando. (27.
Dic. 1821.).
[2390,1]
2390 L'attenzione de' fanciulli è scarsa 1. per la
moltitudine e forza delle impressioni in quell'età, conseguenza necessaria della
novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione
loro in mille parti e continuamente, l'impediscono di esser sufficiente in
nessuna: e questa è la distrazione che s'attribuisce ai fanciulli, tanto più
distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perchè
anche la facoltà di attendere non si acquista senz'assuefazione ec: 3. perchè la
natura ha provveduto in modo che fin che l'uomo è nello stato naturale, come
sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l'attenzione la
nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed infelicità
umana. (16. Feb. 1822.)
[2391,1]
2391
Ma nulla fa chi troppe
cose pensa.
*
Tasso
Aminta, Atto 2. scena 3. v. ult.
(20. Feb. primo di Quaresima. 1822.).
[2554,1] Tutto questo essendo applicabile ad
2555 ogni genere di viventi in qualunque loro
condizione (niuno de' quali può esser felice, e quindi non essere infelice, e
non patire) e d'altronde {+posando sopra
principii {e fondamenti} quanto profondi
altrettanto certissimi, e immobili, ed} essendo esattissimamente
ragionato {e dedotto,} e strettamente conseguente,
serva a far conoscere la distruttiva natura della semplice ragione, {della metafisica,} e della dialettica, in virtù delle
quali tutto il mondo vivente, dovrebb'esser perito, per volontà e per opera
propria, poco dopo il suo nascere. (5. Luglio 1822.)
[2684,1]
2684 L'uomo sarebbe felice se le sue illusioni
giovanili {(e
fanciullesche)} fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se
tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il
giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe
ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini,
ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini
più o meno (secondo la differenza de' caratteri), e massime in gioventù, provano
queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione
scambievole, che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere
sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste
illusioni, come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel
genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non {le} avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in
particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell'età,
quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se
l'uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue
illusioni giovanili, e tutti gli uomini le
2685
avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero
realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua
della infelicità umana è la società. L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto
isolato e fuor della società. Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe
felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua.
1823.).
[2685,3]
Le ciel qui nous donna
la réflexion pour prévoir nos besoins, nous {a}
donné les besoins pour mettre
2686 des bornes à
notre réflexion.
*
Études de la Nature par Jacques-Bernardin-Henri de
Saint-Pierre.
Paul et Virginie. dans le Dialogue entre
Paul et le Vieillard. Parisde l'imprimerie de
Monsieur. 3.e édit. tom. 4. p. 132.
(Roma 14. Aprile 1823.).
[3899,1]
Je me rappelle
souvent ce vers anglais: L'homme est fait pour
agir, et tu prétends penser?
*
Frédéric II. Lettres à d'Alembert, tome 1. p. 203.
(22. Nov. 1823.)
{{V. p. 3931.}}
[3993,1]
Il me semble que
l'homme est plutôt fait pour agir que pour connaître.
*
Lettres du Roi de Prusse et de M. d'Alembert. Lettre ccxxxvii. du Roi.
(19. Dec. 1823.).
[4041,7] Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato
e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e
felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera
intenzione, non cercasse
4042 di farli tali, usando a
questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga si
è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch'è più
prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi
de' filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera
quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua
felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di
Quaresima. 1824.).
[4135,5] La società contiene ora più che mai facesse, semi di
distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di
ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa
veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e
stabilire verità negative e {non} positive, cioè
distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli
animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel
quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come
dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l'assenza di
questo o di quell'errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche
verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l'esser purificato da un
errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo:
l'uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono
necessari all'uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello
stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre
cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato
sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale
4136 in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può
non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione
naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì
non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura
quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch'elle sieno convenienti
all'uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non
naturali, ha distrutto l'amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato,
anzi rinato, uno universale egoismo. L'egoismo è naturale, proprio dell'uomo:
tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l'egoismo è
incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato {naturale} per questa parte, è distruttivo dello stato
sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la
filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la
società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce
gl'intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l'uomo alla maniera
naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è,
dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed
effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società,
la quale per l'addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell'altro, e presso
tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se,
possono esser pessimi all'uomo, posta la società; e questa può non poter
sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in
fatti al presente. (18. Aprile 1825.).
[4206,4] È chiaro e noto che l'idea e la voce spirito non si può in somma e in conclusione definire
altrimenti che sostanza che non è materia, giacchè
niuna sua qualità positiva possiamo noi nè conoscere, nè nominare,
4207 nè anco pure immaginare pp. 1635-36
p.
4111. Ora il nome e l'idea di materia, idea e nome anch'essa astratta,
cioè ch'esprime collettivamente un'infinità di oggetti, tra se differentissimi
in verità (e noi poi non sappiamo se la materia sia omogenea, {+e quindi una sola sostanza
identica,} o {vero} distinta in elementi,
{+e quindi in altrettante
sostanze,} di natura ed essenza differentissimi, com'ella è distinta
in diversissime forme), l'idea dico ed il nome di materia abbraccia tutto quello
che cade o può cader sotto i nostri sensi, tutto quello che noi conosciamo, e
che noi possiamo conoscere e concepire; ed essa idea ed esso nome non si può
veramente definire che in questo modo, o almeno questa è la definizione che più
gli conviene, in vece dell'altra dedotta dall'enumerazione di certe sue qualità
comuni, come divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili. Per tanto
il definire lo spirito, sostanza che non è
materia, è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di quelle che noi conosciamo o possiamo
conoscere o concepire, e questo è quel solo che noi venghiamo a dire e
a pensare ogni volta che diciamo spirito, o che
pensiamo a questa idea, la quale non si può, come ho detto, definire altrimenti.
Frattanto questo spirito, non essendo altro che quello che abbiam veduto, è
stato per lunghissimo spazio di secoli creduto contenere in se tutta la realtà
delle cose; e la materia, cioè quanto noi conosciamo e concepiamo, e quanto
possiamo conoscere e concepire, è stata creduta non essere altro che apparenza,
sogno, vanità appetto allo spirito. È impossibile non deplorar la miseria
dell'intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo poi che
questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo 19.° risorge da
tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche più
spirituale, per dir così, che in addietro; che i filosofi più illuminati della
più illuminata nazione moderna, si congratulano di riconoscere per
caratteristica di questo secolo, l'essere esso éminemment
4208
religieux,
*
cioè spiritualista; che può fare un
savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita
dalla terra per sempre, nel momento che gli uomini incominciarono a
cercarti
*
. Giacchè è manifesto che questa e simili
innumerabili follie, dalle quali pare ormai impossibile e disperato il guarire
gl'intelletti umani, sono puri parti, non mica dell'ignoranza, ma della scienza.
L'idea chimerica dello spirito non è nel capo nè di un bambino nè di un puro
selvaggio. Questi non sono spiritualisti, perchè sono pienamente ignoranti. E i
bambini, e i selvaggi puri, e i pienamente ignoranti sono per conseguenza a
mille doppi più savi de' più dotti uomini di questo secolo de' lumi; come gli
antichi erano più savi a cento doppi per lo meno, perchè più ignoranti de'
moderni; e tanto più savi quanto più antichi, perchè tanto più ignoranti.
(Bologna. 26. Sett. 1826.). {{V. p.
4219.}}
[3954,1] Si applichino eziandio le dette osservazioni alla
difficoltà o impossibilità di ben tradurre, a ciò che perde un libro nelle
traduzioni le meglio fatte, all'assoluta impossibilità, e contradizione ne'
termini, dell'esistenza di una traduzione
perfetta, massime in riguardo ai libri il cui principal pregio, o tutto
il pregio o buona parte spetti allo stile, all'estrinseco, alle parole ec. o col
cui effetto queste sieno particolarmente ed essenzialmente legate ec., come
debbono esser necessariamente più o meno tutti i libri di vera poesia in verso o
in prosa ec. ec. (7. Dec. 1823.). - Si estendano ancora le dette
osservazioni alla diversità delle idee concomitanti di una stessa parola ec. e
quindi dell'effetto di una stessa scrittura ec. secondo i tempi, e le nazioni, i
forestieri o nazionali, posteri più o meno remoti, o contemporanei ec. E quindi
alla poca durevolezza ed estensione possibile della
fama e stima di una scrittura per {ottima} ch'ella sia,
almeno dello stesso grado e qualità di fama e stima, e del giudizio di essa ec.,
massime essendo impossibili le traduzioni perfette, o dall'antico nel moderno, o
d'uno in altro moderno ec., come di sopra. E le differenze occasionate ne'
lettori da quelle de' tempi, costumi, climi, luoghi ec. ec. ec. (7. Dec.
1823.).
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