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Fanciullezza. Immaginazione dei fanciulli ec.

Childhood. Children's imagination, etc.

211,3 212,2 481,1 499,1 514,1 527,1 528,1 624,1 636,2 667,1 668,1 1464,1 1554,2 1555,1 1628,2 1653,1 1688,1 1735 1987,1 2430 2432-3 2645,2 2684,1 2965,1 3291,1 3770,1 4226,4 4229,4

[211,3]  A proposito di quello che ho detto p. 152. pens. ult. notate che l'immaginazione dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma l'una, cioè la fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi in un'idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di qualsivoglia occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo studio {non solo pel poco intelletto, ma} perchè son pieni di distrazioni.  212 Giacchè la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per attaccarsi a un altro. Eccetto alcuni fanciulli d'immaginazione destinata a grandi cose, e a fargli infelici quando saranno maturi, la profondità della quale li fissa fortemente in questa o in quella idea, ordinariamente paurosa o dolorosa, e li tormenta nella stessa fanciullezza, com'è accaduto a me. Ed è notabile come questa profondità della immaginazione li renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del quale non trovano pace, spaventandosi dello straordinario, e contando per disgrazia insopportabile l'aver tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es. di Pietrino, e mio. Del resto l'effetto della immaginazione dei fanciulli qual sia, v. p. 172. fine.

[212,2]  La soprabbondanza della immaginazione è quella che tormenta i fanciulli detti qui sopra, e perciò in luogo di cercarla nello straordinario, cercano di spegnerla o addormentarla col metodo. Cosa che accade anche agli uomini. V. il carattere di Lord Nelvil nella Corinna. (16. Agosto 1820.).

[481,1]  Quanta sia la forza d'immaginazione nei fanciulli, e com'ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa. Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi. Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone relativamente  482 a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un'altra persona diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un'idea conforme al detto tipo. E il nome può essere elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell'altra bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da quel tipo e da quell'idea ec. Così viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e proporzionatamente alla forza dell'impressione ricevuta da fanciulli, e dell'immagine concepita. Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che {il nome di} Teresa possa appartenere  483 ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E ordinariamente l'idea che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età. Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce il nome col suono materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con altre idee. E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell'idea concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci  484 formiamo una tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di quella persona. Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene per lo più falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall'indifferenza), secondo questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome. (10. Gen. 1821.).

[499,1]  La fecondità e istabilità e velocità della immaginazione e concezione (vera o falsa, che  500 ciò non monta) ne' fanciulli, apparisce ancora da una osservazione che ho fatta in quelli che trovandosi in età di mezzana fanciullezza (6. 7. 8. anni, o cosa simile), e sapendo già {tanto e più di lingua da potere} infilare un discorso, nondimeno sebbene sieno loquaci, anzi quanto più sono loquaci, {(il che è segno di fecondità)} tanto più esitano e stentano, nel fare un discorso continuato, un racconto ec. Ho dunque notato che ciò non deriva principalmente dalla difficoltà di trovare o combinar le parole (anzi come ho detto, i più loquaci sono più soggetti a questo: i meno loquaci riescono molto meglio in un discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla moltiplicità delle idee che si affollano loro in mente. Onde non sanno scegliere, si confondono, saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e improvvisamente soggetto; i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo incominciato colla testa dell'uomo, finiscono colla coda del pesce. Quanta dunque non dev'essere l'attività interna, la moltiplicità delle occupazioni ancorchè disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e alleggerire o spegnere  501 i pensieri o le sensazioni dolorose, la varietà, e nel tempo stesso la vivacità delle immagini e concezioni (giacchè ciascuna è capace di strapparli intieramente da quella che presentemente gli occupa); in somma la vita {dell'animo,} e per conseguenza la felicità de' fanciulli anche i meno felici rispetto alle circostanze esteriori!

[514,1]  Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. {un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno,} ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, {ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione)} di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere {di quella sensazione} si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo  515 qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo,  516 quei luoghi, {spettacoli, incontri,} ec. nel ripensare ai[a] quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.

[527,1]  I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.

[528,1]  Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,  529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.

[624,1]  Come appunto i fanciulli, giacchè anche questo effetto deriva dalle stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò obbligati dalle circostanze, all'inazione esterna, la suppliscono e compensano ed occupano intieramente, con una vivissima azione interna. E per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei detti popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita all'anima: e per conseguenza non deriva,  625 non si fonda, non è sufficiente all'uomo, se non in forza dell'energia, dell'immaginazione, delle facoltà insomma e della vita interna.

[636,2]  Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher. * Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 145. alla metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico nostro avere. {L'esperienza e la verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.} Non si vive se non perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo {e sventuratissimo,} ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite {così dette} reali, che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e  637 dello spirito umano, e della società. (10. Feb. 1821.).

[667,1]  Quello che ho detto in altro pensiero pp. 481-84 intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea di tutti i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo. Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi. P. e. avendo io {di} due anni veduto un colonnello, l'idea  668 ch'io mi formo naturalmente della persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec. Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell'altra azione ec. derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza; e come i caratteri ec. e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori conoscitori dell'uomo. (16. Feb. 1821.). {{V. p. 675. principio.}}

[668,1]  Quella maravigliosa facilità che hanno  669 i fanciulli di passare immediatamente dal più profondo dolore alla gioia, dal pianto al riso ec. e viceversa, e ciò per minime cagioni; questa somma volubilità e versatilità d'indole e d'immaginazione, non dev'ella esser causa di una molto maggiore felicità, o molto minore miseria che nelle altre età? (16. Feb. 1821.).

[1464,1]   1464 Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove pp. 1341-42 che il primo principio delle cose è il nulla. (7. Agos. 1821.).

[1554,2]  In questo presente stato di cose, non abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali, ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita  1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità. V. la mia teoria del piacere, applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).

[1555,1]  Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione, che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno vigore ec. ec.  1556 Quella è l'epoca della perfezione e quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).

[1628,2]  Forza dell'assuefazione generale. Le impressioni de' sensi sono sempre vivissime ne' fanciulli. L'uomo ci si avvezza, ed elle perdono in forza e durata. Ma non si avvezza solamente ad una per una. Un'impressione tanto nuova per un uomo quanto la più nuova che possa provare un fanciullo, fa meno effetto in quello che in questo: perchè quegli è avvezzo alle  1629 impressioni. Quanto più l'uomo (in proporzione delle circostanze individuali) è avvezzo alle novità, tanto l'impressione delle novità è per lui meno forte e durevole: e finalmente gli farà maggiore impressione la monotonia ec. che la novità. E pur nessuno può essere avvezzo a una nuova impressione in particolare; ma l'uomo si avvezza alle nuove impressioni in generale. ec. ec. (4. Sett. 1821.).

[1653,1]   1653 Il fanciullo non può contenere i suoi desideri, o difficilmente, secondo ch'egli è più o meno assuefatto a soddisfarli. L'uomo difficilmente concepisce un desiderio così vivo come il menomo de' fanciulli, e di tutti facilmente è padrone, benchè {+certo non abbia cambiato natura, e} la vita umana si componga tutta di desiderii, e l'uomo (o l'animale) non possa vivere senza desiderare, perchè non può vivere senz'amarsi, e questo amore essendo infinito, non può esser mai pago. Tutto dunque è assuefazione nell'uomo. Questa osservazione si può estendere a tutte le passioni e a tutte le parti esteriori ed interiori dell'uomo, e della sua vita. (8. Sett. 1821.).

[1688,1]  Le immaginazioni calde (come son quelle de' fanciulli più o meno) in forza della somma tendenza dell'animale a' suoi simili, trovano da per tutto delle forme simili alle umane. Ma notate che sebbene si troverebbe facilmente maggiore analogia fra le altre parti dell'uomo e i diversi oggetti materiali, che fra questi e la fisonomia umana, nondimeno l'immaginazione trova sempre in essi oggetti, maggiore analogia col volto dell'uomo che colle altre parti, anzi a queste neppur pensa. V. il mio discorso sui romantici. Tanto è vero che la principal parte dell'uomo riguardo all'uomo è il volto. (13. Sett. 1821.).

[1733,3]  Ma vi sono due specie di attenzioni. Una volontaria, ed una involontaria; o piuttosto una spirituale, un'altra materiale.  1734 Della prima non si diventa capaci se non coll'assuefazione (e quindi facoltà) di attendere. E perciò gli uomini riflessivi e generalmente gl'ingegni o grandi, o applicati, hanno ordinariamente buona memoria, e si distinguono assai dal comune degli uomini nella facoltà di ricordarsi anche delle minuzie, perchè sono assuefatti ad attendere. Della seconda specie sono quelle attenzioni che derivano da forza e vivacità delle sensazioni, le quali colla loro impressione costringono l'anima ad un'attenzione in certo modo materiale. Perciò gli spiriti suscettibili, e immaginosi, ancorchè non abbiano grande ingegno, o almeno non abbiano l'assuefazione di molto attendere, cosa naturale in questi tali, sono sempre d'ottima memoria, perchè tutto fa in loro proporzionatamente maggiore impressione che negli altri. (E questo è forse {il più ordinariamente} tutto ciò che si considera per dono naturale di buona e squisita memoria. Vedete com'ella sia nulla per se stessa, e dipendente, anzi quasi  1735 tutt'uno colle altre facoltà mentali.) E così il dono della memoria pare ad essi ed agli altri naturale, ed innato precisamente, in loro, perchè senza l'assuefazione di attendere, essi attendono spontaneamente a causa della forza in certo modo materiale delle impressioni. Quindi in gran parte deriva la durevolezza delle ricordanze di ciò che appartiene alla fanciullezza, dove tutte le impressioni, siccome straordinarie, sono vivissime, e quindi l'attenzione è grande benchè il fanciullo non ne abbia l'abito. {+E detta durata, siccome detta attenzione è proporzionata alla diversa immaginativa, suscettibilità, assuefabilità, delicatezza insomma e conformabilità degli organi de' diversi fanciulli.} Così la memoria degl'ignoranti, o poco avvezzi a sensazioni variate ec., memoria nulla dovunque è necessario l'abito di attendere (v. p. 1717.), suol essere tenacissima di tutte le sensazioni straordinarie, le quali per essi sono frequenti, perchè poco conoscono ec. ec. e la meraviglia opera in loro più spesso, e la novità non è rara per loro ec. e quindi li troviamo assai spesso di prontissima memoria, in cose di cui {noi} punto non ci ricordiamo ec. e vedendo che per essere ignoranti, non hanno esercizio  1736 nè d'attenzione nè di memoria, crediamo che questa in loro sia una precisa facoltà di cui la natura gli abbia squisitamente dotati.

[1987,1]  Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri  1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).

[2429,2]  Che società, che amicizia, che commercio potresti tu avere con un cieco e sordo, o egli con te?  2430 Al quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno de' tuoi sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione di spirito, cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual sentimento di te penseresti d'aver destato, o di poter mai destare nell'animo suo? E nondimeno tu sai pur ch'egli vive, ed oltracciò di vita umana e d'un genere medesimo colla tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad intendere i suoi bisogni, e beneficato esteriormente da te, o in altro modo influito, potrebbe aver qualche senso della tua esistenza, e formarsi di te qualche idea; anzi è certo che ti considererebbe come suo simile, non ch'egli n'avesse alcuna prova certa, ma appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i fanciulli, che sempre inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche modo a loro, non conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire altra forma d'esistenza che la propria, non ostante ch'essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità esteriori.

[2431,1]   2431 Or se contuttociò, tu non crederesti di poter aver con costui nessuna o quasi nessuna società, e non ti soddisfaresti nè ti compiaceresti in alcun modo del suo commercio, che dovremo dire di quella società che i filosofi tedeschi e romantici, vogliono che il poeta supponga, anzi ponga e crei fra l'uomo e il resto della natura? La qual società vogliono che sia tale che tutto per immaginazione si supponga vivo bensì, ma non di vita umana, anzi diversissima secondo ciascun genere di esseri? Non è questa una società peggiore e più nulla di quella col cieco e sordo? Il quale finalmente è uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente t'immagini che le cose vivano, non supponendo che questa vita abbia nulla di comune colla tua, che sentimento di te puoi presumere di destare in loro, o qual sentimento della vita loro puoi presumere di ricever da essi, non potendo neppur concepire altra forma di vita se non la propria? Che giova alla tua immaginazione e alla tua sensibilità il figurarti che la natura viva? Che relazione può la tua fantasia fabbricarsi  2432 colla natura per questo? Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei. Non basta al sentimento e al desiderio innato di quasi tutti i viventi che li porta verso il loro simile, il figurarsi che le cose vivano, ma solamente che vivano di vita simile per natura alla propria. Tolta questa non v'è società fra viventi, come non vi può esser società fra cose dissimili, e molto meno fra cose che in nessun modo si possono intendere l'une coll'altre, nè comunicarsi alcun sentimento, nè farsi scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o formarsi nessuna idea del genere di vita l'una dell'altra. Fra le bestie e l'uomo non è di gran lunga così, e perciò qualche società può passare e passa fra questo e quelle, e maggiore, quanto più la loro vita, e il loro spirito è simile al nostro, e quanto più esse {mostrano} {di} concepire le cose nostre, e noi le loro; e maggiore eziandio generalmente perchè l'immaginazione nostra (e probabilmente anche la loro) entra in questo commercio altresì, e ce le dipinge molto più simili a noi che forse non sono, e noi a loro parimente.  2433 Certo è poi che grandissima affinità e somiglianza passa tra la vita degli animali e la nostra, tra le loro passioni (radicalmente parlando) e fra le nostre ec. Affinità e somiglianza che non si trova o non apparisce fra l'esistenza delle cose inanimate e la nostra; che l'immaginazione antica, e fanciullesca, e, più o meno, quella di tutti i tempi, non vedendola, la suppone e la crea; che i bravi tedeschi non vogliono che si supponga, e che non per tanto s'immagini e si conservi un commercio scambievole fra le cose inanimate e l'uomo. (8. Maggio. 1822.).

[2645,2]  La storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza  2646 massimente[massimamente], delle cognizioni, de' pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di tragedia, ec.  2647 e all'interesse dei detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o} dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell'essere le medesime familiari  2648 a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).

[2684,1]   2684 L'uomo sarebbe felice se le sue illusioni giovanili {(e fanciullesche)} fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini, ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini più o meno (secondo la differenza de' caratteri), e massime in gioventù, provano queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni, come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non {le} avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell'età, quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l'uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni giovanili, e tutti gli uomini le  2685 avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la società. L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società. Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua. 1823.).

[2965,1]  Così discorrere del fanciullo. Il quale neanche si può così semplicemente dire che trovi piacevole a vedere la gioventù, appena, e la prima volta ch'ei la vede; che gli paia, come si dice, bella assolutamente e per se, e più bella della vecchiezza, al primo vederla.  2966 Ho notato altrove pp. 1198-99 pp. 1750-52 quanto spesso una persona giovane gli paia, e sia da lui espressamente giudicata bruttissima, e una persona vecchia bellissima (ancorchè ella sia a tutti gli altri brutta, eziandio per vecchia), e ciò per varie circostanze. E i sopraddetti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non v'hanno luogo costantemente e sicuramente nè in modo che non sia accidentale e di circostanza, se non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione naturale verso la gioventù, massime in ordine agl'individui della propria specie; il quale sviluppo, specialmente ne' paesi meridionali, accade nel fanciullo assai presto, e molto prima ch'egli sia in grado ec. V. l'Alfieri nella sua Vita. Accade, dico, almeno in parte. E anche circa il cieco nato che acquisti improvvisamente il vedere, dubito molto che egli ne' primi momenti, e anche ne' primi giorni, trovi assolutamente bello, come si dice, l'aspetto della giovanezza per se medesimo, e più bello che quello della vecchiezza. ec. Del resto il cieco nato, restando pur cieco, troverà certo più piacevole  2967 p. e. la voce giovanile che la senile, e tutte le altre sensazioni che gli verranno da persone giovani, in parità di circostanze, le troverà più piacevoli di quelle che gli verranno da persone vecchie; e l'idea ch'egli concepirà della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per lui più piacevole, e, come si dice, più bella che la contraria, e piacevole e bella per se medesima. Ma tutto ciò sarà effetto della inclinazione, e non derivato originalmente dall'intelletto. ec.

[3291,1]  Alla p. 3282. Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare {che} a se stesso, non operare che per se stesso immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e fa.} Ho detto altrove p. 1382 pp. 2410-12 pp. 2736-38 pp. 2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la forza {+e l'attività dell'animo, e del corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di forte immaginazione.  3292 Il che si trova essere appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi. {Che l'amor proprio sia maggiore ne' fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma maggiormente e più intensamente viventi. {Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.} (Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de' moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382 pp. 2410-11 pp. 2752-55 pp. 2736-37 pp. 2495-96 p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in  3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de' giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80 pp. 2736-38 pp. 2752-55).

[3769,1]  Ho detto in questo discorso come sia necessario che il soggetto dell'epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe ch'ei fosse universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra parte la nazionalità del soggetto limita, quanto a se, l'interesse e il grand'effetto del poema, a una sola nazione. Non v'è altro modo di ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri, dopo le tante mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore delle nazioni, o de' loro nomi, ch'è tutt'uno,  3770 e loro carattere nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere l'immaginazion de' lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e contemporanei de' personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici ec. Or tra tutti gli epici quel che meglio l'ha proccurata si è Omero nell'iliade, siccome fra tutti gli storici Livio. Vero è che questo viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da me esposte pp. 3125. sgg., le quali fanno che tutte le nazioni civili in tutti i tempi sieno {state e sieno per essere} connazionali e contemporanee de' troiani, greci {antichi} romani {antichi} ed ebrei {antichi.} Infatti dopo l'iliade, il poema epico che meglio proccura la detta illusione universale, si è l'Eneide, perchè di soggetto troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le dette cagioni si riducono alla sola iliade (ed all'Eneide),  3771 onde l'illusione ch'essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche, anzi l'iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa principalmente (cioè aiutata dall'Eneide ec.), ha potuto rendere {e rende} tutti gli uomini civili d'ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de' troiani. Questo ella consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec. le quali l'accompagnano perchè sin da fanciulli conosciamo l'iliade, o i fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in {buona} parte composte delle invenzioni d'Omero ec. ec. Ma tutto questo non sarebbe {nè sarebbe stato} se l'iliade non fosse sempre stata così celebre. Nè così celebre sarebbe stata sempre senza il suo sommo merito. Vero è che questo non ha che fare in particolare colla condotta ec. ec. (25. Ott. 1823.).

[4226,4]  Bellissima è l'osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ ϕιλαδελϕία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè circondato da persone benevole, {e benchè senza inimici,} pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore  4227 o timidezza continua, rispetto ai mali indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non perchè io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica natura, senza alleati, per la lontananza de' miei; (Recanati. 16. Nov. 1826.) {{e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al pensiero, all'aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie ec.}}

[4229,4]  È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, {una perspicacia, una esperienza} superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e} opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il giudizio che  4230 egli portava della cosa; nè più nè meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza  4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).

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