Vecchiezza.
Old age.
277,1 280,2 633,1 636,2 1584,2 1724,1 1860,1 2033 2110 2208,2 2755 3265,1 3291,1 3520,1 3922 3938,2 4284,1 4287,1 4141,3[277,1] Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è
privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel
nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se
è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è
la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si
vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti,
e che ogni uomo manchi del
presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio
della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi
desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e
278 intorpiditi, e ristretti,
e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi
speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l'estensione materiale del suo
futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo
spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività,
piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, {non} serve altro che ad attristarlo e stringergli
il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei
godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle
immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di
vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue,
sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di
moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e
l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando
questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di
279 morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma
tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più
energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi
desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo
assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di
che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella
natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo
futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a
percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta
pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera {eccessivamente,} sembrandogli quel futuro più lungo e
terribile di un'eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età
passata non è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato
senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una
sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della
vita, non vivrà, {avrà perduto e gli sarà inutile la sua
unica esistenza.} Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra
280 una perdita irreparabile fatta
sopra un'età che per lui non può più tornare. (16. 8.bre
1820.).
[280,2] Anche la mancanza {sola} del
presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui
sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile
non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo
vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e
l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in
qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo
col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla
molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da
principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia
l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile
di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto
eroica. {Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono
anche affezionati a quella vita.}
[633,1]
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans
l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une
place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même
dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous
que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous
revenons à nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous
consulter et à nous croire.
*
M.me la Marquise de Lambert,
Traité de la
Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes,
Paris 1808. 1.re édit. complète. p. 150. Il vient un temps dans la vie qui est
consacré à la vérité, qui est destiné à connoître les choses selon
leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors
nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter
634 et à nous croire sur notre
bonheur.
*
Ib. p. 153. Queste riflessioni sono osservabili. Non
solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza
speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a
contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno
consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o
agli affari del mondo. Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o
disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e
cerca il bene e il piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può, cerca
la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società,
e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente
l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della
sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e
indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e
dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o
sperare. Forse per questo, o anche
635 per questo, si è
detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L'anima, i
desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori,
e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del
pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo
piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in
relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle
riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo
sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e
cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il
vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni,
forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano
a quelle relative alla società. E questo è in somma quello che si chiama
contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita
ducere,
*
con che Cicerone (Lael. sive de Amicit.
c. 2.) definisce la sapienza. Un sistema, un complesso, un ordine, una
vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro. (9. Feb.
1821.).
[636,2]
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous
détacher.
*
Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 145. alla
metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun giorno
perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico
nostro avere. {L'esperienza e la verità ci spogliano alla
giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.} Non si vive se non
perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla
vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del giovane,
anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo {e
sventuratissimo,} ha più del giovane più fortunato; il giovane è più
ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice questo in altro
senso, cioè rispetto alle perdite {così dette} reali,
che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome
nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto
è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli
uomini, e
637 dello spirito umano, e della società.
(10. Feb. 1821.).
[1584,2]
On peut plaider pour la
vie, et il y a cependant assez de bien à dire de la mort, ou de ce qui
lui ressemble.
*
(Corinne,
1585 t. 2. p. 335.) Dalla mia teoria del piacere (v. anche il pensiero precedente, e la p. 1580-81. ) risulta che
infatti, stante l'amor proprio, non conviene alla felicità possibile dell'uomo
se non che uno stato o di piena vita, o di piena morte. O conviene ch'egli e le
sue facoltà dell'animo sieno occupate da un torpore da una noncuranza attuale o
abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni
timore; o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate,
rese capaci di vivissimamente e quasi pienamente occupare, dall'attività,
dall'energia della vita, dall'entusiasmo, da illusioni forti, e da cose {esterne} che in qualche modo le realizzino. Uno stato di
mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il desiderio vivo,
l'amor proprio ardente, senza nessun'attività, nessun pascolo alla vita e
all'entusiasmo. Questo però è lo stato più comune degli uomini. Il vecchio potrà
talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane vorrebbe sempre
trovarsi nel secondo, e oggidì si trova quasi sempre nel terzo. Così dico
proporzionatamente dell'uomo di mezza età. Dal che segue
1586 1. che il giovane senz'attività, il giovane domo e prostrato e
incatenato dalle sventure {ec.} è nello stato
precisamente il più infelice possibile: 2. che l'amor proprio non potendo mai
veramente estinguersi, e i desiderii pertanto esistendo sempre con maggiore o
minor forza, sì nel giovane che nel maturo e nel vecchio; lo stato al quale la
generalità degli uomini, e la natura immutabile inclina è sempre più o meno il
secondo: e quindi la migliore repubblica è quella che favorisce questo secondo
stato, come l'unico conducente generalmente alla maggior possibile felicità
dell'uomo, l'unico voluto e prescritto dalla natura, tanto per se stessa e
primitivamente (come ho spiegato nella teoria
del piacere); quanto anche oggidì, malgrado le infinite alterazioni
della razza umana. (29. Agos. 1821.).
[1724,1] L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta
principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima
professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta
amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura
umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima,
incostantissima ec. Schiller uomo di
gran sentimento era nemico di Goëthe
(giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma
v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne
godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de'
giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa
professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è
maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia
de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si
trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che
tra giovane e giovane; tra
1725 due vecchi che tra due
giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne'
giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi
dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.
[1860,1] Ho detto pp. 1548-51 che l'immaginazione può risorgere o durare
anche ne' vecchi e disingannati. Aggiungo che l'immaginazione e il piacere che
ne deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto
l'abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle
rimembranze, giacch'elle, se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o
sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il
presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è
dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a
noi per cui sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano
o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è
lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente,
diletta
1861 l'anima, e fa più viva, energica,
profonda, sensibile, e fruttuosa
impressione, perch'essendo più lontana, è più sottoposta all'illusione; e non
essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente
dall'influenza dell'assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico
dell'immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali
lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e
di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della
poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale,
trattandosi di ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali
immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano sempre
proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose
perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come
quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da
1862 loro ancor possedute, e senza timore. (7. Ott.
1821.).
[2032,1]
2032 L'uomo inesperto delle cose, è sempre di spirito e
d'indole più o meno poetica. Ella diventa prosaica coll'esperienza. Ma bene
spesso colui che da giovane fu per assuefazione o per natura più notabilmente
poetico, tanto più presto (anche nella stessa gioventù) e più gagliardamente
diviene prosaico coll'esperienza. Un eccesso tira l'altro, perchè gli eccessi;
contro quello che a prima vista apparisce sono più affini, amici e vicini fra
loro, che con quello che è fra loro di mezzo. Colui che per avere uno spirito
gagliardamente poetico, sente fortemente, fortemente {e
presto} deve sentire la nullità e la malvagità degli uomini e delle
cose. Egli diviene fortemente disingannato, perchè fu capace di essere
fortemente ingannato, e lo fu infatti. Prima della cognizione egli prova
gagliarde illusioni, dopo la cognizione, gagliardi, e pronti, e costanti ed
interi disinganni. La stessa forza della sua natura
2033 o delle sue facoltà acquisite, che dava risalto ed energia alle sue
illusioni, ne rende altrettanta a' suoi disinganni. E perciò la vecchiezza del
poeta, è forse (almeno spessissimo) assai più prosaica in tutti i sensi, che
quella dell'uomo d'indole primitivamente fredda, e tanto più quanto la sua
giovanezza, prima della sufficiente esperienza, fu più vivamente e veramente
poetica in qualunque senso. Giacchè per poetica intendo anche inclinata alla
virtù, all'eroismo, magnanimità ec. ancorchè non applicata punto alla poesia, ma
solamente ai fatti, ai desiderii, alle passioni ec. (2. Nov.
1821.). {{V. p.
2039.}}
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2208,2] Ho detto pp. 1648-49
pp.
2039-41
pp.
2107-09 che l'uomo di gran sentimento più presto degli altri è
soggetto a divenire indifferente sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol
dire ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto)
2209 più facilmente e prontamente degli altri. E per
due cagioni. 1. Perchè più soffre essendo più sensibile, onde le cause
dell'assuefazione che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni,
essendo in lui maggiori che negli altri, più presto la cagionano. {+Oltre ch'egli più vivamente le sente
ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per grado di forza
ec.} 2. Perch'egli è anche per se stesso e indipendentemente dalle
circostanze, più assuefabile degli altri. {+(Massime a questi generi di cose.)} Ond'egli
impara la sventura più presto degli altri, come gli uomini di talento (che per
lo più sono anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui
sono inclinati ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono,
concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli uomini di poco o
mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo un numero o una
massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad assuefare e
2210 rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento,
non vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore,
sempre sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli
ch'era assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene spesso tali
per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza, quanto appresso
a poco nella prima giovanezza. Anzi di più, perchè meno distratti nelle loro
sensazioni, e meno aiutati dalla forza naturale. Laddove all'uomo di sentimento
lo stesso esser poco capace di distrazione, lo stesso attender vivamente alle
sensazioni, facilita l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e
incapacità di più attendervi. (1. Dic. 1821.).
[2752,1]
Alla p. 2739.
fine. In primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore,
o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione
{e torpore} di esso sentimento cagionato dal
freddo, e del contrasto fra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e
l'abitudine contratta nell'inverno. Questo accrescimento di vita
2753 (chiamiamolo così) è comune in quella stagione,
come alle piante e agli animali, così agli uomini, e massime agli individui
giovani, sì delle predette specie, come dell'umana. Ora indubitatamente non è
alcuno, se non altro de' giovani, che in quella stagione non sia più malcontento
del suo stato {e di se,} che negli altri tempi
dell'anno (parlando astrattamente e generalmente, senza relazione alle
circostanze particolari, o vogliamo dire, in parità di circostanze). Tanto è
vero che il sentimento dell'infelicità si accresce o si scema in proporzione
diretta del sentimento della vita, e che l'aumento di questo è inseparabile
dall'aumento di quello. (4. Giugno 1823.). {+V. p. 2926.
fine.} Così una sventura particolare opera maggior
effetto e più dolorosa impressione in un temperamento forte e vivo, e lo abbatte
di più che non un temperamento debole, contro quello che parrebbe dovesse
essere, {+e che il volgo crede e
dice.} E la causa di ciò, non è, come si suol dire, la
maggior resistenza che un temperamento
2754 forte
oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior grado di vita, e quindi la
maggiore intensità di amor proprio e {il maggior}
desiderio di felicità, che nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la
rassegnazione, o piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore. Se il
dolore faceva quasi una strage nell'uomo antico, siccome fa nel selvaggio; se
gli antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura fino alle smanie
e al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al deliquio, al totale
spossamento di forze, al deperimento della salute, all'infermità, alla morte o
volontaria o naturale, ciò non proveniva, come si dice, dal non essere
assuefatti al dolore. Qual è l'uomo vivo che non sia accostumato a soffrire? Ma
proveniva dal maggior vigore di corpo ch'era negli antichi ed è ne' selvaggi, a
paragone de' moderni e civili. E forse questa, più che la minore assuefazione, è
la causa che i giovani siano più sensibili
2755 alle
sventure e più suscettibili di dolore che i vecchi; o certo questa n'è in
grandissima parte la causa. Massimamente osservando che questa differenza si
trova anche fra giovani assuefatissimi[assuefattissimi] alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di
quanto convenga patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto
ogni cosa a lor modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia la
più felice abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini (4.
Giugno 1823.).
[3265,1]
3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii
dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro,
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano,
quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere
al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e
fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma
considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in
modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire
che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è
che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria
e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o
anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è
sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli
onori o vantaggi ch'egli
3266 possa e debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi
lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,}
senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze
ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul
futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a
compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita.
Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il
giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che
non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto.
Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e
cospirante con quella del corpo, dalla
3267 freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un
picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a
fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale
inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni
producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di
dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella
vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un
brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età
dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel
disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor
proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento
3268 della vita, non è capace se non di fievoli
desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso
fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così
lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo
ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue
speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si
propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la
gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e
torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è
pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono
tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive
per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana
3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se
stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata
abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed
abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)
[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi. {Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi. {Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).
[3520,1] Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto
alla giovanezza ed alle altre età. {+Puoi vedere la p. 3846.}1.o
Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed
abituato generalmente alla virtù, e quando l'esperienza insegnava all'individuo
le cose utili {a se ed agli altri,} senza disingannarlo
delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime
3521 ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini,
che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù,
che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per naturale istituto aveva
intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più
ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili
e stimati, ed anche in molte parti più utili a' loro simili {e compagni} ed al corpo della società, che non i giovani e quelli
dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la
corruzione al mezzo, o più oltre, l'esperienza dovette fare tutto il contrario
delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le
qualità contratte ne' primi anni, render l'individuo tanto peggiore di
carattere, d'animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più
egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società)
molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i giovani
{ec.}; molto più tristi, svergognati,
3522 finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma,
{alieni dal ben fare,} e dannosi, o inclinati a far
danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre età, e massime i
giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè
meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più
misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura
dell'età, men guasti dall'esempio {e dalle cattive
massime,} o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione
sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel
quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o
in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d'assai mali
esempi per corrompere negl'individui la sempre buona natura ed indole primitiva;
nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed
ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il
giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di
malizia,
3523 di frode, di malvagità, e conosce il
mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per
ben contrarie cagioni {+e con ben
contrari effetti veggasi la (p.
3517-8.)} son tornate le cose appresso a poco nel loro stato
primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi,
perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si
aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e l'impeto e il
fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli
dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl'individui tanto più
{cattivi,} perniciosi ed odiabili, quanto esso
ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè
venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli
dell'altre età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e
siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui,
perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più
disingannati
3524 de' piaceri e de' vantaggi di questa
vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e
l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità, divenute oggi
cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il
calor naturale e l'inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or
sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza {rispetto} alla gioventù (e proporzionatamente all'altre
età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e
probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al
pessimo.
[3921,1]
3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382
pp. 2410-14
pp. 2736-39
pp.
3291. sgg.
pp. 3835-36
p.
3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione
{o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o
attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e
quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più
capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti
e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e
di poter fortemente divertire l'operazione {interna}
dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro
animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi
forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai
viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti
alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor
proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e
maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono
incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre
che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di
sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni
sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per
qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni
vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in
opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre
3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel
presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono
alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in
uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri
più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole.
Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere;
o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.
[3938,2]
Alla p. 3926.
Similmente si ragioni de' vecchi rispetto ai giovani. Quelli {#1. hanno men vigore assai di corpo, ma anche assai men
vigore di spirito, sì che la condizione dell'uno è temperata {e compensata} con quella dell'altro.} sono men
forti di corpo, ma eziandio assai men vivi di spirito, per ragioni fisiche, cioè
decadenza fisica {+e logoramento}
della loro organizzazione e facoltà interne, corrispondente a quello
dell'esterno ec. (29. Nov. 1823.).
[4284,1] È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di
non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi
atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla
vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli
spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio.
1827.).
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
[4141,3] Nel corso del sesto lustro l'uomo prova tra gli
altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è che laddove
egli per lo passato era solito a trattare per lo più con uomini di età o
maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini più giovani di se,
perchè i più giovani di lui non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova
a trattare con uomini più giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età,
che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il mondo
dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere riguardato
da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa tanto
contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non
si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi {generalmente} o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli
soleva, e con verità, per l'addietro. (Bologna. 8.
Ottobre. 1825.)
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