7. Dic. 1820.
[376,1]
L'Essai sur
l'indifférence en matière de religion, prima o seconda pagina
del Capo 9. Ed è rimarcabile che tutti gli uomini... uniscono
costantemente all'idea della felicità, l'idea del riposo, che non è
altro fuorchè quella pace profonda, inalterabile, di cui gode
necessariamente un essere pervenuto alla sua perfezione, e che S. Agostino chiama per
eccellenza, la tranquillità dell'ordine... In una parola non si
trova felicità fuorchè nel seno dell'ordine; e l'ordine è la
sorgente del bene, come il disordine è la sorgente del male, tanto
nel mondo morale, quanto nel mondo fisico; tanto pei popoli, quanto
per gl'Individui.
*
L'amore dell'ordine, o l'idea
della necessità dell'ordine, che è quanto dire dell'armonia e convenienza, è
innata, assoluta, universale, giacchè è il fondamento del raziocinio, e il
principio della cognizione o del giudizio falso o vero. Ma l'idea di un tal
ordine, è variabile, dipendente dall'abitudine, opinione, ec. è relativa, e
particolare. Il desiderio del riposo, non è in quanto riposo, o quiete, ma {1.} in quanto convenienza, armonia ec. colle qualità e
la natura della specie o dell'individuo. 2. in quanto stabilità, o capacità di
durare. L'uomo e nessun altro essere, non può trovar bene se non se in
377 uno stato che armonizzi colle sue qualità e natura.
Senza questo stato, egli è in una condizione di contrasto, di sconvenienza, e
perciò travaglioso, non per l'assenza della quiete assolutamente, ma
dell'armonia relativa. Se alla sua natura convenisse la guerra, il moto
perpetuo, l'azione continua, egli sarebbe in istato di pena, e violento, quando
fosse costretto al riposo propriamente detto, e non riposerebbe, vale a dire,
non troverebbe felicità, se non che nella guerra o fatica. Il riposo {e la pace} per lui sarebbe disordine, e la fatica {e la guerra} ordine. Sicchè il riposo che noi
desideriamo, non è riposo o quiete assolutamente, ma armonia colla nostra natura
tanto specifica, quanto individuale. Così diremo della stabilità, perchè quello
che contrasta colla nostra natura, se anche ha l'atto della durata, non ha la
potenza o il diritto, cosicchè l'uomo non ci può trovar quiete. Al contrario nel
caso opposto. Ma questa quiete non è quiete assoluta, quasi che la quiete fosse
essenzialmente e primordialmente buona; bensì è quiete relativa, o vogliamo dire
armonia. Non bisogna dunque usare le proposizioni astratte nelle cose relative,
nè pretendere di aver dimostrato che noi amiamo naturalmente un tal ordine,
perciò che amiamo l'ordine. Amiamo l'ordine, l'amano tutti gli esseri; ma qual
ordine? Odiamo il disordine, ma qual è questo disordine? Ciò bisogna
378 cercare, qui di nuovo i filosofi si dividono, e dal
principio antecedente, incontrastabile e confessato, invano si presume di
ricavar nulla di definito e concreto, circa la questione, dello stato e
perfezione destinata particolarmente all'uomo, e desiderata da lui ardentemente.
Io dico dunque: lo stato di perfezione, quello stato di ordine, fuori del quale
non c'è riposo, fuor del quale non c'è la tranquillità dell'ordine, nè la
felicità, è per l'uomo, come per tutte le altre cose esistenti, quello stato in
cui la natura l'ha posto di sua propria mano, e non quello in cui egli o si sia
posto, o si debba porre da se.
[378,1] Il Capo 9. dell'Essai ec. qui sopra citato è il più forte profondo e concludente
forse di tutta l'opera, perchè le prove della Religione non sono dedotte dalla
considerazione dell'uomo qual egli è, dalle opinioni ec. ma dalla natura
dell'uomo. Farai bene a rileggerlo. Ma ecco il suo raziocinio. La felicità non
si trova se non nella perfezione di cui l'essere è capace. Un essere non è
perfetto se le sue facoltà non sono perfettamente d'accordo fra loro,
perfettamente sviluppate secondo la loro natura, e se non godono ciascuna del
suo proprio oggetto secondo tutta l'estensione della sua capacità. Non è
perfetto s'egli non è in conformità colle leggi che risultano dalla sua natura.
Ma per conformarcisi
379 bisogna conoscerle. Dunque
l'uomo non sarà felice se non quando conosca se stesso, e i rapporti necessari
che ha con altri esseri. E deve poterli conoscere, altrimenti sarebbe un essere contraddittorio,
perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non avrebbe
alcun mezzo di pervenirvi.
*
L'uomo dunque
inclinando alla perfezione o felicità, inclina sommamente alla cognizione del
vero. Dalla cognizione deriva l'amore o l'odio, ossia il giudizio relativo alla
qualità buona o cattiva. Dall'amore o l'odio deriva l'azione, perchè l'uomo non
si può determinare se non a quello che crede bene. L'ignoranza assoluta è uno
stato di morte, perchè, supponendo che l'uomo non abbia un motivo per creder le
cose buone o cattive, la sua indifferenza è totale, e non potendo amare nè
odiare, non può scegliere, dunque non può agire, dunque non può vivere. Sicchè
conoscere, amare, operare; ecco tutto l'uomo. L'oggetto della facoltà di
conoscere, è la verità. L'estensione di questa facoltà si misura dal desiderio.
L'uomo sente un desiderio infinito di conoscere e {così} di amare. Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l'intelligenza è
capace di conoscere la verità infinita; la sua facoltà di amare, è capace di
amare il Bene infinito. Laddove la sua facoltà di agire essendo limitata, egli
non sente un desiderio infinito di agire, come essere fisico. Dunque la felicità
dell'uomo
380 consiste nella perfezione della
conoscenza; dell'amore, o sia disposizione dell'anima verso gli oggetti; e
dell'azione che deriva da questi due principii. Dunque consiste nel vero:
perchè: 1. l'ignoranza assoluta è lo stesso che mancanza intera di cognizione,
amore, e azione. 2. l'errore ingannandolo sui suoi rapporti, e sull'accordo e
sviluppo delle sue facoltà, contraddice alla perfezione, ossia distrugge
l'armonia dell'uomo e delle sue facoltà colle leggi che risultano dalla sua
natura, e quindi distrugge la sua felicità. Ecco l'argomentazione. Ecco le
risposte.
[380,1] Primieramente quanto alla verità, che cosa si debba
intendere per verità, rispetto alla felicità dell'uomo, e per conseguenza qual
sia il fine e lo scopo e l'oggetto vero
della sua facoltà di conoscere, vedilo chiaramente esposto p. 326. di questi pensieri, capoverso 1. Quello solo
basterebbe a rispondere a tutto questo raziocinio.
[380,2] Secondariamente, qual sia l'ordine, la perfezione
l'accordo delle facoltà dell'uomo, la sua corrispondenza co' suoi rapporti, e
colle leggi che risultano dalla sua natura,
vedilo p. 376-378. donde rileverai che
questo principio astratto, benchè vero, e confessato, non ha forza di provar
nulla nella questione delle vere leggi, dei veri rapporti, e della vera natura
particolare dell'uomo.
[380,3] Veniamo al desiderio di conoscere. Certamente bisogna
che l'uomo conosca, cioè si possa determinare, perch'egli è libero. Così accade
anche al bruto.
381 Bisogna che conosca bene per
determinarsi bene. Dunque bisogna che conosca il vero, e
l'errore toglie la sua felicità. Falsa conseguenza. Bisogna che conosca
quello che fa per lui. La verità assoluta, e per così dire il tipo della verità,
è indifferente per l'uomo. La sua felicità può consistere nella cognizione e
giudizio vero o falso. Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla sua
natura.
[381,1] La facoltà di formare questo giudizio non manca
all'uomo ignorante, perchè tutto quello ch'egli deve sapere gli è insegnato
dalla natura. Bisogna esser bene stupido per ammetter l'ipotesi di un'ignoranza
che lasci l'uomo nell'intera indifferenza, come quell'asino delle scuole, posto
tra due cibi distanti e moventi d'un
modo,
*
il quale si morria di fame.
*
L'ignorante
ignora il vero, ma non i motivi di determinarsi. Anzi l'ignorante naturale, come
il fanciullo, si determina molto più presto, facilmente e vivamente, {risolutamente e certamente} dell'uomo istruito o saggio.
Di più le stesse cose per natura loro indifferenti all'uomo, per poco che abbia
perduto della natura, quelle cose che non possono essere oggetti di azione, come
piante, sassi, e che so io, non sono indifferenti all'uomo primitivo nè al
fanciullo, il quale da piccolissime minuzie, cava argomento di amarle o di
odiarle, e trova notabili {benchè immaginarie}
differenze, nelle cose più
382 indifferenti, ed esagera e ingrandisce le piccole
differenze reali: sicchè non gli manca ma motivo di determinazione. Anzi la
ragione e la scienza è indifferentissima, e la natura e l'ignoranza è tutto
l'opposto dell'indifferenza. (V. il mio
discorso sui romantici, e la p. 69. di questi pensieri, capoverso 3.)
Perchè l'immaginazione e l'errore dà molto più peso alle minuzie, che la
ragione, e non ammette nè dubbi, nè freddezze nella stessa certezza, come la
ragione che conosce la poca importanza di tutto, e perciò la poca differenza
dell'utilità o bontà rispettiva. Oltracciò la ragione e la scienza, tende
evidentemente ad agguagliare il mondo sotto ogni rispetto, ed estinguere o
scemare la varietà, perchè non c'è cosa più uniforme della ragione, nè più varia
della natura; e così la scienza promuove sommamente l'indifferenza, perchè
toglie o scema anche le differenze reali, e quindi i motivi di
determinazione.
[382,1] E quanto al dubbio, cagione principalissima
d'indifferenza, lo stesso libro ch'io
discuto reca un passo di Pascal,
dove fra le altre cose (degne d'esser lette) si dice: conviene che ciascuno prenda il suo partito, e si
collochi necessariamente o al dogmatismo, o al pirronismo... Sostengo
che non ha mai esistito un pirronista effettivo e perfetto. La natura sostiene la ragione impotente, e l'impedisce di delirare fino a questo
punto...
383
La natura confonde i pirronisti, e la ragione
confonde i dogmatizzanti
*
(vale a dire quelli che
ammettono e sostengono delle opinioni come certe). (Pensées de Pascal, Ch. 21.) Infatti il dubbio non ha quasi esistito se
non dopo la ragione e la scienza, e non c'è cosa così sicura in quello che crede
come l'ignoranza; e l'uomo naturale, tutto quello che sa o crede sapere (e ciò
per dettato della natura), lo tiene per certissimo e non ci prova ombra di
dubbio. Tanto è vero che l'ignoranza conduce alla totale indifferenza, e quindi
all'inazione e alla morte: o piuttosto tanto è vero che si dia un'ignoranza
assoluta, ossia uno stato dell'anima privo affatto di credenza, e di giudizi:
tanto è stolto il confondere la mancanza della verità, colla mancanza dei
giudizi, quasi non si dassero giudizi se non veri, o quasi dal detto principio
risultasse la necessità di un giudizio vero assolutamente, e non piuttosto di un
giudizio veramente utile e adattato
alla natura dell'uomo.
[383,1] Quanto al desiderio che ha l'uomo di conoscere,
desiderio che si pretende infinito, come quello di amare, e a differenza di
quello di operare.
[383,2] 1o. Non è vero ch'egli sia infinito per se, ma solo
materialmente, e come desiderio del piacere, ch'è tutt'uno coll'amor proprio. E
non è vero che l'uomo
384 naturale sia tormentato da un
desiderio infinito precisamente di conoscere. Neanche l'uomo corrotto e moderno
si trova in questo caso. Egli è tormentato da un desiderio infinito del piacere.
Il piacere non consiste se non che nelle sensazioni, perchè quando non si sente,
non si prova nè piacere nè dispiacere. Le sensazioni non le prova il corpo, ma
l'anima, qualunque cosa s'intenda per anima. La sensazione dell'intelligenza, è
il concepire. Dunque l'oggetto della facoltà intellettiva, è il concepire. (non
il vero, come dirò poi.) L'uomo desidera un piacere infinito in tutte le cose,
ma non può provare una certa infinità, se non se nella concezione, perchè tutto
il materiale è limitato. {V. la pag. 388. di questi pensieri,
fine.} L'uomo dunque prova piacere nella maggior estensione
possibile della concezione, ossia dell'atto della facoltà intellettiva. V.
questi pensieri p. 170. fine, e p. 178. fine - 179. principio. Questo
è indipendente dal vero. L'uomo non desidera di conoscere, ma di sentire
infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in
qualche modo, ma principalmente coll'immaginazione, non colla scienza o
cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude l'infinito.
E da queste cose si potrà dedurre che anche la curiosità, o desiderio di
conoscere, o piuttosto di concepire,
385 derivi non da una determinazione arbitraria della
natura, a fare che il conoscere o concepire sia piacere, ma da questo stesso,
che l'uomo desidera illimitatamente il piacere, contro quello che ho inclinato a
credere nella teoria del piacere. Del
resto questo desiderio infinito di concepire, dev'essere essenzialmente comune
anche ai bruti.
V. p. 180. fine.
[385,1] 2o. E tanto è miser
l'uom quant'ei si reputa,
*
e tanto è beato
quant'ei si reputa. Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o
concepire, dalla credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la
verità assoluta è totalmente indifferente all'uomo anche per questo capo. Anzi
il desiderio infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso
appagato dalla natura col mezzo della immaginazione {e delle
persuasioni false ossiano errori;} ma non mai dalla ragione col mezzo
della scienza, nè dai sensi col mezzo degli oggetti reali. Che se l'uomo avesse
questa tendenza infinita non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al
vero, perchè la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione
necessaria alla sua felicità? {Perchè avrebbe radicate nella
sua mente tanto[tante] illusioni che appena
il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare, e non del
tutto?} Perchè la verità sarebbe così difficile a scoprire? Da che
l'uomo tende infinitamente alla precisa cognizione, nessuna verità è
indifferente per lui.
386 Non solo la cognizione delle
verità religiose, morali ec. ma di qualunque verità fisica ec. ec. diviene
necessaria alla sua felicità. Ora quando anche si voglia supporre che l'uomo
primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le verità religiose e morali,
(come par che supponga il nostro
libro) è certo che non gli ebbe per infinite altre, è certo che infinite
se ne ignorano ancora, che infinite se ne ignoreranno sempre, che la massima
parte degli uomini è (tolto nella religione rivelata) ignorante quanto i
primitivi, che i fanciulli lo sono parimente, {anche quanto
alla religione.} È certo che quantunque l'uomo conosca Dio ch'è
infinito, non lo conosce nè lo può conoscere infinitamente (come neanche amare,
quantunque l'autore presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita, essendo
infinito il desiderio); anzi limitatissimamente. Dunque la sua cognizione non è
infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere è infinita, manca del suo
oggetto, e perciò della sua felicità. Dunque l'uomo non può esser felice: dunque
ripeterò coll'autore, egli è un essere
contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la
felicità, non ha alcun mezzo di pervenirvi
*
. E le
illusioni che la natura ha poste saldissimamente in tutti noi, perchè ce le ha poste? Per contendergli
espressamente la sua felicità? E se l'ignoranza è infelicità, perchè l'uomo esce
dalle mani della natura, così strettamente infelice? In
387 somma le assurdità sono infinite quando non si vuol riconoscere
che l'uomo esce perfetto dalle mani della natura, come tutte le altre cose; che
la verità assoluta è indifferente all'uomo (quanto al bene, ma non sempre, anzi
di rado, quanto al nuocergli); che lo scopo della sua facoltà intellettiva, non
è la cognizione, in quanto cognizione derivata dalla realtà, ma la concezione, o
l'opinione di conoscere, sia vera, sia falsa. Che vuol dire che gl'ignoranti in
luogo di esser più infelici, sono evidentemente i più felici?
[387,1]
Posti questi principii,
*
dice l'autore,
(cioè i sovresposti p.
378-380.) consideriamo la filosofia e la Religione ne' loro
rapporti colla felicità.
*
E segue mostrando che la
filosofia non rivela nè prescrive nulla fuorchè il dubbio, tanto ne' principii o
nelle verità, quanto ne' doveri: e la Religione tutto l'opposto. Siamo
d'accordo, ma la natura? l'avete dimenticata? Non c'è altra maestra che la
filosofia o la religione? tutte due ascitizie e non inerenti alla natura
dell'uomo. Laddove tutti gli altri esseri viventi, che hanno lo stesso desiderio
infinito della felicità, ne hanno la maestra, gl'insegnamenti, e i mezzi in se
stessi. La natura non insegna nulla? non prescrive nulla? Concedo la vostra
definizione della felicità, ammetto le facoltà dell'uomo che voi ammettere, dico
che debbono esser d'accordo
388 fra loro, d'accordo
colle leggi che risultano dalla loro natura, perfettamente sviluppate secondo la
loro natura, godere del loro oggetto secondo la loro natura. I principii son
veri, l'applicazione è falsa. Voi continuate a stare sull'assoluto invece di
passare al relativo. Cioè, la natura dell'uomo non è quella che voi dite. Del
resto so anch'io che la filosofia è più contraria alla natura che la religione,
ma non ne segue che non ci siano altri insegnamenti se non della Religione o
della filosofia, che non ci siano altre cognizioni, altri amori, altre azioni,
cioè quelli che la natura ci ha ispirati e dettati; nè molto meno che questi non
sieno analoghi alle nostre facoltà, ed alle leggi della nostra natura; nè che
l'uomo naturale sia infelice ec. ec. ec. e che le leggi della nostra natura non
sieno quelle della nostra natura. Convien conoscerle, dic'egli, per
conformarcisi. E io dico che l'uomo le conosce dal suo nascere, e dovea
necessariamente conoscerle per non essere un ente contraddittorio, e bisognoso
per esser felice, di cose che non possiede essenzialmente e primordialmente, al
contrario di tutti gli altri enti. (7. Dic. 1820).