Religione. Culto.
Religion. Cult.
364,3 1059,2 1637,1 1710,1 2208,1 2387,1 2401,2 2574,1 3430,2 3433,1 3638,3 3894,2 4001,1 4126,6 4206,4 4229,4 4238,4[364,3] La filosofia e la natura de' tempi e della vita
presente s'ha per capital nemica della Religione, ed è vero. Contuttociò se
l'uomo doveva esser filosofo, far della ragione quell'uso che ora ne fa,
conoscere tutto quello che ora conosce, e generalmente s'egli doveva vivere come
ora vive, e se i tempi dovevano essere quali ora sono, o il sistema della natura
e delle cose è totalmente assurdo e contraddittorio, o bisogna necessariamente
ammettere una Religione. Perchè se l'uomo doveva essere inevitabilmente
infelice, come ora accade, ne
365 segue che al primo
nell'ordine degli enti, è meglio il non essere che l'essere, ne segue che l'uomo
non solo non deve amare nè conservare la sua esistenza, ma distruggerla; in
maniera che la sua stessa esistenza rinchiuda non dirò un germe nè un principio
di distruzione, ma quasi una distruzione formale e completa; ne segue che la
vita ripugna alla vita, l'esistenza all'esistenza, giacchè l'uomo non verrebbe
ad esistere se non per cercare di non esistere, quando conoscesse il suo vero
destino. La qual cosa è un'assurdità e una contraddizione sostanziale e capitale
nel sistema della natura. Per lo contrario se l'uomo non doveva essere quale ora
è, se la natura l'aveva fatto diversamente, se gli aveva opposto ogni possibile
ostacolo al conoscere quello che ha conosciuto e al divenire quello ch'è
divenuto, allora dallo stato presente dell'uomo, e dalle assurdità che ne
risultano, non si può dedur nulla intorno al vero, naturale, primitivo ed
immutabile ordine delle cose; come se un animale si rompe una gamba, non se ne
può dedur nulla intorno all'ordine generale, perchè questo è un inconveniente
particolare. Così lo stato {presente} dell'uomo, e le
assurdità sue, dovranno esser considerate come una particolarità indipendente
dall'ordine e dal sistema generale e
366 destinato, e
costante, e primordiale. Che se anche non c'è più rimedio per l'uomo, nemmeno
per chi si tagli una gamba, o sia schiacciato da una pietra, c'è più rimedio.
Basta che il male non sia colpa della natura, non derivi necessariamente
dall'ordine delle cose, non sia inerente al sistema universale; ma sia come
un'eccezione, un inconveniente, un errore accidentale nel corso e nell'uso del
detto sistema. {{V. p.
370.
e 1079. fine.}}
[1059,2] Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in
gran parte sia stata la fonte dell'ateismo, o generalmente, della incredulità
religiosa? Eppure io così la penso. L'uomo naturalmente non è incredulo, perchè
non ragiona molto, e non cura gran fatto delle
1060
cagioni delle cose. (v. p. 1055. ed
altro pensiero simile, in altro luogo [pp. 382-83]). L'uomo naturalmente {per lo più} immagina, concepisce e crede una religione, cosa
dimostrata dall'esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede
tante illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è
immaginata da' diversi uomini naturali
in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle
cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito
profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità. Ora queste
cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che
insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar
più giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause
occulte, all'esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali,
delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. {v. p. 1065. capoverso 2.}
E sebben tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le
religioni un poco formate si possono considerare come cause dell'irreligione,
ossia del loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell'uomo, il
quale non sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa
qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica
1061 e Cristiana.
[1637,1]
1637 Dal detto in altri pensieri pp. 1619-23 risulta che Dio poteva
manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell'aspetto che giudicava più
conveniente. Non manifestarsi, come ai Gentili; manifestarsi meno, e in forma
alquanto diversa, come agli Ebrei; più, come a' Cristiani: dal che non bisogna
concludere ch'egli ci si è manifestato tutto intero, come noi crediamo. Errore
non insegnato dalla Religione, ma da' pregiudizi che ci fanno credere assoluto
ogni vero relativo. La rivelazione poteva esserci e non esserci. Ella non è
necessaria primordialmente, ma stante le convenienze relative, originate dal
semplice voler di Dio. Egli si nascose a' Gentili, rivelossi alquanto agli
Ebrei, manifestò al mondo una maggior parte di se, nella pienezza de' tempi,
cioè quando gli uomini furono in istato di meglio comprenderlo. Egli si è
rivelato perchè ha voluto e l'ha stimato conveniente, e quanto e come e sotto la
forma che ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue
creature: forma sempre vera, perch'egli esiste in tutti i modi possibili.
[1710,1]
1710 L'amore universale, anche degl'inimici, che noi
stimiamo legge naturale (ed è infatti la base della nostra morale, siccome della
legge evangelica in quanto spetta a' doveri dell'uomo verso l'uomo, ch'è quanto
dire a' doveri di questo mondo) non solo non era noto agli antichi, ma contrario
alle loro opinioni, come pure di tutti i popoli non inciviliti, o mezzo
inciviliti. Ma noi avvezzi a considerarlo come dovere sin da fanciulli, a causa
della civilizzazione e della religione, che ci alleva in questo parere sin dalla
prima infanzia, e prima ancora dell'uso di ragione, lo consideriamo come innato.
Così quello che deriva dall'assuefazione e dall'insegnamento, ci sembra
congenito, spontaneo, ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche
legislazioni, di nessun'altra legislazione moderna, se non fra' popoli
inciviliti. Gesù Cristo diceva agli
stessi Ebrei, che dava loro un precetto nuovo ec. Lo spirito della legge
Giudaica non solo non conteneva l'amore, ma l'odio verso chiunque non era
Giudeo. Il Gentile,
1711 cioè lo straniero, era nemico
di quella nazione; essa non aveva neppure nè l'obbligo nè il consiglio di tirar
gli stranieri alla propria religione, d'illuminarli ec. ec. Il solo obbligo, era
di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur bene spesso, di non
aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum tuum sicut
te ipsum
*
, s'intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali. Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano
nella loro nazione.
[2208,1] L'egoismo del timore spingeva gli Americani (ed
altri antichi, massime ne' grandi disastri ec. o altri popoli barbari) ad
immolar vittime umane ai loro Dei, fatti veramente dal timore (primos in orbe deos fecit
timor
*
), e non per altra cagione rappresentati e
adorati da essi sotto le forme più mostruose e spaventose. Laonde il loro timore
essendo abituale, il detto effetto dell'estremo egoismo di questa passione,
doveva fra essi e tra coloro che si trovarono o si trovano in simili
circostanze, essere un costume. (1. Dic. 1821.).
[2387,1]
Ni sabian que pudiesse haver Sacrificio sin que
muriesse alguno por la salud de los demàs.
*
Parole di
Magiscatzin,
vecchio Senatore Tlascalese a Ferd. Cortès, presso D.
Antonio de Solìs, Hist. de la
Conquista de Mexico, lib. 3.
2388
capit. 3. en
Madrid 1748. p. 184. col. 1. Ecco
l'origine e la primitiva ragione de' sacrifizi, e idea della divinità. Si
stimava invidiosa e nemica degli uomini, perchè gli uomini lo erano per natura
fra loro, e per causa delle tempeste ec. le quali appunto si cercava di stornare
co' sacrifizi. Nè si credeva già primitivamente che gli Dei godessero
materialmente godessero della carne o sangue o altro che loro si sacrificava, ma
della morte e del male della vittima, e che questo placasse l'odio loro verso i
mortali, e la loro invidia. Egoismo del timore, che ho spiegato in altro luogo
pp. 2206-208. Quindi
si facevano imprecazioni ed esecrazioni sulla vittima, che non si considerava
già come cosa buona, ma come il soggetto su cui doveva scaricarsi tutto l'odio
degli dei, e come sacra solo per questo verso. Quindi quando il timore (o il
bisogno, o il desiderio ec.) era maggiore, si sacrificavano uomini, stimando
così di soddisfar maggiormente l'odio divino contro di noi. E ciò avveniva o
tra' popoli più vili e timidi (e quindi più fieramente egoisti), o più
travagliati dalle convulsioni degli elementi (com'erano i Tlascalesi ec.), o ne'
tempi più antichi,
2389 e quindi più ignoranti, e
quindi più paurosi. E nell'estrema paura, si sacrificavano non solo prigionieri,
o nemici, o delinquenti ec. come in america, ma
compatrioti, consanguinei, figli, per maggiormente saziare l'odio celeste, come
Ifigenia ec. Eccesso di egoismo
prodotto dall'eccesso del timore, o della necessità, o del desiderio di qualche
grazia ec. (6. Feb. 1822.).
[2401,2]
Estaban persuadidos
*
(los Mexicanos) à que
no huvo Dioses de essotra parte del Cielo
*
(cioè che non ci ebbe
altri Dei se non un solo che tra essi non avea nome, ma s'aveva per
superiore a tutti, e se gli attribuiva la creazione del Cielo e della Terra,
e davasegli sede in cielo), hasta que multiplicandose los hombres, empezaron sus
calamidades; considerando los Dioses como unos genios
favorables, que se producian, quando era necessaria su operacion; sin
hacerles dissonancia
*
(à los Mexicanos), que
adquiriessen el Sèr
*
(estos Dioses), y la
Divinidad en la miserias de la Naturaleza.
*
Don Antonio de Solìs, Hist. de la Conquista de
Mexico, lib. 3. capitulo 17. en Madrid,
año de 1748. p. 259. col. 1.
(21. Aprile. 1822.).
[2574,1] Non c'è virtù in un popolo senz'amor patrio, come ho
dimostrato altrove pp. 892-93. Vogliono che basti la Religione. I tempi
barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla superstizione, e la virtù dov'era?
Se per religione intendono la pratica della medesima, vengono a dire che non c'è
virtù senza virtù. Chi è religioso in pratica, è virtuoso. Se intendono la
teorica, {e} la speranza e il timore delle cose di là,
l'esperienza di tutti i tempi dimostra che questa non basta a fare un popolo
attualmente e praticamente virtuoso. L'uomo, e specialmente
2575 la moltitudine non è fisicamente capace di uno stato continuo di
riflessione. Or quello ch'è lontano, quello che non si vede, quello che dee
venir dopo la morte, dalla quale ciascuno naturalmente si figura d'esser
lontanissimo, non può fortemente {costantemente} ed
efficacemente influire sulle azioni e sulla vita, se non di chi tutto giorno
riflettesse. Appena l'uomo entra nel mondo, anzi appena egli esce del suo
interno (nel quale il più degli uomini non entra mai, e ciò per natura propria)
le cose che influiscono su di lui, sono le presenti, le sensibili, o quelle le
cui immagini sono suscitate e fomentate dalle cose in qualunque modo sensibili:
non già le cose, che oltre all'esser lontane, appartengono ad uno stato di
natura diversa dalla nostra presente, cioè al nostro stato dopo la morte, e
quindi, vivendo {noi} necessariamente fra
2576 la materia, e fra questa presente natura, appena
le sappiamo considerare come esistenti, giacchè non hanno che far punto con
niente di quello la cui esistenza sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La
conchiusione è che tolta alla virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile,
e tuttogiorno posta dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual
ragione, come ho provato, non può esser che l'amor patrio), è tolta anche la
virtù: e la ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla
natura della vita presente, e delle cose in cui la virtù si deve esercitare,
questa ragione, dico, non sarà mai sufficiente all'attuale e pratica virtù
dell'uomo, e molto meno della moltitudine, se non forse ne' primi anni, in cui
dura il fervore della nuova opinione, come nel primo secolo del Cristianesimo (corrotto già nel secondo.
2577
V. i SS. Padri.) (21. Luglio
1822.).
[3430,2] Natura insegna il curare e onorare i cadaveri di
quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per circostanze ec. e
l'onorar quelli di chi fu in vita onorato ec. {Veggasi a questo
proposito la Parte primera de la Chronica del Peru di
Pedro de Cieça de Leon. en
Anvers 1554. 8.vo piccolo. cap. 53. fine. a
car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.} Ma ella
non insegna di seppellirli nè di abbruciarli, nè di torceli in altro modo
davanti agli occhi. Anzi a questo la natura ripugna, perchè il separarci
perpetuamente da' cadaveri de' nostri è, naturalmente parlando, separazione più
dolorosa che la morte loro, la qual non facciam noi, ma questa è volontaria ed
opera nostra, e quella è quasi insensibile a chi si trova presente, e accade
bene spesso a poco a poco; questa è manifestissima e si fa in un punto. E
separarsi da' cadaveri tanto è quasi in natura quanto separarsi dalle persone di
chi essi furono, perchè degli uomini non si vede che il corpo, il quale, ancor
morto, rimane, ed è, naturalmente, tenuto per la persona stessa, benchè mutata
(piuttosto che in luogo di
3431 quella), e per tutto
ciò ch'avanza di lei. Ma d'altra parte il lasciare i cadaveri imputridire sopra
terra e nelle proprie abitazioni, volendoseli conservare dappresso e presenti, è
mortifero, e dannoso ai privati e alla repubblica. I poeti, oltre all'avere
insegnato che nella morte sopravvive una parte dell'uomo, anzi la principale e
quella che costituisce la persona, e che questa parte va in luogo a' vivi non
accessibile e a lei destinato, onde vennero a persuadere che i cadaveri de'
morti, non fossero i morti stessi, nè il solo nè il più che di loro avanzava;
oltre, dico, di questo, insegnarono che l'anime degl'insepolti erano in istato
di pena, non potendo niuno, mentre i loro corpi non fossero coperti di terra,
passare al luogo destinatogli nell'altro mondo. Così vennero a fare che il
seppellire i morti o le loro ceneri, e levarsegli dinanzi, fosse, com'era utile
e necessario ai vivi, così stimato utile e dovuto ai morti, e desiderato da
loro; che paresse opera d'amore verso i morti quello che per se sarebbe stato
segno di disamore, e opera d'egoismo; che l'amore
3432
così consigliato e persuaso imponesse quello ch'esso medesimo naturalmente
vietava; {+che venisse ad esser secondo
natura e suggerito dall'amor naturale, quello che per se aveva al tutto
dello snaturato;} e che fosse inumanità e spietatezza il trascurar
quello che senza ciò sarebbesi tenuto per inumano e spietato. Così gli antichi e
primi poeti e sapienti facevano servire l'immaginazione de' popoli, e le
invenzioni e favole proprie a' bisogni e comodi della società, conformando
quelle a questi, e si verifica il detto di Orazio nella poetica ch'essi furono gl'istitutori e i
fondatori del viver cittadinesco e sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio tenuti per fondatori di città. E così gli
antichi dirigevano la religione al ben pubblico e temporale, e secondo che
questo richiedeva la modellavano, e di questo facevano la ragione e il principio
e l'origine de' dogmi di essa: opponendola alla natura dove questa si opponeva
alle convenienze della vita sociale; e vincendo la natura fortissima,
coll'opinione ancor più forte, massime l'opinion religiosa. (15.
Settembre. 1823.). {+Chi
riguarda come legge naturale il seppellire o abbruciare ec. i cadaveri,
troverà forse in queste osservazioni di che mutar sentenza.}
[3433,1] Che il timore sia, come ho detto altrove pp.
458-59
pp.
1303-304, più naturale all'uomo della speranza, e che l'uomo inclini
più a questo che a quello[quella], veggasi che
qualora gli uomini ignorano le cagioni degli effetti o naturali o artifiziali,
ordinariamente ne temono; e tanto è quasi, per gl'ignoranti massimamente e
primitivi e selvaggi e fanciulli, effetto di cagione nascosta, quanto effetto
spaventoso. Or quando mai la speranza è così temeraria? Di più se l'ignoranza,
{+superstizione ec.} portò
anticamente
3434 o porta oggidì a pigliar
qualch'effetto nuovo o sconosciuto per presagio dell'avvenire o per segno del
presente ignoto, osservisi che generalmente questi presagi e questi segni furono
creduti sinistri. Lascio l'ecclissi le quali possono parere spaventose
naturalmente a chi ne ignora la cagione, non ne ha mai veduto ec., e da questo
primitivo spavento può {ben} esser nata l'opinione del
cattivo augurio che loro si attribuì, e che le rese spaventose per sì lungo
tempo presso tutte le nazioni, e fin anche al di d'oggi, benchè già si sapesse e
si sappia che l'oscurazione non era per durar sempre ma passeggera ec. Ma le
comete che cosa hanno di spaventevole per se, più ch'altro corpo celeste, o che
la via lattea ec.? E volendole pigliare per segni o presagi, perchè non di bene?
ma non si troverà nazione dov'elle fossero o sieno stimate annunziare altro che
male. Quelli che gli antichi chiamavano mostri, cioè cose straordinarie, benchè
nulla terribili per se stesse e materialmente tutte erano stimate cattivi
augurii. Così nelle vittime il mancare del cuore, s'è pur vero che ciò accadesse
talvolta, come gli antichi narrano,
3435 o che paresse
così per errore di chi inspiciebat le viscere ec.
Tutti segni che l'uomo è più facile e proclive a temere che a sperare; e che
questo è di rado così irragionevole e precipitoso come quello; o certo ben più
di rado ec. Massimamente in natura, ne' fanciulli, negl'ignoranti e negli uomini
naturali. (15 Sett. 1823.).
[3638,3]
Primos in orbe deos fecit timor.
*
Intorno a ciò
altrove p. 2208
pp. 2387-89. Or si aggiunga, che siccome quanto è maggior l'ignoranza
tanto è maggiore il timore, e quanta più la barbarie tanta {è} più l'ignoranza, però si vede che le idee de' più barbari e
selvaggi popoli circa la divinità, se non forse in alcuni climi tutti piacevoli,
sono per lo più spaventose ed odiose, come di esseri tanto di noi invidiosi e
vaghi del nostro male quanto più forti di noi. Onde le immagini ed idoli che
costoro si fabbricano de' loro Dei, sono mostruosi e di forme terribili, non
solo per lo poco artifizio di chi fabbricolle, ma eziandio perchè tale si fu la
intenzione e la idea dell'artefice. E vedesi questo medesimo anche in molte
nazioni che benchè lungi da civiltà pur non sono senza cognizione ed
3639 uso sufficiente di arte in tali ed altre opere di
mano ec. come fu quella de' Messicani, {#1.
i cui idoli più venerati eran pure bruttissimi e terribilissimi d'aspetto
{come} d'opinione. Molte nazioni selvagge, o
ne' lor principii, riconobbero per deità questi o quelli animali più forti
dell'uomo, e forse tanto più quanto maggiori danni ne riceveano, e maggior
timore ne aveano, e minori mezzi di liberarsene, combatterli, vincerli ec.
La forza superiore all'umana è il primo attributo riconosciuto dagli uomini
nella divinità. V. p.
3878.} E certo egli è segno di civiltà molto cresciuta e bene
istradata il ritrovare in una nazione e la idea e le immagini o simboli o
significazioni della divinità, piacevoli o non terribili. Come fu in
Grecia, sebben molto a ciò dovette contribuire la
piacevolezza e moderatezza di quel clima, che nulla o quasi nulla offre mai di
terribile. Perocchè le forze della natura vedute negli elementi ec.,
riconosciute per superiori di gran lunga a quelle degli uomini, e, a causa
dell'ignoranza, credute esser proprie di qualche cosa animata e capace, come
l'uomo, di volontà, poichè è capace di movimento, di muovere ec.; sono state le
cose che hanno suscitata l'idea della divinità (perchè gli uomini amano e son
soliti di spiegar con un mistero un altro mistero, e d'immaginar cause
indefinibili degli effetti che non intendono, e di rassomigliare l'ignoto al
noto; come le cause ignote de' movimenti naturali, alla volontà ed all'altre
forze note che producono i movimenti animali ec.), ond'è ben naturale che tale
3640 idea corrispondesse alla natura di tali
effetti, e fosse terribile se terribili, moderata se moderati, piacevole se
piacevoli ec. e più e meno secondo i gradi ec. Se non che nell'idea primitiva
dovette sempre prevalere o aver gran parte il {terribile,} perchè essendo l'uomo naturalmente inclinato più al
timore che alla speranza, {#1. come altrove
in più luoghi pp. 458-59
pp. 1303-304
pp. 2206-208
pp. 3433-35} una forza superiore
affatto all'umana, dovette agl'ignoranti naturalmente aver sempre del
formidabile. Oltre che in ogni paese v'ha tempeste, benchè più o meno terribili
ec. E tra le varie divinità di una nazione che ne riconosca più d'una, di una
mitologia ec., le più antiche son certamente le più formidabili e cattive, e le
più amabili e benefiche ec. son certamente le più moderne. {Le nazioni più civilizzate adoravano gli animali utili,
domestici, mansueti ec. come gli egizi il bue, il cane, o loro immagini. Le
più rozze, gli animali più feroci, o loro sembianze (v. la parte 1. della Cron. del
Peru di Cieça,
cap. 55. fine. car. 152. p. 2.). Quelle p. e. il sole o solo o principalmente, queste, o sola o principalmente la tempesta ovvero ec. ec.
{+E a proporzione della rozzezza
o civiltà, gli Dei ec. malefici e benefici erano stimati più o men
principali e potenti, ed acquistavano o perdevano nell'opinione e
religion del popolo, e nelle mitologie, e riti ec.}
V. p. 3833.} Come della
mitologia greca e latina ec. senza dubbio si dee dire. Infatti anche
indipendentemente da questa osservazione, s'hanno argomenti di fatto per
asserire che {p. e.}
Saturno, Dio
crudele e malefico, {#2. e rappresentato
per vecchio, brutto, e d'aspetto come d'indole e di opere, odioso,} fu
l'uno de' più antichi Dei della Grecia o della nazione
onde venne la greca e latina mitologia, e più antico di Giove ec. Effettivamente la
detta mitologia favoleggia che Saturno regnò prima di Giove,
3641 e da costui fu privato del regno. La qual favola o volle
espressamente significare la mutazione delle idee de' greci ec. circa la
divinità, e il loro passaggio dallo spaventoso all'amabile ec. cagionato dal
progresso della civiltà, e decremento dell'ignoranza; o (più verisimilmente)
ebbe origine e occasione da questo passaggio, di essere inventata
naturalmente.
[3894,2]
Alla p. 3883.
La superstizione sia speculativa sia pratica è figlia della società, ed
inseparabile da essa società quanto si voglia civile come dimostrano tutte le
istorie. Anzi par ch'ella, a differenza di tanti altri incomodi e barbarie della
società primitiva, cresca a proporzione della civiltà; e certo si son trovati e
trovano alcuni popoli selvaggi senza superstizione alcuna, almeno efficace e che
influisca sulla vita in niun modo, e che sia causa di veruna infelicità
esteriore nè interiore; ma niun popolo civile si trovò mai nè si trova nè
troverassi in cui la superstizione più o manco, e in uno o altro modo, non
regni, per civilissimo ch'ei si fosse, o si sia, o che sia p. essere. {Puoi vedere le Lettere di Federico II. e d'Alembert, Lett. 49. p. 125. seg.
paragonandola colla lett. 45. p. 117. e lett. 47. p. 120 fine- 121. e lett.
53. p. 135. fin. e lett. 70. p. 185. fine.} Or di quanti {+e quanto gran} mali sia stata e sia
causa la superstizione per sua natura sì a' popoli sì agl'individui, sì verso
gli altri sì verso se stessi, travagliandoli sì esternamente sì internamente,
per rispetto ai costumi, agl'istituti, alle azioni, alle opinioni ec.; quanti
beni e quanto grandi abbia impedito e impedisca per sua natura ec. non accade
dilungarsi a mostrarlo, {anzi neppure a} ricordarlo,
{essendo già e provato e notissimo.}
(19. Nov. 1823.). {+Certo la
superstizione non ha luogo negli animali anche i più socievoli. Dunque
l'uomo per natura è men sociale che alcun'altra specie ec. V. la p. 3896.}
[4001,1] A proposito delle divinità benefiche, che altrove ho
detto pp. 3638-45 essere
ed essere state venerate, inventate ec. dalle nazioni civili, e più quanto più
civili, si aggiunga che non solo benefiche, ma graziose, amabili ec. ancorchè
non benefiche, o indifferenti ec. come tante divinità, allegorici personaggi,
personificazioni di qualità o soggetti ec. naturali, umani ec. nella mitologia
greca ec. ec. (24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.).
[4126,6] Circa l'origine, se non della religione (cioè
dell'opinione della divinità), almeno del culto, dal timore v. nell'Abrégé de
l'origine de tous les cultes, par Dupuis. Parigi
1821. chap. 4. p. 86-93. come quasi tutti i popoli avendo ammesso due
principii, due generi di divinità, le une buone {{e
benefiche}}, le altre cattive {e malefiche,} i
più selvaggi riducevano o riducono del tutto o principalmente il loro culto alle
seconde, ed alcuni anche le stimavano più potenti delle prime, laddove i più
civilizzati, (come i Greci nella favola dei Giganti) hanno
supposto il principio cattivo vinto e sottomesso dal buono. (19. Marzo.
1825. Festa di S. Giuseppe.)
[4206,4] È chiaro e noto che l'idea e la voce spirito non si può in somma e in conclusione definire
altrimenti che sostanza che non è materia, giacchè
niuna sua qualità positiva possiamo noi nè conoscere, nè nominare,
4207 nè anco pure immaginare pp. 1635-36
p.
4111. Ora il nome e l'idea di materia, idea e nome anch'essa astratta,
cioè ch'esprime collettivamente un'infinità di oggetti, tra se differentissimi
in verità (e noi poi non sappiamo se la materia sia omogenea, {+e quindi una sola sostanza
identica,} o {vero} distinta in elementi,
{+e quindi in altrettante
sostanze,} di natura ed essenza differentissimi, com'ella è distinta
in diversissime forme), l'idea dico ed il nome di materia abbraccia tutto quello
che cade o può cader sotto i nostri sensi, tutto quello che noi conosciamo, e
che noi possiamo conoscere e concepire; ed essa idea ed esso nome non si può
veramente definire che in questo modo, o almeno questa è la definizione che più
gli conviene, in vece dell'altra dedotta dall'enumerazione di certe sue qualità
comuni, come divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili. Per tanto
il definire lo spirito, sostanza che non è
materia, è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di quelle che noi conosciamo o possiamo
conoscere o concepire, e questo è quel solo che noi venghiamo a dire e
a pensare ogni volta che diciamo spirito, o che
pensiamo a questa idea, la quale non si può, come ho detto, definire altrimenti.
Frattanto questo spirito, non essendo altro che quello che abbiam veduto, è
stato per lunghissimo spazio di secoli creduto contenere in se tutta la realtà
delle cose; e la materia, cioè quanto noi conosciamo e concepiamo, e quanto
possiamo conoscere e concepire, è stata creduta non essere altro che apparenza,
sogno, vanità appetto allo spirito. È impossibile non deplorar la miseria
dell'intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo poi che
questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo 19.° risorge da
tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche più
spirituale, per dir così, che in addietro; che i filosofi più illuminati della
più illuminata nazione moderna, si congratulano di riconoscere per
caratteristica di questo secolo, l'essere esso éminemment
4208
religieux,
*
cioè spiritualista; che può fare un
savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita
dalla terra per sempre, nel momento che gli uomini incominciarono a
cercarti
*
. Giacchè è manifesto che questa e simili
innumerabili follie, dalle quali pare ormai impossibile e disperato il guarire
gl'intelletti umani, sono puri parti, non mica dell'ignoranza, ma della scienza.
L'idea chimerica dello spirito non è nel capo nè di un bambino nè di un puro
selvaggio. Questi non sono spiritualisti, perchè sono pienamente ignoranti. E i
bambini, e i selvaggi puri, e i pienamente ignoranti sono per conseguenza a
mille doppi più savi de' più dotti uomini di questo secolo de' lumi; come gli
antichi erano più savi a cento doppi per lo meno, perchè più ignoranti de'
moderni; e tanto più savi quanto più antichi, perchè tanto più ignoranti.
(Bologna. 26. Sett. 1826.). {{V. p.
4219.}}
[4229,4] È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a
tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco
gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e
discernimento, {una perspicacia, una esperienza}
superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo
duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o
trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra
ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si
consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e}
opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che
egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera
lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli,
massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per
determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio
proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il
giudizio che
4230 egli portava della cosa; nè più nè
meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o
veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente
riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla
sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho
sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio
di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche
esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti,
nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal
volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia
guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a
lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di
coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la
dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o
dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto
universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene,
la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e
intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e
nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9.
Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826.
Recanati.). La credenza di un ente senza
misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo
tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior
sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con
ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna
scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno;
questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici,
un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro
procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una
confidenza
4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel
provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).
[4238,4] Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime
e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli)
non cercavano l'oscuro per
4239 tutto, eziandio nel
chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi
secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano
spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non
sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e
manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano
misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della
natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla
intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove,
altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere
delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi
in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic.
1826.).
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