Teorica delle arti, lettere ec. Parte speculativa.
Theory of the arts, letters, etc. Speculative part.
2,1.2 3,1.2.4 6,12 8,3 32,3 79,1 154,1 198,1 186,1 206,4 212,3 221,1 250,1 276,2 949,1 1084,2 1098,1 1165,1 1183,2 1207,1 1212,2 1243,1 1256,1 1258,1 1259,1 1302,1 1303,1 1306,1 1307,1 1312,2 1323,segg. 1336,2 1337,1 1356,1 1365,1 1367,1 1368,1 1369,1 1379,1 1404,1 1411,1 1434,2 1435,1 1437,1 1449,1 1456,2 1509,1 1510,1 1522,1.2 1538,2 1539,1 1568,1 1576,1 1589,2 1593,1 1594,1 1603,1 1623,2 1634,1 1663,1.2 1666,1 1667,1 1668,1 1669,1 1684,1 1688,2 1689,1 1695,1 1706,21 1718,1 1733,1 1747,1 1749,1 1750,1 1754,1 1758,1.2 1759,1 1780,1 1793,1 1794,2 1801,2 1806,3 1832,1 1840,1 1845,1 1865,1 1871,1 1881,1 1882,3 1883,1 1900,12 1913,2 1914,1 1915,1 1916,1 1917,2 1921,1 1927,1 1930,2 1932,1 1934,1 1937,1 1940,1.2 1945,1 1982,2 1987,1 1991,1 2017,1 2037,2 2075,1 2118,1 2130,2 2184,1 2257,2 2361,1 2415-6 2512,2 2521,1 2545,1 2546,1 2568,1 2592,2 2596,1 2636,1 2645,2 2661,2 2682,1 2725,1 2834,1 2831,1 2960,1 2962,1 3047,1 3050,1 3084,1 3090,1 3095,2 3191,12 3206,1 3208,1 3247,1 3313,1 3364,1 3421,1 3427,1 3491,1 3553,12 3712,1 3760,1 3893,3 3984,2 3988,1 4020,2 4085,1 4113,3 4119,9 4234,5 4238,4[6,2]
Sistema di Belle Arti.
Fine - il diletto; secondario alle volte, l'utile. - Oggetto o mezzo di
ottenere il fine - l'imitazione della natura, non del bello
necessariamente. - Cagione {primaria} del fine
prodotto da questo oggetto o sia con questo mezzo - la maraviglia: forza
del mirabile e desiderio di esso innato nell'uomo: tendenza a credere il
mirabile: la maraviglia così è prodotta dalla imitazione del bello come
da quella di qualunque altra cosa reale o verisimile: quindi il diletto
delle tragedie ec. prodotto non dalla cosa imitata ma dall'imitazione
che fa maraviglia - Cagioni secondarie e relative ai diversi oggetti
imitati - la bellezza, la rimembranza, l'attenzione che si pone a cose
che tuttogiorno si vedono senza badarci ec. - Cagione primitiva del
diletto destato dalla maraviglia ec. e però conseguentemente del diletto
destato dalle belle arti - l'orrore della noia naturale all'uomo;
ricerche sopra le cagioni di quest'orrore ec. - Cagioni dei difetti
nelle belle arti - Sproporzione, sconvenevolezza, cose poste fuor di
luogo, al che solo (contro l'opinione di chi pensa che provenga
dall'avere le arti per oggetto il bello) si riducono i difetti della
bassezza della bruttezza deformità crudeltà sporchezza tristizia tutte
cose che rappresentate o impiegate nei loro luoghi non sono difetti
giacchè piacciono e per mezzo dell'imitazione producono la maraviglia,
ma sono difetti fuor di luogo p. e. in un'anacreontica l'imagine di un
ciclopo, (per lo più) in un'epopea per lo più la figura di un deforme
ec. Altri difetti e vizi; affettazione ec. quasi tutti si riducono alla
sconvenevolezza e inverisimiglianza che proviene dallo sconvenirsi {tra loro} in natura quegli attributi della cosa
inverisimile, onde la mente che comprende la
7
sconvenienza degli attributi concepisce l'inverisimiglianza - Diversi
rami della imitazione che formano i diversi oggetti delle belle arti e i
diversi generi p. e. di poesia, i quali tanto più son degni e nobili
quanto più degni ec sono gli oggetti, onde un genere che abbia per
oggetto il deforme, sarà un genere poco stimabile e da non mettersi p.
e. coll'epopea, benchè anch'esso sia un genere di poesia destando la
maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell'imitazione -
[8,3] Due gran dubbi mi stanno in mente circa le belle arti. Uno
se il popolo sia giudice ai tempi nostri dei lavori di belle arti. L'altro se il
prototipo del bello sia veramente in natura, e non dipenda dalle opinioni e
dall'abito che è una seconda natura. Della prima quistione se mi verrà in mente
qualche pensiero lo scriverò poi: della seconda, osservo che a noi par
conveniente a un soggetto (e la bellezza sta tutta si può dire nella
convenienza) quello che siamo assueffatti a vederci, e viceversa sconveniente
ec. e però ci par bello quello che ha queste tali cose e brutto o difettoso
quello che non le ha: benchè in natura {non} debba
averle o viceversa. p. e. ci par deforme una certa razza di cani quando ha
l'orecchie non tagliate ec. potenza della moda specialmente intorno alla
bellezza delle donne ec. Mi pare che in natura non ci siano quasi altro che i
lineamenti del bello, come sono l'armonia la proporzione e cose tali che secondo
il solo lume naturale debbono trovarsi in ogni cosa bella: e che l'ombreggiare
gli oggetti belli dipenda tutto dalle nostre opinioni. Per questo si possono
addurre infiniti esempi. E li distinguo in due classi: l'una di quelli che
provano la diversità di opinioni intorno agli oggetti in natura; l'altra ec.
intorno agli oggetti nell'imitazione ossia nelle belle arti.
Natura
Occhi azzurri belli tra' greci: neri tra noi. Capelli biondi belli in
Italia nel 500. neri al presente.
Diversissime opinioni de' barbari intorno alla bellezza che pur mostrano
che in natura non ce n'è idea fissa. V. Camper
Diss. sur le beau physique. Cavalli scodati.
Cani colle orecchie tagliate. Opinione e senso de' nostri contadini
circa la bellezza, e v. quelle
descritte nella Beca e nella
Nencia non già da scherzo, ma perchè di quella
sorta piacciono ai villani. Bello ideale ch'esprimerebbe p. e. un
pittore moro di qualunque genio ed entusiasmo si fosse. Il bello ideale
non è
9 altro che l'idea della convenienza che un
artista si forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della
sua nazione. Barba, e capelli tagliati o no.
Belle Arti
Pittura ec. de' cinesi. Musica de' turchi. V. Martignoni
annal. di Scienze e lett. n. 8. p. 245. nota
ove anche della musica francese e italiana. Presso noi non disdicono le
fabbriche a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate e colorite. Il
contrario de' Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa affatto
greggia e rozza.
[32,3] Quello che dice il Metastasio negli Estratti della poet. d'Aristot., {il Gravina nel trattato della tragedia dove parla
del numero cap. 26.} e ho detto io nel Discorso sul Breme intorno alla
materia dell'imitazione la quale può esser ad arbitrio, come imitare in marmo in
bronzo in verso in prosa ec. è vero: e quello che ho detto io specialmente mi
par che sia vero senza eccezione: ma quanto al Metastas. poich'egli lo dice per difender l'Opera,
bisogna notare che gli elementi della materia non debbon esser discordanti, che
allora la imitazione è barbara: come forse si può dir dell'Opera dove da una
parte è l'uomo vero e reale per imitar l'uomo, cioè la persona rappresentata,
dall'altra è il canto in bocca dell'uomo, per imitare non il canto ma il
discorso della {stessa} persona. Questa osservazione,
(considerazione) si può estendere a molte altre materie d'imitazione mal
composte. Quanto al canto però si osservi che anche gli antichi cantavano le
tragedie come dice il loro nome, se ben questo fu forse ne' primi tempi quando
la tragedia era veramente in mano di gentaglia sua sciocca inventrice e il
costume o non durò, o se durò, fu perchè avea cominciato così e non si ardì o
non si volle mutare, e questa forse fu la cagione ancora che fece fare la
tragedia e la commedia in verso, di maniera che da questa pratica venuta da vile
origine non si dee stimare il giudizio de' greci e degli antichi su questo
particolare: i quali forse avrebbero fatto ambedue in prosa se l'una o l'altra
fosse stata invenzione del gusto, e non parto stentato di diversissime
circostanze e usanze vecchie ec.
[79,1] Le altre {arti} imitano ed
esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non
esprime che lo stesso sentimento in persona, ch'ella trae da se stessa e non
dalla natura, e così l'uditore. Ecco perchè la Staël (Corinne liv. 9. ch. 2.) dice: De tous les beux arts
c'est
*
(la musique) celui qui agit le plus immédiatement sur l'ame.
Les autres la dirigent vers telle ou telle idée, celui-là seul s'adresse
à la source intime de l'existence, et change en entier la disposition
intérieure.
*
La
80 parola nella
poesia ec. non ha tanta forza d'esprimere il vago e l'infinito del sentimento se
non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un'impressione sempre
secondaria e meno immediata, perchè la parola come i segni e le immagini della
pittura e scultura hanno una significazione determinata e finita. L'architettura
per questo lato si accosta un poco più alla musica, ma non può aver tanta
subitaneità {, ed immediatezza.}
[154,1]
Da quello che dice Montesquieu
Essai sur le Goût. Des plaisirs de l'ame.
p. 369.-370. deducete che le regole della letteratura e belle arti non
possono affatto essere universali, e adattate a ciascheduno. Bensì è vero che la
maniera di essere di un uomo nelle cose principali e sostanziali è comune a
tutti, e perciò le regole capitali delle lettere e arti belle, sono universali.
Ma alcune piccole o mediocri differenze sussistono tra popolo e popolo tra
individuo e individuo, e massimamente fra secolo e secolo. Se tutti gli uomini
fossero di vista corta, {come sono molti}
l'architettura in molte sue parti sarebbe difettosa, e converrebbe riformarla.
{Così al contrario. Intanto ella è difettosa veramente
rispetto a quei tali.} Gli orientali aveano ed hanno più rapidità,
vivacità, fecondia ec. di spirito che gli europei. Perciò quella soprabbondanza
che notiamo nelle loro poesie ec. se sarebbe difetto tra noi, poteva non
esserlo, o esser minore appresso un popolo più capace per sua natura di seguire
e di comprendere coll'animo suo quella maniera del poeta. Lo stesso dite
dell'oscurità, del metaforico eccessivo per noi, {delle
sottigliezze, delle troppe minuzie,} dell'ampolloso ec. ec. E questa
distinzione fatela anche tra i popoli europei, e non condannate una letteratura
perchè è diversa da un'altra stimata classica. Il {tipo o la
forma del bello} non esiste, e non è altro che l'idea della
convenienza. Era un sogno di Platone che
le idee delle cose esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non
potessero esistere altrimenti {v. Montesq.
ivi. capo 1. p. 366.} quando la loro maniera
di esistere è affatto arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu, e non ha nessuna ragione
per esser piuttosto così che in un altro modo, se non la volontà di chi le ha
fatte. E chi sa che non esista un altro, o più, o infiniti altri sistemi di cose
così diversi dal nostro che noi non li possiamo neppur concepire?
155 Ma noi che abbiamo rigettato il sogno di Platone conserviamo quello di un tipo
immaginario del bello. (V. il discorso di
G. Bossi nella B. Italiana). Ora l'idea della
convenienza essendo universale, ma dipendendo dalle opinioni caratteri costumi
ec. il giudizio e il discernimento di quali cose convengano insieme, ne deriva
che la letteratura e le arti, quantunque pel motivo sopraddetto siano soggette a
regole universali nella sostanza principale, tuttavia in molti particolari
debbano cangiare infinitamente secondo non solamente le diverse nature, ma anche
le diverse qualità mutabili, vale a dire opinioni, gusti, costumi ec. degli
uomini, che danno loro diverse idee della convenienza relativa.
[198,1]
Montesquieu
(Essai sur le
Gout. Du je ne sais quoi) fa consistere la grazia {e il non so che,} principalmente nella sorpresa, nel dar
più di quello che si prometta ec. In questa materia della grazia così astrusa
nella teoria delle arti, come quella della grazia divina nella teologia, noterò
1. L'effetto della grazia non è di sublimar l'anima, o di riempierla, o di
renderla attonita come fa la bellezza, ma di scuoterla, come il solletico scuote
il corpo, e non già fortemente come la scintilla elettrica. Bensì appoco appoco
può produrre nell'anima una commozione e un incendio vastissimo, ma non tutto a
un colpo. Questo è piuttosto effetto della bellezza che si mostra tutta a un
tratto, e non ha successione di parti. E forse anche per questo motivo accade
quello che dice Montesquieu, che le
grandi passioni di rado sono destate dalle grandi bellezze, ma ordinariamente
dalla grazia, perchè l'effetto della bellezza si compie tutto in un attimo, e
all'anima dopo che s'è appagata di quella vista non rimane altro da desiderare
nè da sperare, se però la bellezza non è accompagnata da spirito, virtù ec. Al
contrario la grazia ha successione di parti, anzi non si dà grazia senza
successione. Quindi veduta una parte, resta desiderio e speranza delle altre. 2.
Perciò la grazia ordinariamente consiste nel movimento: e diremo così, la
bellezza è nell'istante, e la grazia nel tempo. Per movimento intendo anche
tutto quello che spetta alla parola. 3. Veramente non è grazia
199 tutto quello ch'è sorpresa. Già si sa quante sorprese non abbiano
che far colla grazia, ma anche in punto di donne, e di bello, la sorpresa non è
sempre grazia. Ponete una bellissima donna mascherata, o col viso coperto, e
supponete di non conoscerla, e ch'ella improvvisamente vi scopra il viso, e che
quella bellezza vi giunga affatto inaspettata. Quest'è una bella e piacevole
sorpresa, ma non è grazia. E per tener dietro precisamente a quello che dice
Montesquieu, che la grazia deriva
principalmente da questo {che}
nous sommes touchés de ce qu'une personne nous plaît plus qu'elle
ne nous a paru d'abord devoir nous plaire; et nous sommes
agréablement surpris de ce qu'elle a su vaincre des défauts que nos
yeux nous montrent et que le coeur ne croit plus,
*
supponete di vedere una donna o un giovane di persona disavvenente, e
all'improvviso mirandolo in volto, trovarlo bellissimo; questa pure è sorpresa,
ma non grazia. 4. Pare che la grazia consista in certo modo nella naturalezza, e
non possa star senza questa. Tuttavia primieramente, siccome la natura, secondo
che osserva anche Montesquieu, è ora
più difficile a seguire, e più rara assai che l'arte, così notate che quelle
grazie che consistono in pura naturalezza, non si danno ordinariamente senza
sorpresa. Se tu senti {o vedi} un fanciullo che parla o
vero opera, le sue parole e le sue azioni e movimenti, ti riescono sempre come
straordinari, hanno un non so che di nuovo e d'inaspettato {che ti punge, e fa una certa maraviglia, e tocca la curiosità.} Così
in qualunque altro soggetto di naïveté. In secondo
luogo ci sono anche delle cose non naturali, che pur sono graziose; o vero
naturali, ma graziose non per questo che sono naturali. P. e.
200 alcuni difettuzzi in un viso, piacciono assai, e paiono grazie a
molti. Chi s'innamora di un naso rincagnato (come quel Sultano di Marmontel), chi di un occhio un po' falso ec. Un
parlar bleso ec. a molti par grazia. E si vedono tuttogiorno, amori nati {appunto} da stranezze o difetti della persona amata.
Così nello spirito e nel morale. Il primo amore dell'Alfieri fu per una giovane di una certa protervia che mi faceva,
*
dic'egli, moltissima forza
*
. E di questo genere si
potrebbero annoverare infinite cose che paiono graziosissime e destano fiamma in
questo o in quello, e ad altri parranno tutto il contrario. Così un viso di quel
genere che chiamano piccante, vale a dire imperfetto,
e irregolare, fa ordinariamente più fortuna di un viso regolare e perfetto. Par
cosa riconosciuta che la grazia appartenga piuttosto al piccolo che al grande, e
che se al grande conviene la maestà, la bellezza, la forza ec. la grazia e la
vivacità non gli possa convenire. Questo in qualsivoglia cosa, e astrattamente
parlando, uomini, statue, manifatture, poesie ec. ec. ec. Un piccolin
si mette Di buona grazia in tutto
*
dice il Frugoni. Ed è cosa ordinaria di
chiamar graziosa una persona piccola, e spesso in maniera come se piccolezza
fosse sinonimo di grazia. 5. Da queste cose deducete che in somma la definizione
della grazia non si può dare, e Montesquieu non l'ha data, benchè paia crederlo, e bisogna sempre
ricorrere al non so che. Perchè I. se la sorpresa è spesso compagna della
grazia, è certo che questa è ben diversa dalla sorpresa, cioè perchè una cosa
sia graziosa, non basta che sorprenda, bisogna che sia di quel tal genere,
201 e questo genere che cos'è? II. non la sola
naturalezza, come abbiamo veduto; non il perfetto, anzi spesso il difettoso,
l'irregolare, e lo straordinario; non tutto l'imperfetto, l'irregolare, e lo
straordinario, com'è manifesto: che cosa dunque? III. Concedo che spesso il
sentimento della grazia contenga sorpresa, ma non è grazioso per questo che
sorprende, altrimenti tutto il sorprendente sarebbe grazioso, ma perch'è un
certo non so che. IV. Quel modo in cui Montesquieu spiega questo non so che nelle parole riportate di sopra
non sussiste se non in alcuni casi. Un viso piccante ed irregolare nous plaît veramente d'abord
e senz'altro, e qui non c'entra l'aver saputo vincere il difetto ec. Si vede
ch'esso stesso contiene propriamente in se una qualità piacevole distinta da
tutto il resto. È vero che un viso irregolare piace con una certa sorpresa, ma
quel che piace non è {solamente nè principalmente} la
sorpresa, altrimenti un viso mostruoso piacerebbe di più. Applicate queste
considerazioni agli altri esempi riportati di sopra, in tutti i quali non ha che
far niente il dare più di quello che si prometta, o non è la cagion principale
ed intima di quel tal piacere, ma piuttosto estrinseca e accidentale. V. Il
grazioso è relativo come il bello, cioè ad uno sì, a un altro no ec.
L'esperienza lo mostra, che come non c'è tipo della bellezza, così neanche della
grazia. E quantunque paia che l'idea della naturalezza debba essere universale,
tuttavia non è, e presso noi passano per naturali infinite cose che sono
tutt'altro, e ai villani parranno naturali e graziose cento maniere che a noi
parranno grossolane ec. Così secondo le diverse nazioni costumi abitudini
opinioni ec. Non che la natura non abbia le sue maniere
202 proprie, certe e determinate, ma succede qui come nel bello. Un
cavallo scodato, un cane colle orecchie tagliate, è contro natura, una donna coi
pendenti infilzati nelle orecchie, un uomo colla barba tagliata ec. eppur
piacciono. Molto più discordano i gusti intorno alla grazia indipendente dalla
naturalezza. VI. Quantunque questo non so che, non si possa definire, se ne
possono notare alcune qualità 1.mo Spessissimo la semplicità è fonte, o
proprietà della grazia. 2.do. Quantunque la grazia ordinarissimamente consista
nell'azione, tuttavia può stare qualche volta anche senza questa, come appunto
molte grazie derivanti dalla semplicità, p. e. nelle opere di belle arti,
nell'abito di una pastorella, citato anche da Montesquieu come grazioso, insieme colle pitture di Raffaello e Correggio. Anche un viso piccante ma non bello, si può
dire che contenga questo non so che, {e punga,} senza
bisogno di azione, come p. e. veduto in un ritratto, quantunque d'ordinario
prenda risalto dal movimento. 3.zo. La naturalezza non è la sola fonte della
grazia, e pure non c'è grazia, dove c'è affettazione. Il fatto è che quantunque
una cosa non sia graziosa per questo ch'è naturale, tuttavia non può esser
graziosa se non è, o non par naturale, e il minimo segno di stento, o di
volontà, ec. ec. basta per ispegnere ogni grazia. Dico, se non pare, perchè le
grazie della poesia, del discorso, delle arti ec. per lo più paiono naturali e
non sono. 4.to La piccolezza abbiamo veduto come abbia che far colla grazia.
5.to Lo svelto, il leggero, parimente ha che far colla grazia. E notate che i
movimenti molli e leggeri di una persona di taglio svelto, sono graziosi senza
sorpresa, giacchè non è strano che i moti di una {tal}
persona sieno facili e leggeri. Bensì muovono una certa maraviglia o ammirazione
203 diversa dalla sorpresa, la quale nasce
dall'inaspettato, o dall'aspettazione del contrario. Così la maraviglia prodotta
dalle belle arti, con tutto che appartenga al bello, non ha che far colla
grazia. 6.to L'effetto della grazia ordinariamente è quello che ho detto, di
scuotere e solleticare e pungere, puntura che spesso arriva dirittamente al
cuore, come se tu vedi due occhi furbi di una donna rivolti sopra di te, nel
qual caso la scossa si può paragonare anche all'elettrica. Ma in quella grazia
che spetta p. e. alla semplicità pare che se l'effetto è di solleticare, non sia
di pungere, e forse si può fare su questa considerazione una distinzione di due
grazie, l'una piccante, l'altra molle, insinuante, glissante dolcemente nell'anima. E forse la prima si chiama più
propriamente il non so che. 7.mo La vivacità ha che far colla prima specie di
grazia. Ma con tutto ciò la vivacità non è grazia. 8.vo Nei cibi parimente si dà
una certa grazia, ora della prima, ora anche della seconda specie. Quelli che
chiamano ragoûts appartengono alla prima. E qui pure
discordano i gusti infinitamente.
[186,1]
186 La ragione che reca Montesquieu (Essai sur le gout. Des plaisirs de la
symétrie) perchè l'anima amando la varietà, tuttavia dans la plupart des choses elle aime à voir une espece de
symétrie,
*
il che sembra che renferme quelque contradiction,
*
non mi
capacita. Une des principales
causes des plaisirs de notre ame, lorsqu'elle voit des objets, c'est
la facilité qu'elle a à les appercevoir; et la raison qui fait que
la symétrie plaît à l'ame, c'est qu'elle
lui épargne de la peine, qu'elle la soulage, et qu'elle coupe, pour
ainsi dire, l'ouvrage par la moitié. De-là suit une régle générale:
par-tout où la symétrie est utile à l'ame et peut aider ses
fonctions, elle lui est agréable; mais, par-tout où elle est
inutile, elle est fade, parce qu'elle ôte la variété. Or les choses
que nous voyons successivement doivent avoir de la variété; car
notre ame n'a aucune difficulté à les voir: celles, au contraire,
que nous appercevons d'un coup d'oeil doivent avoir de la symétrie.
Ainsi, comme nous appercevons d'un coup d'oeil la façade d'un
bâtiment, un parterre, un temple, on y met de la symétrie, qui plaît
à l'ame par la facilité qu'elle lui donne d'embrasser d'abord tout
l'objet.
*
Ora io domando perchè noi vedendo una
campagna, un paesaggio dipinto o reale ec. d'un colpo d'occhio come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa vista,
essendo i medesimi, noi vogliamo in quella la varietà, e in questa la simmetria.
E perchè ne' giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia
187 in luogo della simmetria. La ragion vera è questa. I detti
piaceri, e gran parte di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli che
derivano dalla simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla
convenienza. La simmetria non è tutt'uno colla convenienza ma solamente una
parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni gusti ec. che
determinano l'idea delle proporzioni, corrispondenze, ec. La convenienza {relativa} dipende dalle stesse opinioni gusti, ec. Così
che dove il nostro gusto indipendentemente da nessuna cagione innata e generale,
giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede, dove no non la richiede, e
se giudica conveniente la varietà, richiede la varietà. E questo è tanto vero,
che quantunque si dica comunemente che la varietà è il primo pregio di una
prospettiva campestre, contuttociò essendo relativo anche questo gusto, si
troveranno di quelli che anche nella {prospettiva
campestre} amino una certa simmetria, come i toscani che sono avvezzi
a veder nella campagna tanti giardini. E così noi per l'assuefazione amiamo la
regolarità dei vigneti, filari d'alberi, piantagioni {solchi
ec.} ec. e ci dorremmo della regolarità di una catena di montagne ec.
Che ha che far qui l'utile o l'inutile? perchè quando sì, quando no negli
oggetti della stessa natura? perchè in queste persone sì, in quelle no? Di più
quegli stessi alberi che ci piacciono collocati regolarmente in una piantagione,
ci piaceranno ancora collocati senz'ordine in una selva, boschetto ec. La
simmetria e la varietà, gli effetti dell'arte e quelli della natura, sono due
generi di bellezze. Tutti
188 due ci piacciono, ma
purchè non sieno fuor di luogo. Perciò l'irregolarità in un'opera dell'arte ci
choque ordinariamente (eccetto quando sia pura
imitazione della natura, come ne' giardini inglesi) perchè quivi si aspetta il
contrario; e la regolarità ci dispiace in quelle cose che si vorrebbero
naturali, non parendo ch'ella convenga alla natura, quando però non ci siamo
assuefatti come i toscani.
[206,4] La grazia propriamente non ha luogo se non nei piaceri
che appartengono al bello. Una novità, un racconto curioso, una nuova piccante,
tutto quello che punge o muove o solletica la curiosità, sono irritamenti
piacevoli ma non hanno che far colla grazia. E quelli che appartengono ai cibi,
o a qualunque altro piacere parimente, somigliano alla grazia, e possono esserne
esempi, ma non confondersi con lei. Perciò la grazia va definita semplicemente,
un irritamento nelle cose che appartengono al bello, tanto sensibile, quanto
intellettuale, come il bello poetico ec.
[212,3] L'irritamento della grazia è piacevole come un
irritamento corporale nel gusto nel tatto, ec. E come una maggiore irritabilità
e dilicatezza del palato, fibre
213 ec. rende più
suscettibili e di più fino discernimento rispetto a questi irritamenti
corporali, così nella grazia riguardo allo spirito. V. se vuoi Montesquieu libro più volte cit. De la
délicatesse. Che se l'effetto rispettivo della grazia de'
due sessi è molto maggiore di un irritamento, la cagione non è la sola grazia,
come non la sola bellezza negli stessi casi. Ma la grazia irrita allora una
parte sensibilissima dell'uomo, che è l'inclinazione scambievole all'uno de' due
sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti che la grazia per se, ed
in qualunque altro caso non produrrebbe, {quando anche fosse
in molto maggior grado.} Così nella pittura farà molto più effetto la
grazia di una donna ec. che di un uomo, la grazia anche di un uomo, che quella
di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo ai nostri simili
viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello che da questo oggetto. Lo
stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo dipinto o scolpito, o di un
edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce molto la considerazione in cui
noi prendiamo quell'oggetto, cioè di opera umana, e perciò forse più efficace in
noi. Del resto tutto il medesimo accade in materia del bello. (17. Agosto
1820.).
[221,1] La vispezza e tutti i movimenti, e la struttura di
quasi tutti gli uccelli, sono cose graziose. (21. Agosto 1820.).
{{E però gli uccelli ordinariamente sono
amabili.}}
[250,1] Una prova evidente e popolare, {frequente nella vita, e giornaliera,} che il piccolo è considerato come grazioso, si è il
vezzo dei diminutivi che si sogliono applicare alle persone o cose che si amano,
o si vogliono vezzeggiare, pregare, addolcire, descrivere come graziose ec. E
così al contrario volendo mettere in ridicolo qualche persona o cosa tutt'altro
che graziosa, se le applica il diminutivo perchè la renda ridicola colla forza
del contrasto. Quest'uso è così antico
251 (nel latino,
greco ec.) e così universale oggidì che si può considerare come originato dalla
natura, e non dal costume o dalla proprietà di questa o quella lingua. E i
francesi che non hanno se non pochissimi diminutivi, nei casi detti di sopra,
fanno grand'uso di questi pochissimi, o suppliscono col petit, dimostrando che l'inclinazione ad attribuire ed esprimer
piccolezza in quelle tali circostanze, non è capriccio o assuefazione, ma
natura, ed effetto di un'opinione innata che la piccolezza sia quasi compagna
della grazia e piacevolezza, cose ben distinte dalla bellezza colla quale non ha
che fare questo attributo. E nello stesso modo, volendo ingiuriare, dipingere
come sgraziato, discacciare, ec. ec. qualunque persona o cosa, si adopera
l'accrescitivo; e in genere l'accrescitivo par che sempre tolga grazia al
soggetto, anzi sia l'opposto della grazia, e piacevolezza. (22. 7bre
1820.)
[276,2] La convenienza che cagiona la bellezza non è solamente
nelle parti della cosa. Molte cose possono esser così semplici che quasi non
abbiano parti. E il bello morale, e tutto quel bello che non appartiene ai
sensi, non ha parti. Ma la convenienza della cosa si considera anche rispetto
alle relazioni del tutto, o delle parti coll'estrinseco. P. e. coll'uso, col
fine, coll'utilità, col luogo, col tempo, con ogni sorta di circostanza,
coll'effetto che produce o deve produrre ec. Una spada con una gemma sulla
277 punta, la qual gemma corrispondesse perfettamente
all'ornato, alle proporzioni, alla configurazione, alla materia del resto, a
ogni modo sarebbe brutta. Questa bruttezza non è sconvenienza di parti, non di
una parte coll'altre, ma di una parte col suo uso o fine. Di questo genere sono
infinite bruttezze o bellezze tanto sensibili, che intelligibili, morali,
letterarie ec. (14. 8.bre 1820.).
[949,1] Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva
quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o
possano non esser belle. Poniamo per esempio un'opera scientifica. Se non è
bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le
conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per
questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è
bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti
poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè
ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è
chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze
convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il
rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per
questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non
essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che
dico dei libri, si deve estendere a tutti
950 gli altri
generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16. Aprile
1821.)
[1084,2] Una delle prove evidenti e giornaliere che il bello
non sia assoluto, ma relativo, è l'essere da tutti riconosciuto che la bellezza
non si può dimostrare
1085 a chi non la vede o sente da
se: e che nel giudicare della bellezza differiscono non solo i tempi da' tempi,
e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini, gli
stessi compagni differiscono sovente da' compagni, giudicando bello quello che
a' compagni par brutto, e viceversa. E convenendo tutti che non si può
convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a convenire che
nessuno de' due che discordano nell'opinione, può pretendere di aver più ragione
dell'altro, quando anche dall'una parte stieno cento o mille, e dall'altra un
solo. Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono sotto i sensi, e queste o
naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella letteratura ec. ec. V. a questo
proposito il P. Cesari, Discorso ai lettori premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola
M. T. Cic. ad Q. Fratrem, cum adnott. et
italica interpretat. Jacobi
Facciolati; accedit nupera eiusdem interpretatio A. C.
Verona, Ramanzini. Ovvero lo Spettatore di Milano, Quaderno 75. p.
177. dove è riportato il passo di detto discorso che fa al mio
proposito. (25. Maggio 1821.).
[1098,1] Altra prova che il bello è sempre relativo. Dice il
Monti
(Proposta
ec. vol. 1. par. 2. p. 8. fine) che l'orecchio è unico e superbissimo giudice della bellezza esterna
delle parole.
*
Ora per quest'orecchio, parlando di
parole italiane, non possiamo intendere se non l'orecchio italiano, e il
giudizio di detta bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue.
(28. Maggio 1821.).
[1165,1] La convenienza al suo fine, e quindi l'utilità ec. è
quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna
cosa è bella. (13. Giugno 1821.).
[1183,2] Quello che ho detto altrove pp. 481-84
pp.
667-68 intorno alla diversa impressione che fanno ne' fanciulli i nomi
propri (e si può aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee che
loro applicano di bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze accidentali di
quell'età, serve anche a dimostrare come sia vero che il bello è puramente
relativo, e come l'idea del bello determinato non derivi dalla bellezza propria
ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze affatto estrinseche al
genere e alla sfera del bello.
[1207,1]
1207 Quante cose si potrebbero dire circa l'infinita
varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all'armonia delle
parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell'orecchio sulla
bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni,
assuefazioni; {+ed intorno alla dolcezza,
alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un
luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella,
e graziosa un'altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle
abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso
della grazia, ora l'opposto ec. ec. V. p. 1263.} Lascio le differentissime armonie de' periodi
della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e
nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori
d'una stessa lingua e nazione, e d'un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose
relative all'armonia de' versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante,
sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all'orecchio, ma
non si accorge di verun'armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si
accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità
regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata
spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si
poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi
che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che
parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più
facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche
1208 il maggior numero di parole, considerando se non
altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l'infinita copia e
varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero
potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente,
forzando meno il senso, il verso, l'armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E
nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi
all'armonia de' loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la
rima.
[1212,2] Non è ella cosa notissima, comunissima,
frequentissima, e certa per la esperienza quasi di ciascuno, che certe persone
che da principio, o vedendole a prima giunta, ci paion brutte, appoco appoco,
assuefacendoci a vederle, e scemandosi coll'assuefazione il senso de' loro
difetti esteriori, ci vengono parendo meno brutte, più sopportabili, più
piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle, e bellissime? E poi perdendo
l'assuefazione di vederle, ci torneranno forse a parer brutte. Così dico di ogni
altro genere di oggetti sensibili o no. Molti de' quali che per una primitiva
assuefazione di vederli e trattarli ci parvero belli da principio, cioè prima di
esserci formata un'idea distinta e fissa del bello; veduti poi dopo lungo
intervallo, ci paiono brutti e bruttissimi. Che vuol dir ciò? Se esistesse un
bello assoluto, la sua idea sarebbe continua, indelebile, inalterabile, uniforme
in tutti gli uomini, nè si potrebbe o perdere o acquistare, o indebolire o
rinforzare, o minorare o accrescere,
1213 o in
qualunque modo cambiare (e cambiare in idee contrarie, come abbiamo veduto)
coll'assuefazione, dalla quale non dipenderebbe. (24. Giugno
1821.).
[1243,1]
1243 Osserviamo il grand'effetto prodotto nelle nostre
sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella statura degli uomini.
Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la statura delle donne, e
come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore statura che un uomo
mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario. ec. Osserviamo finalmente
che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti di qualunque genere, non
sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti, nè proporzionati a quelli
delle stature umane. E quindi inferiamo quanto la continua osservazione ci renda
sottili conoscitori, ed affini le nostre sensazioni circa le forme esteriori de'
nostri simili: e come per conseguenza l'idea delle proporzioni determinate non
si acquisti se non a forza di osservazione, e di abitudine; e quanto sia
relativa, giacchè la menoma differenza reale, ci par grandissima in questi
oggetti, e menoma, qual è, in tutti gli altri. (30. Giugno
1821.).
[1256,1]
1256 Se intorno alla bellezza umana, molte cose si
trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini convengono, questo non è
giudizio, ma senso, inclinazione ec. ec. e non ha che fare col discorso astratto
e metafisico della bellezza. Le donne che Omero chiama βαϑύκολποι (Il. σ. (18.) v. 122. 339. ω. (24.) v. 215.
Hymn. in
Vener. 4. v. 258. quivi delle ninfe montane.) parranno a
tutto il mondo più belle delle contrarie. La cagione è manifesta, e non accade
dirla. Certo non è questa nè il tipo della bellezza, nè un'idea innata, nè un
giudizio, una ragione ec. I fanciulli staranno molto tempo ad avvedersi che
quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far distinzione di beltà fra una
donna che l'abbia, e un'altra che ne sia priva. Nè solo i fanciulli, ma anche i
giovani mal pratici, e poco istruiti di certe cose, quantunque assuefatti a
vedere; i giovani modestamente educati ec.; del che interrogo la testimonianza
di molti. Le donne tarderanno assai più ad avvedersi di questa cosa, e non
concepiranno per lungo tempo nè giudizio nè senso di bellezza differente, fra
due donne ec. {{V.
p. 1313. fine.[p.
1315]}}
[1258,1] Osservate i differentissimi, e spesso contrarissimi
giudizi delle diverse nazioni, o province, e de' diversi tempi, e di una stessa
nazione o provincia in diverso tempo, circa la bellezza e grazia del portamento
delle diverse {classi di} persone, delle maniere di
stare di andare di sedere {di gestire} di presentarsi
ec. e circa le stesse creanze, eccetto quelle che sono determinate e prescritte
dalla ragione, e dal senso comune. Intorno alle quali cose possiamo dire che non
c'è maniera giudicata bellissima e graziosissima e convenientissima in un luogo
o in un tempo, che in altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non sia per
esser giudicata bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec. Certo è che intorno
alla bellezza del portamento dell'uomo, nessuno può stabilire veruna regola,
veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto. Non parlo delle mode del
vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto ad esso,
varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure {secondo} i territorii, e i momenti, senza veruna dipendenza neppur
dalla natura costante e
1259 universale. (1.
Luglio 1821.). {{V. p. 1318.
fine.}}
[1259,1] Spesso nel vedere una fabbrica, {una
chiesa,} un oggetto d'arte qualunque, siamo colpiti a prima
giunta da una mancanza, da una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un
disordine {o irregolarità} di simmetria ec. ed appena
che abbiamo saputo o capito la ragione di questo disordine, e com'esso è fatto a
bella posta, o non a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per
necessità ec. non {solo non giudichiamo, ma non}
sentiamo più in quell'oggetto veruna sproporzione, come la concepivamo e
sentivamo e giudicavamo a primo tratto. Non è dunque relativa e mutabile l'idea
delle proporzioni e sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e formavamo
in quel primo istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per
l'assuefazione, la quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar
di una cosa sopra un'altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso
sopra un altro, e quindi di una convenienza sopra un'altra. Dal che deriva
l'errore universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del
misurare tutti i nostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del
credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi del
crederci più perfetti d'ogni altro
1260 genere di
esseri, quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma
solamente fra gl'individui ec. (1. Luglio 1821.).
[1302,1] Un ritratto, ancorchè somigliantissimo, (anzi
specialmente in tal caso) non solo ci suol fare più effetto della persona
rappresentata (il che viene dalla sorpresa che deriva dall'imitazione, e dal
piacere che viene dalla sorpresa), ma, per così dire, quella stessa persona ci
fa più effetto dipinta che
1303 reale, e la troviamo
più bella se è bella, o al contrario. {ec.} Non per
altro se non perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e
vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che
incredibilmente accresce l'acutezza de' nostri organi nell'osservare e nel
riflettere, e l'attenzione e la forza della nostra mente e facoltà, {e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni.
ec.}
{+(Osservate in tal propos. ciò che dice
uno stenografo francese, del maggior gusto ch'egli provava leggendo i
classici da lui scritti in istenografia.)} Così osserva il Gravina intorno al diletto partorito dall'imitazione
poetica. (9. Luglio 1821.).
[1303,1] Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto
ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario se la
conosciamo. Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti d'imitazione
pel poeta e l'artefice, condannando i romantici {e il più de'
poeti stranieri} che scelgono {di preferenza}
oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.
(9. Luglio 1821.).
[1306,1] Dovunque ha luogo l'utilità quivi noi non
consideriamo e concepiamo e sentiamo la proporzione e convenienza, se non in
ragione dell'utile. Poniamo una spada con una grande impugnatura a comodo e
difesa della mano. Che proporzione ha quella grossa testa con un corpo sottile?
E pure a noi pare convenientissima e proporzionatissima. Perchè? primo per
l'assuefazione principal causa e norma del sentimento delle proporzioni,
convenienze, bellezza, bruttezza. Secondo perchè ne conosciamo il fine e
l'utilità, e questa cognizione determina la nostra idea circa la proporzione ec.
dell'oggetto che vediamo. Chi non avesse mai veduto una spada, e non conoscesse
l'uffizio
1307 suo, o dell'elsa ec. potrebbe giudicarla
sproporzionatissima, e concepire un senso di bruttezza, relativo agli altri
oggetti che conosce, e alle altre proporzioni che ha in mente. Così dite delle
forme umane ec. Non è dunque vero che la proporzione è relativa? Qual tipo, qual
forma universale può aver quell'idea, ch'è determinata individualmente dalla
cognizione di quel tale oggetto delle sue parti, de' loro fini ec? che è
determinata dall'assuefazione di vederlo ec? che varia {non
solo secondo le infinite differenze degli oggetti, ma} secondo le
differenze di dette cognizioni, assuefazioni ec? E quell'idea che deriva da
cognizione speciale di ciascheduna cosa e parte, e da speciale assuefazione,
come può essere innata, avere una norma comune, stabile, determinata
primordialmente e astrattamente dalla natura assoluta del tutto? (10.
Luglio 1821.).
[1307,1] Mi si permetta un'osservazione intorno ad una
minuzia, la cui specificazione potrà parere ridicola, e poco degna della
scrittura. Alcune minute parti del corpo umano che l'uomo osserva difficilmente,
e assai di rado, e per solo caso negli altri, le suole osservare solamente in se
stesso. In se stesso, e da ciò che elle sono in lui, egli concepisce l'idea del
1308 quali debbano essere, e della convenienza
delle loro forme, e proporzione ec. e di tutti i loro accidenti. Così le unghie
della mano. Le quali ben di rado si possono osservare negli altri, bensì sovente
in se stesso. Or che ne segue? Ne segue che tutti noi ci formiamo l'idea della
bellezza di questa parte del nostro corpo, dalla forma ch'ella ha in ciascheduno
di noi; e perchè quest'idea è formata sopra un solo individuo della specie, e
l'assuefazione è del tutto
individuale nel {suo} soggetto, perciò se talvolta ci
accade di osservare o di porre qualche passeggera attenzione a quella medesima
parte in altrui, rare volte sarà ch'ella non ci paia di forma strana, e non ci
produca un certo senso di {deformità o informità ec.
di} bruttezza, e anche di ribrezzo, perchè contrasta coll'assuefazione
che noi abbiamo contratta su di noi. {+E
se accadrà che noi osserviamo quella parte nella persona più ben fatta del
mondo, ma che in questa differisca notabilmente da noi, quella parte in
detta persona ci parrà notabilmente difettosa, quando anche ad altri {o generalmente} paia l'opposto per differente
circostanza.} Ed insomma il giudizio che noi formiamo della bellezza o
bruttezza di quella parte in altrui, è sempre in proporzione della maggiore o
minore conformità ch'ella ha non col generale che non conosciamo, ma colla
nostra particolare.
[1312,2]
Alla p. 1226 marg.
fine. Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l'eleganza
delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente {anzi sempre} ella consista nell'indeterminato, {(v. in tal proposito quello che altrove ho detto p.
61 circa un passo di Orazio)}
{+v. p. 1337. principio.} o in qualcosa d'irregolare, cioè
nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello scrivere
didascalico {o dottrinale.} Non nego io già che questo
non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l'eleganza
non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E
di questa associazione
1313 della precisione
coll'eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra' nostri, di Galileo. Soprattutto poi conviene allo scrivere
didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di detti
autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza, perch'è
naturalezza. Bensì dico che piuttosto la filosofia e le scienze, che sono opera
umana, si possono piegare e accomodare alla bella letteratura ed alla poesia,
che sono opera della natura, di quello che viceversa. E perciò ho detto pp.
1228-29
p.
1231 che dove regna la
filosofia, quivi non è poesia. La poesia, dovunque ella è, conviene che regni, e
non si adatta, perchè la natura ch'è sua fonte non varia secondo i tempi, nè
secondo i costumi o le cognizioni degli uomini, come varia il regno della
ragione. (13. Luglio 1821.).
[1336,2] In proposito e in prova di quanto ho detto p. 1322. - 28. che la
grazia deriva dallo straordinario medesimo, che quando è troppo, per un verso o
per un altro, cagiona l'effetto opposto; osservate che l'inusitato nelle
scritture nella lingua, nello stile, è fonte principalissima di affettazione di
sconvenienza, di barbarie, {d'ineleganza,} e di
bruttezza; e l'inusitato è pur l'unica
fonte dell'eleganza. V. il Monti Proposta ec. vol. 1. par. 1.
Append. p. 215. sotto il mezzo,
1337 seg.
{e la p. 1312.
capoverso ult.}
(17. Luglio 1821.)
[1337,1]
Alla p. 1312
marg. Per l'indeterminato può servir di esempio Virg.
En. I. 465. Sunt lacrimae rerum: et mentem mortalia
tangunt.
*
Quanto all'irregolare, abbiamo veduto
p. 1322. - 28. e nel
pensiero superiore, che
l'eleganza {propriamente detta} deriva sempre dal
pellegrino e diviso dal comun favellare, il che per un verso o per un altro è
sempre qualcosa d'irregolare, sia perchè quella parola è forestiera, e quindi è,
non dirò contro le regole, ma irregolare, o fuor delle regole l'usarla; sia
perchè quel modo è nuovamente fabbricato comunque si voglia ec. Ed osservate
che, escluso sempre l'eccesso, il quale produce il contrario dell'eleganza,
dentro i limiti di quella irregolarità che può essere elegante, la eleganza
maggiore o minore, è bene spesso e si sente, in proporzione della maggiore o
minore irregolarità. Ciò non solo quanto alla lingua, ma allo stile ec.
Nell'ordine non v'è mai eleganza propriamente detta. Vi sarà armonia, simmetria
ec. ma l'eleganza nel puro e rigoroso ordine non può stare. Nè vi può star la
natura, ma la ragione, che l'ordine è sempre segno di ragione in qualunque cosa.
(17. Luglio 1821.)
[1356,1]
1356 Un viso bellissimo, il quale abbia qualche
somiglianza con una fisonomia di nostro controgenio, o che abbia l'idea, l'aria
di un'altra fisonomia brutta ec. ec. non ci par bello. (20. Luglio
1821.).
[1365,1] La grazia bene spesso non è altro che
1366 un genere di bellezza diverso dagli ordinari, e
che però non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e grazioso (che la
grazia è sempre nel bello). A'[A] quelli a'
quali quel genere non riesca straordinario, parrà bello ma non grazioso, e
quindi farà meno effetto. Tale è p. e. quella grazia che deriva dal semplice,
dal naturale ec. che a noi in tanto par grazioso, in quanto, atteso i nostri
costumi e assuefazioni ec., ci riesce straordinario, come osserva appunto Montesquieu. Diversa è l'impressione che a noi produce la
semplicità degli scrittori greci, v. g. Omero, da quella che produceva ne' contemporanei. A noi par graziosa,
{+(V. Foscolo nell'articolo
sull'Odiss. del Pindemonte; dove parla della sua propria traduzione del
1. Iliade)} perchè divisa da' nostri costumi, e
naturale. Ai greci contemporanei, appunto perchè naturale, pareva bella, cioè
conveniente, perchè conforme alle loro assuefazioni, ma non graziosa, o certo
meno che a noi. Quante cose in questo genere paiono ai francesi graziose, che a
noi paiono soltanto belle, o non ci fanno caso in verun conto! A molte cose può
estendersi questo pensiero. (21. Luglio 1821.)
[1367,1] Quanti diversi gusti e giudizi negli stessi uomini
circa la stessa bellezza delle donne! Lasciando da parte la passione di
qualsivoglia sorta, fra gli uomini più indifferenti, questi dirà, la tale è
bellissima, quegli, è bella, quest'altro,
1368 è
passabile, quell'altro, non mi piace, quell'altro è brutta. Non si troverà una
donna sola della cui bellezza {o bruttezza} tutti gli
uomini convengano, se non altro sul più e sul meno. Quanto più discorda il
giudizio delle donne! Così dico della bellezza degli uomini ec. Dov'è dunque il
bello assoluto? Se neppur si può trovare dove par che la natura stessa l'insegni
più che in qualunque altro caso ec. (22. Luglio 1821.).
[1368,1] Che cosa è il polito e il sozzo, il mondo e
l'immondo? Che opposizione anzi che differenza assoluta possiamo trovare fra
queste qualità contrarie? Sozzo è quello che dà noia ec. polito l'opposto. Bene,
ma a quella specie, a quell'individuo dà noia una cosa, a questo un'altra. Oggi
la tal cosa mi dà noia, domani no. In questa circostanza {no,} in questa sì. Nulla è dunque per se medesimo ed assolutamente nè
mondo nè immondo. Ma noi secondo la solita opinione dell'assoluto, pigliamo per
esemplare d'immondizia il porco, il quale è tanto mondo quanto qualunque altro
animale, perchè quelle materie dove ama di ravvolgersi e che a noi fanno noia, a
lui nè a suoi simili non danno noia; e quindi per la
1369 sua specie non sono sozze. Bensì le daranno noia, e saranno sozze per lei,
molte cose per noi pulitissime. (22. Luglio. 1821.). {Di cento altre qualità dite lo stesso
che del mondo e immondo.}
[1369,1] Qual è stato naturale? quello dell'ignorante, o
quello dell'artista? Ora l'ignorante non conosce nè sente quasi nulla del bello
d'arte, poco ancora del bello naturale, e d'ogni bello ec. Un uomo affatto
rozzo, appena sarà tocco dalla musica più popolare. Anche alla musica si
acquista gusto coll'assuefazione sì diretta come indiretta. E pur la musica
sembra {quasi} la più universale delle bellezze ec. Ora
dico io. Il bello non è bello se non {in} quanto dà
piacere ec. Una verità sconosciuta è pur verità, perchè il vero non è vero in
quanto è conosciuto. La natura non insegna il vero, ma se ha da esistere il
bello assoluto, non lo possiamo riconoscere fuorchè in un insegnamento della
natura. Or come sarà assoluto quel bello che, se l'uomo non è in condizione non
naturale, non può produrre l'effetto suo proprio, indipendentemente dal quale
nessuno può pur concepire che cosa sia nè possa
1370
essere il bello? (22. Luglio. 1821.).
[1379,1]
1379 Siccome la parte dell'uomo alla quale più si
attende, è il viso, però il fanciullo non ha quasi mai un'idea formata della
bellezza o bruttezza delle persone, se non quanto al viso, e questa è la prima
idea della bruttezza umana, ch'egli concepisce: su questa idea si giudica per
lungo tempo della bellezza o bruttezza delle persone. Anzi è osservabile che
finchè l'uomo non ha cominciato a sentire distintamente la sensualità, non
concepisce mai un'idea esatta de' pregi o difetti de' personali; che in quel
tempo cominciando ad osservarli, comincia a formarsi un'idea del bello su questo
punto, ma non arriva a compierla se non dopo un certo spazio; che le persone
eccessivamente continenti sono ordinariamente di giudizio così poco sicuro
intorno alla detta bellezza, come quelle eccessivamente incontinenti, secondo ho
detto in altro pensiero; pp.
1256-57
pp. 1315-16 che generalmente le donne siccome pel loro stato sociale
sono necessitate a maggior castità degli uomini, ed hanno un abito esteriore ed
interiore di maggior ritenutezza, e meno rilassatezza ec. perciò sono prese
dalla bellezza del viso degli uomini, rispetto al personale, più di quello che
lo sieno proporzionatamente gli uomini
1380 dal viso
delle donne in comparazione del personale (e similmente dico della bruttezza). È
pure osservabile che dall'assuefazione naturale di osservare il viso più delle
altre parti, deriva in parte 1. l'aver noi {+(1) Bisogna essere artista per avere idee un poco determinate circa la
bellezza del personale, e anche l'artista le ha men sicure e determinate
che circa il viso.} sempre idea più chiara della bellezza o
bruttezza di quello che di queste, o generalmente prese, cioè del personale, o
particolarmente, come delle mani ec. che pur sono ugualmente scoperte. 2. la
preferenza e l'importanza che noi diamo alla bellezza o bruttezza del viso sopra
il resto, e l'attendere massimamente al viso, sia nell'osservare, sia nel
giudicare del bello o del brutto, la quale assuefazione ci dura per tutta la
vita. E che ciò non derivi solamente dalle proprietà naturali del viso,
osservatelo ne' selvaggi che vanno ignudi, e che certo attendono assai più di
noi all'altre parti, e n'hanno più certo, chiaro, e ordinario discernimento di
bello o brutto; osservatelo ne' libidinosi i quali preferiranno sempre una donna
di bel personale ec. e di mediocre viso, o anche non bello, alla più bella
faccia, e mediocre o non bella persona. E la preferenza che si dà
1381 alle forme del viso, e la maggiore o minore
attenzione che {vi} si pone, va sempre in proporzione
della maggiore o minore abitudine di riserva o di licenza, {sì negli uomini sì nelle donne.} E gli amori sentimentali, di cui gli
sfrenati non sono capaci, derivano sempre assai più dalle forme del viso, che
della persona ec. ec. È osservabile finalmente che il giudizio delle donne circa
la bellezza o bruttezza sì del viso come della persona, nel loro sesso, tarda
sempre più a formarsi che quello degli uomini, e non arriva mai a quel punto, e
così degli uomini viceversa. Nel che è pur nuovamente osservabile che quel
giudizio sul bello o brutto umano che possono acquistare i fanciulli prima della
sensualità qualunque, è presso a poco egualmente e indifferentemente formato
circa il loro sesso, che circa l'altro. Dico presso a poco, perchè un{'alquanto} maggiore inclinazione al sesso differente, si
fa sentire all'uomo sino da' primissimi anni, e questa produce sempre in lui
un'alquanto maggiore osservazione circa quel sesso ec. ec. (23. Luglio
1821.).
[1404,1] Le Cinesi si storpiano per farsi il piede piccolo
riputando bellezza, quello ch'è contro natura. Che accade il noverare le tante
barbare cioè snaturate usanze e opinioni intorno alla bellezza umana? Certo è
però che tutti questi barbari, e i cinesi ec. trovano più bella una persona
snaturatasi e rovinatasi in quei tali modi, che una persona bellissima e
foggiata secondo natura. Anzi
1405 questa parrà loro
anche deforme in quelle tali parti ec. Dunque essi provano il senso del bello,
come noi nelle cose contrarie; dunque chi ha ragione de' due? perchè dunque si
chiamano barbari simili gusti?
[1411,1] La semplicità è quasi sempre bellezza sia nelle
arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto
ama sempre il semplice. Dunque la semplicità è assolutamente è[e] astrattamente bella e buona? Così si conclude. Ma non è
vero. Perchè dunque suol esser bella?
[1434,2] In uno stesso tempo e nazione, quegli prova un vivo
senso di eleganza, in tale o tal parola, o metafora, o frase, o stile, perocchè
non v'è assuefatto; questi nessuno, per la contraria ragione. Una stessa
persona, oggi prova gran gusto di eleganza in uno scrittore, che alquanto dopo,
quand'egli s'è avvezzato ad altri scritti più eleganti, non gli pare elegante
per nulla, anzi forse inelegante. Così è accaduto a me, circa l'eleganza degli
scrittori italiani. Così coll'assuefazione (e non altro) si forma il gusto, il
quale come ci tende capaci di molti piaceri, che per l'addietro malgrado la
presenza degli
1435 stessi oggetti ec. non provavamo,
così anche ci spoglia di molti altri che provavamo, e generalmente, o almeno
bene spesso, e sotto molti aspetti, ci rende più difficili al piacere. (1.
Agosto. 1821.).
[1435,1] Il piacere che si prova della purità della lingua in
uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e
quando è più difficile il conservare detta purità, ed essa meno spontanea e
naturale. I trecentisti ne se doutoient point di
questo piacere ne' loro scrittori, che sono il nostro modello a quello riguardo.
E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo pregio, nè che questo fosse
un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole provenzali, Lombarde,
genovesi, arabe, greche storpiate, {latine} ec. che
adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl'inglesi la cui lingua non è
stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un
Vocabolario autorizzato, forse non
sanno che cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal
confronto, e finchè non vi sono
1436 scrittori o
parlatori impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità
della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè senza
cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove pp. 1325-26 che i
toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e
infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, {e che la purità dipende da esse,} e fin da quando esse
nacquero; perch'essi non le sanno, non le curano, e fin d'allora, generalmente
parlando, non le curarono. (Varchi, e
Speroni. V. Monti
Proposta ec. alla v. Becco, nel
Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco
anche in ordine alla purità dello stile {ec. ec.}
{{(2. Agos. 1821.)}}
[1437,1] Intorno alle supposte proporzioni assolute, o in
quanto stabilite dalla natura, o in quanto anteriori alla stessa natura, e
necessarie, merita di esser notato quello che affermano gli ottici, che i
diversi individui veggono
1438 gli stessi oggetti
diversamente grandi, secondo le differenze degli organi visivi; e così, credo,
anche una medesima persona secondo le differenze dell'età, e le alterazioni de'
suoi propri organi ec. ancorchè non sensibili, perchè fatte appoco appoco. {+Similmente forse si può dire di tutti gli
altri sensi fisici differentissimi ne' diversi individui; e senza fallo e
molto più de' sensi morali d'ogni genere, benchè questi sieno più soggetti
ad uniformarsi mediante lo sviluppo e le modificazioni che ricevono dalla
società.}
(2. Agosto 1821.).
[1449,1] Non solo i contemporanei p. e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben
meno di noi, come ho detto altrove p. 1420, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice,
non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe
pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua
propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti
ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli
1450 quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio
dell'opera tutto il contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati
ec. Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva
insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla
stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo facilmente evitare
cercando la semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così
dico dell'Ariosto ec. de' cui difetti
ho parlato ne' miei primi pensieri pp. 4-5 , ed altrove p. 700. Così dei
trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose,
benchè, per indole naturale,
semplicissimi ec. (4. Agos. 1821.).
[1456,2] Osserviamo nuovamente la forza dell'opinione sul
bello. Ho detto altrove p. 1312
p.
1323
p.
1336 che l'eleganza consiste in qualcosa d'irregolare. Quindi è che
mentre cento eleganze si gustano e piacciono negli scrittori accreditati,
infinite altre che meriterebbero lo stesso nome, e sono della stessa natura, non
paiono eleganze e non piacciono, perchè la loro irregolarità si trova in autori
non abbastanza accreditati, ancorchè sieno di vero merito, p. e. se sono
moderni, onde non possono avere l'
1457 autorità de'
secoli in loro favore. Anzi quelle stesse locuzioni, metafore, ec. ec. che
trovate in un autore accreditato ci daranno sapor di eleganza, trovate in autore
non accreditato ci daranno sapor di rozzezza, d'ignoranza, di ardire
irragionevole, di sproposito, di temerità ec. se non ci ricorderemo che quelle
hanno per se l'autorità di uno scrittore stimato. E ricordandocene in quel
momento, o anche dopo pronunziato il giudizio della mente, lo muteremo subito, e
troveremo effettivo gusto in quello che ci aveva dato effettivo disgusto. Il
qual effetto è frequentissimo negli studi di letteratura, e può stendersi a
considerazioni di molti generi, intorno al piacere che deriva dall'imitazione
del buono e classico, e bene spesso dalla sua contraffazione. Piacere non
naturale nè assoluto, ma secondario e fattizio, e pur vero piacere: anzi tanto
vero che la lettura dei classici, secondo me, non ha potuto mai dare agli
antichi quel piacere che dà a noi, e parimente i classici
1458 contemporanei non ci daranno mai nè tanto gusto quanto gli
antichi (cosa certissima), nè quanto ne daranno ai posteri. (6. Agos.
1821.).
[1509,1] Un viso, come ho detto altrove p. 1356, ci par
molte volte bruttissimo per la somiglianza che vi troviamo con un altro brutto,
o di contraggenio per noi, o tenuto per brutto. E si può di leggeri osservare
che tolta l'idea di questa somiglianza, egli non ci parrebbe così brutto; e
forse tal volta quella somiglianza sarà tale che non impedisca a quella
fisonomia di essere regolarissima, malgrado l'irregolarità di quella cui
somiglia. E nondimeno la detta idea ci produce una sensazione dispiacevole nel
vederla, e non la chiameremo mai bella, benchè altri privi di detta idea la
tengano anche universalmente per tale. Così una persona che da fanciulla ci è
parsa brutta, e che siamo avvezzi a considerar come tale, benchè
1510 divenga poi bella, non mai, o non senza difficoltà
potrà piacerci (quando non vi siano altre cause particolari); e forse
massimamente se l'abbiamo sempre veduta crescere e formarsi. Tanto può
l'opinione sull'idea del bello ec. (17. Agos. 1821.). {{V. p. 1521.}}
[1510,1] Il bambino non ha idea veruna di quello che
significhino le fisonomie degli uomini, ma cominciando a impararlo
coll'esperienza, comincia a giudicar bella quella fisonomia che indica un
carattere o un costume piacevole ec. e viceversa. E bene spesso s'inganna
giudicando bella e bellissima una fisonomia d'espressione piacevole, ma per se
bruttissima, e dura in questo inganno lunghissimo tempo, e forse sempre (a causa
della prima impressione); e non s'inganna per altro se non perchè ancora non ha
punto l'idea distinta ed esatta del bello, e del regolare, cioè di quello ch'è
universale, il che egli ancora non può conoscere. Frattanto questa
significazione delle fisonomie, ch'è del tutto diversa dalla bellezza assoluta,
e non è altro che un rapporto messo
1511 dalla natura
fra l'interno e l'esterno, fra le abitudini ec. e la figura; questa
significazione dico, è una parte principalissima della bellezza, una delle
capitali ragioni per cui questa fisonomia ci produce la sensazione del bello, e
quella il contrario. Non è mai bella fisonomia veruna, che {non} significhi qualche cosa di piacevole (non dico di buono nè di
cattivo, e il piacevole può bene spesso, secondo i gusti, e le diverse
modificazioni dello spirito, del giudizio, e delle inclinazioni umane esser
anche cattivo): ed è sempre brutta quella fisonomia che indica cose
dispiacevoli, fosse anche regolarissima. Si conosce ch'ella è regolare, cioè
conforme alle proporzioni universali ed a cui siamo avvezzi, e nondimeno si
sente che non è bella. Ma ordinariamente, com'è naturale, la regolarità perfetta
della fisonomia indica qualità piacevoli, a causa della corrispondenza che la
natura ha posto fra la regolarità interna e l'esterna. Ed è quasi certo che una
tal fisonomia appartiene sempre a persona di carattere naturalmente perfetto ec.
Ma siccome
1512 l'interno degli uomini perde il suo
stato naturale, e l'esterno più o meno lo conserva, perciò la significazione del
viso è per lo più falsa; e noi sapendo ben questo allorchè vediamo un bel viso,
e nondimeno sentendocene egualmente dilettati (e forse talvolta egualmente
commossi), crediamo che questo effetto sia del tutto indipendente dalla
significazione di quel viso, e derivi da una causa del tutto segregata ed
astratta, che chiamiamo bellezza. E c'inganniamo interamente perchè l'effetto
{particolare} della bellezza umana sull'uomo {+(parlo specialmente del viso che n'è la
parte principale, e v. ciò che ho detto altrove in tal proposito pp.
1379-81)} deriva sempre essenzialmente dalla significazione
ch'ella contiene, e ch'è del tutto indipendente dalla sfera del bello, e per
niente astratta nè assoluta: perchè se le qualità piacevoli fossero naturalmente
dinotate da tutt'altra ed anche contraria forma di fisonomia, questa ci parrebbe
bella, e brutta quella che ora ci pare l'opposto. Ciò è tanto vero che, siccome
l'interno dell'uomo, come ho detto, si cambia, e la fisonomia non corrisponde
alle sue qualità (per la maggior parte acquisite), perciò accade che quella tal
fisonomia irregolare
1513 irregolare in se, ma che ha
acquistata o per arte, o per altro, una significazione piacevole, ci piace, e ci
par più bella di un'altra regolarissima che per contrarie circostanze abbia
acquistata una significazione non piacevole; nel qual caso ella può anche
arrivarci a dispiacere e parer brutta. E se una fisonomia è fortemente
irregolare, ma o per natura (che talvolta ha eccezioni e fenomeni, come accade
in un sì vasto sistema), o per arte, o per la effettiva piacevolezza della
persona che influisce pur sempre sull'aria del viso, ha una significazione
notabilmente piacevole; noi potremo accorgerci della sproporzione e sconvenienza
colle forme universali, ma non potremo mai chiamar brutta quella fisonomia, e
talvolta non ci accorgeremo neppure della irregolarità, e se non la consideriamo
attentamente, la chiameremo bella. (17. Agos. 1821.). {{V. p. 1529. capoverso 2.}}
[1538,2] Bellezza e bruttezza relativa. Siccome la bellezza è
rara, perciò andando in un nuovo paese, tu ritrovi persone la più parte brutte.
Or queste ti paiono assai più brutte di quelle del tuo paese (benchè sia
confinante), e a prima vista ti pare che in
1539 quel
paese regni una gran deformità. La ragione è che il giudizio del bello e del
brutto dipende dall'assuefazione; e i brutti del tuo paese, non ti fanno gran
senso, nè ti paiono molto brutti, perchè sei avvezzo a vederli. Così pure ci
accade riguardo a questo o quell'individuo in particolare. Ma quello che accade
a te in quel nuovo paese, accadrà pure a que' paesani venendo nel tuo.
Viaggiando però molto, si arriva presto a perdere queste tali sensazioni, per
effetto parimente dell'assuefazione. (21. Agos. 1821.).
[1539,1] Ho detto qui sopra che il bello è raro, e il brutto
ordinario. Come dunque l'idea del bello deriva dall'assuefazione, e dall'idea
che l'uomo si forma dell'ordinario, il quale giudica conveniente? Deriva, perchè
quello che gli uomini o le cose hanno d'irregolare, non è comune. Tutti questi
son brutti, ma quegli in un modo, questi in un altro. L'irregolarità ha mille
forme. La regolarità una sola, o poche. E gli stessi brutti hanno sempre
qualcosa di regolare, anzi quasi
1540 tutto, bastando
una sola e piccola irregolarità a produr la bruttezza. Così dunque l'uomo si
forma naturalmente l'idea del bello, quando anche non avesse mai veduto altro
che brutti, distinguendo senza pure avvertirlo ciò che le loro forme hanno di
comune, da ciò che hanno di straordinario e quindi irregolare. E posto il caso
che il tale non avesse veduto alcuna persona senza un tale identico difetto, o
che l'avesse veduto nella maggior parte delle persone a lui note, quel difetto
sarebbe per lui virtù, ed entrerebbe nel suo bello ideale. Così accadrebbe nel
paese de' monocoli. E forse può qui aver luogo il caso di una giovane da me
conosciuta, che sino a 25 anni, credè sempre costantemente che nessuno vedesse
dall'occhio sinistro, perch'ella non ci vedeva, e niuno se n'era accorto.
L'immagine pertanto ch'ella si formava della bellezza umana, era di un uomo
cieco da un occhio, ed avrebbe stimato difetto il contrario. (21. Agos.
1821.).
[1568,1] Quello che ho detto altrove del sozzo e del polito
pp. 1368-69, si può parimente dire dello schifoso
ec. ec. E si può aggiungere che non solo nelle diverse specie d'animali, ma in
una stessa specie, in uno stesso individuo, {+massimamente umano,} l'idea del sozzo o del netto
varia in maniera, secondo le assuefazioni ec. che non si può ridurre a veruna
forma {concreta} universale. (27. Agosto
1821.)
[1576,1] Quanto sia vero che la bellezza delle fisonomie
dipende dalla loro significazione, osservate. L'occhio è la parte più espressiva
del volto e della persona; l'animo si dipinge sempre nell'occhio; una persona
d'animo grande ec.
1577 ec. non può mai avere occhi
insignificanti; quando anche gli occhi non esprimessero nulla, o fossero poco
vivi in qualche persona, se l'animo di costei si coltiva, acquista una certa
vita, {divien furbo e attivo,} ec. ec. l'occhio
parimente acquista significazione, e viceversa accade nelle persone d'occhio
naturalmente espressivo, ma d'animo torpido ec. per difetto di coltura ec. ec.;
nei diversi momenti della vita, secondo le passioni ec. che ci commuovono,
l'occhio assume diverse forme, si fa più o men bello ec. ec. Ora l'occhio ch'è
la parte più significativa della forma umana, è anche la parte principale della
bellezza. (Questo si può dimostrare con molte considerazioni.) Un paio d'occhi
vivi ed esprimenti penetrano fino all'anima, e destano un sentimento che non si
può esprimere. Questo si chiama effetto della bellezza, e questa si crede dunque
assoluta; ma non v'ha niente che fare; egli è effetto della significazione, cosa
indipendente dalla sfera del bello, e la bellezza principale dell'occhio, non
appartenendo alla convenienza, non entra in quello che il filosofo considera
come bello.
[1589,2] Vuoi tu vedere l'influenza dell'opinione e
dell'assuefazione sul giudizio e sul sentimento, per così dire, fisico delle
proporzioni; anzi come questo nasca totalmente dalle dette cause, e ne sia
interamente determinato?
1590 Osserva una donna alta e
grossa vicina ad un uomo di giusta corporatura. Assolutamente tu giudichi e ti
par di vedere che le dimensioni di quella donna sieno maggiori di quelle
dell'uomo strettamente parlando. Ragguaglia le misure e le troverai spessissimo
uguali, o maggiori quelle dell'uomo. Osserva una donna di giusta corporatura
vicino ad un uomo piccolo. Ti avverrà lo stesso effetto e lo stesso inganno.
Similmente in altri tali casi. Questi sono dunque inganni dell'occhio: e da che
prodotti? che cosa inganna lo stesso senso? l'opinione e l'assuefazione.
(30. Agos. 1821.). {+Alla Commedia in Bologna vidi una donna vestita
da uomo: pareva un bambolo. In un altro atto ella uscì fuori da donna,
facendo un altro personaggio: mi parve, com'era, un gran pezzo di
persona.}
[1593,1]
Gli Ottentotti hanno generalmente un tumore
adiposo sotto il coccige. Le parti sessuali delle loro donne sono
singolarmente costruite.
*
Crediamo noi che queste singolarità siano
bruttezze per loro? anzi che non sarebbe brutto per loro chi non le avesse?
(31. Agos. 1821.).
[1594,1]
1594 La forza dell'opinione, dell'assuefazione ec. e
come tutto sia relativo, si può anche vedere nelle parole, ne' modi, ne'
concetti, nelle immagini della poesia e della prosa comparativamente. Paragone
il quale si può facilmente istituire, mostrando p. e. come una parola, una
sentenza {non insolita}, che non fa verun
effetto nella prosa {perchè vi siamo assuefatti,} lo
faccia nel verso ec. ec. ec. e puoi vedere la p. 1127. (31. Agos. 1821.).
[1603,1]
1603 Dalle sopraddette osservazioni risulta un'altra
gran prova del come l'idea del bello sia relativa e mutabile, e dipendente non
da modello alcuno invariabile, ma dalle assuefazioni che cambiano secondo le
circostanze. Oggi l'idea del bello, racchiude quasi essenzialmente un'idea di
delicatezza. Un robusto villano o villana, non paiono certamente belli alle
persone di città. Il bello nelle nostre idee, esclude affatto il grossolano.
Dovunque esso si trova, (se ciò non è in una certa misura che mediante lo
straordinario e lo stesso sconveniente, produca la grazia) non si trova il bello
per noi, almeno il bello perfetto. Ora egli è certo che gli uomini primitivi la
pensavano ben altrimenti, perchè tutti gli uomini primitivi eran grossolani. Non
esisteva allora una di quelle forme che noi chiamiamo belle, (ciò si può vedere
fra' selvaggi i quali non sentono la bellezza meno di noi, benchè non sentano la
nostra): e se avesse esistito, sarebbe stata e chiamata brutta. La delicatezza
dunque non entra nell'idea che l'uomo naturale concepisce del bello. Quindi la
1604
presente idea del bello non è punto naturale, anzi l'opposto. E pur ci pare
naturalissima, confondendo il naturale collo spontaneo: giacch'ella è spontanea,
perchè derivata senza influenza della volontà dalle assuefazioni ec.
[1623,2] Circa le differenti qualità che i diversi organi
percepiscono negli oggetti, come altrove dissi pp. 1189. sgg.
p.
1370
pp. 1437-38, v.
Dutens par. 1. cap. 3. §. 40.
e tutto quel capo.
(3. Sett. 1821.).
[1634,1] Si potrebbe quasi dire che nell'uomo la sola
fisonomia è propriamente bella o brutta. Certo è ch'ella contiene quasi tutto
l'ideale della bellezza umana, e quasi tutta la differenza {essenziale} che la nostra mente ritrova e sente fra la bellezza umana
in quanto bellezza, e tutti gli altri generi di bellezza. Un uomo o donna di
viso decisamente brutto non può mai parer bello, se non per libidine e stimoli
sensuali. Eccetto il caso molto frequente, che coll'assuefazione e col tempo ec.
quel viso che v'era parso brutto, vi paia bello o passabile. Viceversa una
persona di brutte forme e bel viso, potrà parer bella, forse anche non
1635 potrà mai con
pieno sentimento esser chiamata brutta.
[1666,1] Si dice tutto giorno, aria
di viso, fisonomia ec. e la tal aria è
bella, la tale no, e aria truce, dolce, rozza, gentile ec. ec.
In maniera che bene spesso non trovando difetto in nessuno de' lineamenti, o non
trovandovi pregio, si trovano però difetti o pregi, bellezza o bruttezza
nell'aria del viso. Non è questa una prova
che il bello o brutto della fisonomia, non dipende nella principal parte dalla
convenienza, ma dalla significazione, e quindi non è propriamente bellezza nè
bruttezza? Notate anche il nome di aria che si è dato
a questa significazione generale di una
fisonomia, appunto perch'ella consistendo in sottilissimi rapporti colle qualità
non materiali dell'uomo, è una cosa impossibile a determinarsi, e quasi aerea.
1667 Ond'è che i giudizi differiscono intorno alla
bellezza umana forse più che a qualunque altra, quando parrebbe che dovesse
accadere l'opposto. Aria ec. si applica anche alle fisonomie non umane. (10. Sett.
1821.)
[1667,1] Vedi tu un uomo o una donna? A qual parte corri
subito? al viso, massime s'è di diverso sesso. T'è nascosto il viso, e il
personale o altro, ti par bello, o ti muove a curiosità di conoscerla? tu non
sei contento se non la miri in viso. Vedutolo, ti par brutto? tu cangi subito il
giudizio, e il senso, e mentr'ella ti parve bella, ora ti par brutta. Ti parve
brutta, e il viso ti par bello? nel tuo giudizio ell'è divenuta bella. Tu non
dici nè pensi di conoscere di veduta una persona se tu non l'hai veduta in viso.
Non così ti accade rispetto agli animali. Tu non provi nessuno dei detti
effetti. Tu non osservi che il corpo, perchè nelle diverse fisonomie di una
stessa specie, non trovi differenze. Tu dici di conoscere un cavallo, se anche
non l'
1668 hai veduto o almeno osservato nel muso. Se
n'hai visto il solo muso, non dici nè pensi di conoscerlo, laddove tu pensi di
conoscere una persona di cui non hai visto o almeno osservato che il viso, come
spesso accade. Un animale dipinto in maniera che il muso non si veda, ti pare
intero. Non così una persona. Tanto è vero che per l'uomo la parte principale
della forma umana è la fisonomia. (10. Sett. 1821.).
[1668,1] I contadini, e tutte le nazioni meno civilizzate,
massime le meridionali, amano e sono dilettate soprattutto da' colori vivi. Al
contrario le nazioni civili, perchè la civiltà che tutto indebolisce, mette in
uso e in pregio i colori smorti ec. Questo si chiama buon gusto. Perchè? come
dunque si suppone che il buon gusto abbia norme e modelli costanti, e
invariabili? s'egli ci allontana dalla natura, in che altra cosa stabile faremo
noi consistere questo tipo, questa norma? Non è questa oltracciò una prova che
tutto è relativo, e dipende dall'assuefazione, e circostanze,
1669 anche i piaceri, i gusti ec. che paiono i più naturali, e
spontanei? giacchè l'uomo polito, senza bisogno di alcuna riflessione, si ride
di un villano che stima far gran figura col suo gilet
di scarlatto, e degli altri villani o villane che l'ammirano. E pure che ragione
naturale v'è di riderne? Le stesse nostre classi colte pochi anni sono, quando
erano meno o civilizzate o corrotte, avevano lo stesso gusto de' nostri villani,
ma in assai maggior grado. Ora i colori amaranto, barbacosacco, napoleone, ed
altri simili mezzi colori sono di moda, e questo effetto si attribuisce a
piccole cagioni, ma in vero egli tiene alla natura generale dell'incivilimento.
(10. Sett. 1821.).
[1669,1] La detta osservazione è anche una prova
dell'indebolimento che è sempre {e in t̃ti[tutti] i sensi} compagno ed effetto della
civiltà. (10. Sett. 1821.).
[1684,1] Piace naturalmente ed universalmente (anche a'
vecchi) la vivacità della fisonomia, moti, espressioni, stile, costumi, maniere
ec. ec. Che vuol dir ciò? Viene in parte dallo straordinario, ma nella parte
principale questo piacere è indipendente dal bello: egli viene in ultima analisi
da una inclinazione (innata) della natura
1685 alla
vita, ed odio della morte, e quindi della noia, dell'inattività, e di ciò che
l'esprime, come la melensaggine. Inclinazione ed odio che si manifesta in mille
altre parti della vita umana, anzi in tutto l'uomo, anzi in tutta la natura.
Bensì ella {pur} varia nelle proporzioni, secondo i
temperamenti, le circostanze, {ec.} e sarà piacevole, e
(come dicono) bella per costui una vivacità che sarà brutta per colui, bella
oggi, brutta domani, bella per una nazione, brutta per un'altra ec. ec. ec.
(12. Sett. 1821.).
[1688,2] Si parla tuttogiorno di convenienze. E si crede
ch'elle sieno fisse, universali, invariabili, e su di loro si fonda tutto il
buon gusto. Or quante cose che sono convenienti, e quindi belle, e quindi di
buon gusto in italia, non lo sono in
Francia, ne' costumi, nel tratto, nello scrivere, nel
teatro, nell'eloquenza, nella poesia ec. Dante non è egli un
1689 mostro per li
francesi nelle sue più belle parti; un Dio per noi? Così discorrete, e su questo
esempio ragionate di tutte le possibili convenienze in ordine al confronto delle
idee che noi o altre nazioni ne hanno, con quelle che ne hanno i francesi.
(13. Sett. 1821.).
[1689,1] A ciò che ho detto altrove p. 1366
pp.
1579-80 che la semplicità è relativa, aggiungete che oggi per es.
sarebbe bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de' nostri trecentisti, ancorchè
inaffettato, e composto di voci e frasi niente anticate. La semplicità d'oggi è
diversissima da quella d'allora, e di un grado molto minore. Cosa che non
s'intende da coloro che raccomandano l'imitazione degli antichi. (13.
Sett. 1821.).
[1695,1] Forza dell'assuefazione sull'idea della convenienza.
L'uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza nè
della poesia, nè del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose. Vero è che
questo linguaggio e modo, e le cose che il poeta dice, essendo al tutto divise
dalle ordinarie, è molto conveniente, e giova moltissimo all'effetto, ch'egli
impieghi un ritmo ec. diviso dal volgare e comune, con cui si esprimono le cose
alla maniera ch'elle sono, e che si sogliono considerare nella vita. Lascio poi
l'utilità dell'armonia ec. Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è
legata al
1696 verso. E pure fuor del verso, gli
ardimenti, le metafore, le immagini, i concetti, tutto bisogna che prenda un
carattere più piano, se si vuole sfuggire il disgusto dell'affettazione, e il
senso della sconvenienza di ciò che si chiama troppo poetico per la prosa,
benchè il poetico, in tutta l'estensione del termine, non includa punto l'idea
nè la necessità del verso, nè di veruna melodia. L'uomo potrebb'esser poeta
caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che
sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il
linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta. Ma l'assuefazione
contraria ed antichissima (originata forse da ciò che i poeti si animavano a
comporre colla musica, e componevano secondo essa, {a
misura,} e cantando, e quindi verseggiando, cosa molto naturale)
c'impedisce di trovar conveniente una cosa che nè in se stessa nè nella natura
del linguaggio umano, o dello spirito poetico, o dell'uomo, o delle cose,
rinchiude niuna discordanza.
1697
(14. Sett. 1821.).
[1706,1] Dalle superiori osservazioni (p. {1705-}1706.) che si
possono molto, e filosoficamente estendere, deducete che forse nessun individuo
(come nessuna nazione rispetto alle altre) ha precisamente le idee di un altro,
circa la più identica cosa. E siccome la ragione dipende ed è interamente
determinata e modificata dal modo in cui le cose si concepiscono,
1707 quindi 1. spiegherete i differentissimi modi in
cui gli uomini ragionano, le diversissime opinioni e conseguenze che tirano
dalle cose, ed anche le diversità stesse dei gusti, dei costumi, ec. ec. ec. 2.
osserverete quanto dobbiamo noi fidarci della ragione, e credere al vero
assoluto: quando di questo vero che noi crediamo universalmente riconosciuto, si
può dir quello che si dice degli oggetti materiali. Le diverse viste vedono uno
stesso oggetto in diversissime misure, (v. due miei pensieri in proposito pp. 1437-38
p. 1623) ma siccome anche nel veder la misura esse provano la stessa
differenza, così il senso della differenza sparisce, ed ella è impossibile a
ravvisarsi e determinarsi. Così gli uomini concepiscono diversissime idee di una
stessa cosa, ma esprimendo questa con una medesima parola, e variando anche
nell'intender la parola, questa seconda differenza nasconde la prima: essi
credono di esser d'accordo, e non lo sono. ec. ec. ec. Pensiero importantissimo,
giacchè si deve riferire non alle sole idee materiali, ma molto più
1708 alle astratte, {(che tutte in
fine derivano dalla materia)} e agli stessi fondamenti della nostra
ragione. {+Molto più poi alle idee del
bello del grazioso ec.}
(15. Sett. 1821.).
[1718,1]
1718 Il fanciullino non riconosce le persone che ha
veduto una sola o poche volte, s'elle non hanno qualche straordinario distintivo
che colpisca la fantasia del fanciullo. Egli confonde facilmente una persona a
lui poco nota o ignota con altra o altre a lui note, una contrada del suo paese
da lui non ben conosciuta con la contrada in cui abita, un'altra casa colla sua,
un'[un] altro paese col suo ec. ec. ec.
Eppure l'uomo il più distratto, il meno avvezzo ad attendere, il più smemorato
ec. riconosce a prima vista la persona veduta anche una sola volta, distingue a
prima vista le persone nuove da quelle che conosce ec. ec. ec. {+(I detti effetti si debbono distinguere
in proporzione della diversa assuefabilità degli organi de' fanciulli, della
diversa loro forza immaginativa, che rende più o meno vive le sensazioni ec.
ec.)} Applicate questa osservazione a provare che la facoltà di
attendere, e quindi quella di ricordarsi, nascono precisamente dall'assuefazione
generale: applicatela anche alla
mia teoria del bello pp.
1184-201 , del quale io dico che il fanciullo ha debolissima idea, non
lo distingue da principio dal brutto, non conosce nè discerne i pregi o difetti
in questo particolare, se non saltano agli occhi ec. ec. ec. (17.
Settembre, 1821.).
[1733,1]
1733 Quanto possa l'assuefazione e l'opinione anche sul
gusto de' sapori, ch'è pure un senso naturale e innato, e ciò non ostante, varia
spessissimo fino in un medesimo individuo, secondo la differenza e delle
assuefazioni e delle opinioni intorno al buono o cattivo de' sapori; è manifesto
per l'esperienza giornaliera e comparativa sì de' gusti successivi di un
individuo, sì de' gusti e giudizi de' diversi individui. (18. Sett.
1821.).
[1747,1] Quelli che immaginarono una musica di colori, e uno
strumento che dilettasse l'occhio colla loro armonia istantanea e successiva,
coll'armonica loro combinazione, e variazione, ec. non osservarono che la grande
influenza dell'armonia musicale sull'anima, non è propria dell'armonia in modo,
ch'essenzialmente non derivi dal suono o dal canto isolatamente considerato;
anzi considerando la pura natura di essa influenza, essa spetta più, o più
necessariamente al suono e al canto che all'armonia o melodia: giacchè il suono
o il canto produce (benchè per breve tempo) sull'animo qualch'effetto proprio
della musica, ancorchè separato dall'armonia; non così questa, divisa
1748 da quello, o applicata a suoni o voci che per
natura non abbiano alcuna relazione ed influenza musicale sull'udito umano; come
il suono di una tavola, o di più tavole, il quale ancorchè fosse modulato e
distinto perfettamente ne' tuoni, ed applicato alla più bella melodia, non
sarebbe mai musica per nessuno.
[1749,1] Forza dell'assuefazione e dell'opinione sul bello
ec. Ho detto altrove pp. 1212-13 che l'assuefazione ci fa parer
passabile ed anche bello, ciò che da principio ci parve brutto, o ci sarebbe
paruto, se non vi fossimo stati sempre assuefatti ([v. il pensiero seguente]). Or
figuratevi di vedere per un momento una tal persona, verso cui vi troviate in
detta circostanza, e di vederla senza riconoscerla. Ella vi parrà subito brutta,
e un momento dopo vi tornerà (riconoscendola) a parer passabile o bella. Questa
osservazione si dee riferire non solo alle forme, ma anche ai moti, alle
maniere, al contegno, al tratto ec. di coloro a cui siamo assuefatti. Non
riconoscendoli vi parranno brutti, e riconoscendoli ritratterete in un punto il
vostro giudizio. Viceversa dico di chi o per antipatia, o per altre diversissime
circostanze, che in vari luoghi ho annoverate, ci soglia essere
1750 in concetto di brutto o spiacevole, e che sia
veduto da noi senza riconoscerlo. Spesso ti sarà accaduto di vedere una persona
che passi per bella, o che a te stesso sia paruta o paia tale, e vederla senza
conoscerla, o senza riconoscerla, e non parerti bella; e riconoscendola o
conoscendola, mutare immediatamente il giudizio. Viceversa dico di una persona
che passi per brutta, o tale tu l'abbi giudicata, o giudichi ec. Tutto ciò si
deve applicare ad ogni altro genere di bello o brutto indipendente dalle forme o
maniere e costumi umani, ed indole umana ec., ed appartenente p. e. alla
letteratura, alle arti ec. (20. Sett. 1821.).
[1750,1] Dicevami taluno com'egli avea molto conosciuto e
trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già matura, delle più brutte
che si possano vedere, ma di maniere, di tratto, d'indole, sì verso lui, che
verso tutti gli altri, amabilissime, politissime, franche, disinvolte, d'ottimo
garbo. E che sentendo una volta (mentr'egli era ancora fanciullo, ma
grandicello) notare da un forestiero
1751 l'estrema
bruttezza di quella persona, s'era grandemente maravigliato, non vedendo
com'ella potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l'opposto. Questa
medesima persona era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi
parve bella quanto può essere un vecchio (giacchè il fanciullo distingue pur
facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi ch'ella fosse
bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch'ella fu morta. E l'idea ch'io
ne conservo, è ancora di persona piuttosto bella benchè vecchia. (C. Galamini.) Così m'è accaduto
intorno ad altre persone parimente bruttissime. (V. Ferri.{)} Della bruttezza
di altre non mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole
coll'occhio più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e più
assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi.) {V. il principio del pensiero
antecedente.} Tale è l'idea del bello e del brutto ne'
fanciulli. Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune.
Probabilmente mi saranno anche parse bruttissime
1752
delle persone che poi crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state
belle (20. Sett. 1821.)
{e anche bellissime.}
[1754,1] Una persona niente avvezza alla buona lingua
italiana, chiama e giudica affettato tutto ciò che ha qualche sapore d'italiano,
ancorchè disinvoltissimamente scritto, e lontanissimo dall'anticato. E gli
antichi scrittori italiani, se non può chiamarli affettati, li giudica però
stranissimi, e di pessimo gusto in fatto di lingua; e così forse accade a tutti
noi italiani moderni, finchè non ci avvezziamo a quella lingua, e appoco appoco
la troviamo meno strana,
1755 e finalmente bellissima.
Qual è dunque il tipo dell'affettato e inaffettato, e del buon gusto in
letteratura ec. ec.? La sola assuefazione ch'è tanto varia quanto gl'individui,
e mutabile in ciascun individuo. (21. Sett. 1821.).
[1759,1] La più grande scienza musicale è inutile per
dilettare col canto senza una buona voce. Questa può supplire al difetto o
scarsezza di quella, ma non già viceversa. Qual è dunque la principale sorgente
del piacer musicale? Si suol dire che i bravi compositori di musica non sanno
cantare, perchè non sovente si combina la disposizione naturale e acquisita
degli organi intellettuali con quella degli organi materiali della voce. E così
il più perfetto conoscitore e fabbricatore di armonia e di melodia pel canto,
saprebbe bene eseguire l'armonia e la melodia, ma non perciò recare alcun
diletto musicale.
[1780,1] Una sorgente di piacere nella musica indipendente
dall'armonia per se stessa, dall'espressione, dal suono ancora o dalla natura
del canto in quanto voce, ec. ec. sono gli ornamenti, la speditezza, {la volubilità,} la sveltezza, la rapida successione,
gradazione, e variazione dei suoni, o de' tuoni della voce, cose le quali
piacciono per la difficoltà, per la prontezza, (ho detto altrove, cioè p. 1725. capoverso 2. perchè
1781 questa sia piacevole) per lo straordinario ec.
tutto indipendente dal bello. Senza la vivace mobilità e varietà de' suoni sia in ordine alla armonia, sia alla
melodia, la musica produrrebbe e produce un effetto ben diverso. Un'armonia o
melodia semplicissima, per bella ch'ella fosse annoierebbe ben tosto, e non
produrrebbe quella svariata moltiplice, rapida, e rapidamente mutabile
sensazione, che la musica produce, e che l'animo non arriva ad abbracciare. ec.
Viceversa queste difficoltà, questi ornamenti, queste agilità, se mancano di
espressione ec. ec. non sono piacevoli che agl'intendenti. La musica degli
antichi era certo assai semplice, e non è dubbio ch'ella non producesse ben
diverso effetto dalla nostra. Osserviamo bene, quando ascoltiamo una musica che
ci colpisce, e vedremo quanta parte del suo effetto provenga dall'agilità ec.
de' tuoni, de' passaggi, ec. indipendentemente dall'armonia o melodia in quanto
armonia o melodia.
[1793,1] Quello che ho detto altrove pp. 1749-50 della
bellezza o bruttezza il cui giudizio bene spesso si muta, vedendo una persona
conosciuta e non riconoscendola, si può estendere non solo ad altri generi di
bello e brutto, ma eziandio ad altre qualità degli oggetti, (umani o no) e fino
alla statura (quantunque l'idea di questa paia immutabile) della quale ancora,
nelle persone conosciute, ci formiamo una certa idea abituale, le cui
proporzioni {comparative} bene spesso si mutano, e
crescono o scemano, se per caso vediamo quelle stesse persone senza
riconoscerle, ancorchè le vediamo isolate,
1794 e fuori
della comparazione d'altre stature, la quale cambia assai spesso l'idea delle
proporzioni ec. (26. Sett. 1821.). {{V. p. 1801.}}
[1794,2] Non solo il fanciullo non ha nessun'idea del bello
umano, e ha bisogno dell'assuefazione per acquistarla, ma per perfezionarla, e
gustare tutti i piaceri che può dar la sua vista, è bisogno un'assuefazione
lunga, variata, particolare, e conviene anche per essa divenire intendenti, come
per gustare il bello delle arti, o delle scritture.
1795 Anche per essa, vi bisogna attenzione {{particolare,}} e facoltà generale di attendere, contratta
coll'assuefazione. Il giovane tenuto in stretta custodia, le persone ritirate,
le monache ec. ec. distinguono certo il bello dal brutto, ma il più bello dal
più brutto, se la cosa non è più che notabile, non lo distinguono, non lo
sentono, non hanno nè un giudizio nè un senso fino intorno alla bellezza,
insomma non se intendono. Questo accade anche alle persone di gran talento, di
gran sentimento, ed entusiasmo, se, e finchè si trovano in dette e simili
circostanze, nelle quali quasi tutti si trovano per qualche tempo. Questo accade
alle persone nutrite nella devozione, scrupolose ec. I loro giudizi in questi
particolari sono stranissimi, e forse più strani rispetto al sesso diverso, che
al proprio, appunto per la minore attenzione che v'hanno messo ec. a causa dello
scrupolo. Questo accade agl'ignoranti, rozzi, ec. o sieno villani, o anche delle
classi elevate ec. perchè non hanno l'abito nè quindi la facoltà di attendere
ec. ec. In
1796
{{somma}} non si acquista l'idea della bellezza o
bruttezza umana o qualunque, se non considerando ben bene come gli uomini (o
qualunque oggetto fisico o morale) son fatti. E quindi la bellezza o bruttezza
non dipende che dal puro modo di essere di quel tal genere di cose; il qual modo
non si conosce per idea innata, ma per la sola esperienza, e non si conosce
bene, se non vi si unisce l'attenzione o volontaria, o spontanea ed abituale.
(26. Sett. 1821.)
[1801,2] Una fisonomia di donna che somigli a quella di un
uomo che tu conosci, {+(senza però aver
nulla di virile),} a quella di un vecchio (o vecchia) che tu conosci,
(senza però aver nulla di senile) ti parrà dispiacevole per ciò solo, senza
verun difetto in se stessa. E per
1802 quanto
proccurerai di astrarre dall'idea di quella somiglianza, non potrai mai (senza
qualche circostanza particolare) spogliartene in modo che quella persona ti paia
tale quale pare ad altri o meno attenti ed immaginosi, o ignari affatto di
quella somiglianza. Così dirò di un uomo rispetto alle donne ec. (28.
Sett. 1821.).
[1806,3] Una parola {o frase}
difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare.
Intendo che difficilmente le converrà l'attributo di elegante, non già ch'ella
debba perciò essere inelegante, e che una
1807
scrittura elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo.
Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote
dall'uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e
peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e
convenienza loro colle parole e frasi moderne.
[1832,1] La forza dell'assuefazione della prevenzione,
dell'opinione nel giudizio del bello ec. si può vedere anche negli effetti che
tu provi vedendo una pittura, {udendo una musica,}
leggendo un libro ec. se tu ne conosci l'autore, s'egli t'è familiare ec. La
qual cosa ora accresce le bellezze, ora le scema, ora finge quelle che non ci
sono, o scuopre le più difficili a vedere, e le più fine, e rende sensibilissimi
ad ogni menoma cosa ec. ora nasconde quelle che ci sono, anche le più notabili,
rende incapaci di sentir nulla ec. Intendo di escludere dalla conoscenza ogni
sorta di passione relativa, e considero solamente l'applicare che fa il lettore
{tutto} quello che legge, all'autore ch'egli ben
conosce. Il che spontaneamente e inevitabilmente, quanto
1833 inavvedutamente, modifica il giudizio e il senso, in mille guise
indipendenti dalla propria natura di ciò che si legge o vede o sente ec.
(3. Ott. 1821.).
[1840,1] Non sarebbe fischiato oggidì, non dico in
Francia, ma in qualunque parte del mondo civile, un
poeta, un romanziere ec. che togliesse per argomento la pederastia, o
l'introducesse in qualunque modo; anzi chiunque in una scrittura alquanto nobile
s'ardisse di pur nominarla senza perifrasi? Ora la più polita nazione del mondo,
la Grecia, l'introduceva nella sua mitologia (Ganimede), scriveva elegantissime
poesie su questo soggetto, donna a donna (Saffo), uomo a giovane (Anacreonte) ec. ec. ne faceva argomento di dispute o trattati
rettorici o filosofici (1. ep. greca di Frontone), ne parlava nelle più nobili
storie colla stessissima disinvoltura, con cui si parla degli amori tra uomo e
donna ec. {+Anzi si può dir che tutta la
poesia, la filosofia e la filologia erotica greca versasse
principalmente sulla pederastia, essendo presso i greci troppo volgare e
creduto troppo sensuale, basso, triviale, indegno della poesia ec.
l'amor delle donne, appunto perchè naturale. V. il Fedro, il Convito di Plat.
gli Amori di Luciano ec. Il
vantato amor platonico (sì sublimemente espresso nel
Fedro) non è che pederastia. Tutti i sentimenti
nobili che l'amore inspirava ai greci, tutto il sentimentale loro in
amore, sia nel fatto sia negli scritti, non appartiene ad altro che alla
pederastia, e negli scritti di donne (come nella famosa ode o frammento di Saffo ϕαίνεται ec.) all'amor di
donna verso donna. Basta conoscere un sol tantino la letteratura greca
da Anacr. ai romanzieri, per
non dubitar di questo, come alcuni hanno fatto. (epist. di Filostrato, [Epistolae]
Aristeneto
ec.)} E Virgilio il più circospetto non solo degli antichi poeti, ma di tutti
i poeti, e forse scrittori; certo il più polito ed elegante di quanti mai
scrissero; intendente, gelosissimo, e
1841 modello di
finezza, e d'ogni squisitezza di coltura, in un tempo ec. ec. ridusse {ed applicò} all'infame pederastia il sentimento, e ne
fece il soggetto di una storietta sentimentale
nel suo Niso ed Eurialo. (4. Ott.
1821.).
[1845,1] Moltissime parole si trovano, comuni a più lingue, o
perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate con lei, o perchè venute da
origine comune, le quali parole in una lingua sono eleganti, in
un[un'] altra no; in una affatto nobili anzi
sublimi, in un'altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è
la differenza dell'uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo facilmente
osservare
1846 nella lingua spagnuola, la più affine
alla nostra che esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza non si
trova forse fra due altre lingue colte; non poche parole e frasi {+o significazioni, o metafore ec.}
proprie della sola poesia, che nella nostra son proprie della sola prosa, e
viceversa: parte derivate dalla comune madre di ambe le lingue, parte dalla
italiana alla spagnuola, parte viceversa. Così pure possiamo osservar noi, e
possono pur gli spagnuoli, non poche altre notabilissime differenze di nobiltà
di eleganza di gusto ec. in parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella
medesima significazione. Similmente discorrete dell'inglese e del tedesco, del
francese rispetto alle tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due
sue sorelle ec. del greco ancora rispetto al latino ec. (5. Ott.
1821.).
[1865,1] Perchè si giudica brutta in un paesano tale o tal
parlata, mossa, costume forestiero che in un forestiero parrà graziosa? Perchè
paion bruttissime le donne vestite da uomini, o viceversa, quando paion belle e
graziose
1866 tante snaturatezze ne' vestiari, anzi
s'elle sono alla moda ci par brutto ciò che ne differisce, e bruttissimo ciò che
gli è contrario, cioè il più naturale? Assuefazione opinione, prevenzione.
(7. Ott. 1821.).
[1871,1] Come quel diletto, e quel bello della musica, che
non si può ridurre nè alla significazione, nè a' puri effetti del suono isolato
dall'armonia e melodia, nè alle altre cagioni che altrove ho specificate pp. 1663-66
pp. 1747-49
pp. 1759-60
pp. 1780. sgg. , derivi
unicamente dall'abitudine nostra generale intorno alle armonie, la quale ci fa considerare come
convenienti fra loro quei tali suoni {o tuoni,} quelle
tali gradazioni, quei tali passaggi,
1872 quelle tali
cadenze ec. e come sconvenienti le diverse o contrarie ec. osservate. Le nuove
armonie o melodie (che già si tengono per
rarissime) ordinariamente, anzi sempre, s'elle sono affatto, cioè
veramente nuove, a prima vista paiono discordanze, quantunque sieno secondo le
regole del contrappunto, per lo che ben tosto appresso ne conosciamo e sentiamo
la convenienza, cioè non per altro se non perch'elle sono, e ben presto le
ritroviamo conformi alla nostra assuefazione generale intorno all'armonia e melodia, cioè alle convenienze de'
tuoni, quantunque elle non sieno conformi alle nostre assuefazioni particolari. E quanto più la detta
assuefazione generale è meno estesa, o meno radicata e sensibile e immedesimata
coll'uditore, tanto più vivo è il sentimento di discordanza e disarmonia che
questi prova a prima giunta; e tanto eziandio più durevole, di maniera ch'egli
le giudicherebbe discordanze definitivamente, se l'opinione e la prevenzione che
quelle sieno
1873 poi veramente armonie o melodie, non
glielo impedisse. Tale è il caso del volgo, della gente rozza o non assuefatta a
udir musiche, e proporzionatamente, degli uomini non intendenti di quest'arte. I
quali tutti in udir tali nuove armonie sono dilettati da' soli suoni e dalle
altre cause di diletto che altrove ho spiegato pp. 1663-66
pp. 1747-48
pp. 1759-60
pp. 1780-86 , ma non già
dall'armonia o melodia in quanto armonia e melodia, perocch'essi non la
ravvisano. E però piacciono soprattutto, {{o
più universalmente,}} le
melodie chiamate popolari, cioè conformi particolarmente o generalmente alle
assuefazioni particolari o all'assuefazione generale del comune degli uditori in
fatto di melodie ec. Le armonie o melodie affatto nuove ordinariamente non
piacciono che agl'intendenti, i quali sentono la difficoltà, e le raffrontano
colle regole ch'essi conoscono ec. E questi medesimi provano a primissima giunta
un senso di discordanza, che però presto svanisce, e ch'essi immediatamente
ravvisano per illusorio: ma si può dir che ogni assoluta novità in fatto di
musica contiene e quasi consiste in un'
1874
{apparenza} di stuonazione. Altre armonie e melodie che
non inchiudono quest'apparenza, o non molto viva, e contuttociò si considerano
come nuove, non sono nuove, se non in quanto ad una non usitata combinazione
delle diverse parti di quelle convenienze musicali che l'assuefazione generale o
particolare ci fa riguardar come convenienze. E queste combinazioni quanto meno
si accostano a quello che di sopra ho spiegato per popolare, tanto più piacciono
agl'intendenti, e meno al popolo, e tanto meno hanno di significazione, parlando
però in genere. Di questa natura è una grandissima parte delle giornaliere
novità in fatto di musica, e delle nuove composizioni musicali.
[1881,1] Ho detto pp. 1315-16
pp.
1379-81 che l'amor libidinoso considera più le altre forme che quelle
del viso. Pur è certo che la più sfrenata, invecchiata, ed abituale libidine, è
molto eccitata dalla significazione vivacità ec. {ec.}
degli occhi e del viso, e respinta da un'assoluta bruttezza, insignificazione
ec. di fisonomia. Anzi forse tali eccitamenti son più necessarii all'eccessiva
ed invecchiata libidine che alla mediocre.
[1882,3] Qual differenza fra il vestiario de' nostri
contadini, e il cittadinesco. Eppure perchè siamo avvezzi a vederlo, questa
differenza non ci fa nessun senso, e non ci produce alcuna impressione di
deformità o di ridicolo, come però fa una anche minor differenza di vestire che
si veda in uno straniero
1883 ec. Similmente possiamo
dire de' vestiari ridicolissimi de' nostri frati, preti, monache ec. (10.
Ott. 1821.)
[1883,1] Quanto giova a sentir le bellezze p. e. di una
poesia, o di una pittura ec. il saper ch'ella è famosa e pregiata, ovvero è di
autor già famoso e pregiato! Io sostengo che l'uomo del miglior gusto possibile,
leggendo p. e. una poesia classica, senza saper nulla della sua fama, (il che
può spesso accadere in ordine a cose moderne, o non ancor famose, o non ancor
conosciute da tutti per tali), e leggendola ancora con attenzione, non vi
scoprirebbe, non vi sentirebbe nè riconoscerebbe una terza parte delle bellezze,
non vi proverebbe una terza parte del diletto che vi prova chi la legge come
opera classica, e che potrà poi provarvi egli stesso rileggendola con tale
opinione. Io sostengo che oggi non saremmo così come siamo dilettati {p. e.} dall'Ariosto, se l'Orlando furioso fosse opera scritta e
uscita in luce quest'anno. Dal che segue che il diletto di un'opera di poesia,
1884 di belle arti, eloquenza, ed altre cose
spettanti al bello, cresce in proporzione del tempo e della fama; ed è sempre
(se altre circostanze non ostano) minore in chi ne gode per primo, o fra i
primi, cioè ne' contemporanei, ec. che in chi ne gode dopo un certo tempo.
Sebben la fama universale e durevole, è fondata necessariamente sopra il merito,
nondimeno dopo ch'ella per fortunate circostanze è nata dal merito, serve ad
accrescerlo, e il vantaggio e il diletto di un'opera deriva forse nella massima
parte, non più dal merito, ma dalla fama, e dall'opinione. Noi abbiamo bisogno
di farci delle ragioni di piacere, per provarlo. Il bello in grandissima parte
non è tale, se non perchè tale si stima. Quindi osservate quanta parte abbia la
fortuna nell'esito delle opere umane, e nella fama o nell'oscurità degli uomini.
Essendo certissimo che se oggi uscisse alla luce un'opera poetica di merito
assolutamente uguale o superiore a quello dell'Iliade, lasciando
da parte
1885 l'invidia, le cabale, le superstizioni,
le pedanterie; la sola differenza di prevenzione, differenza inevitabile perchè
Omero è stato tanti secoli prima di
noi, farebbe che il lettore il più di buon gusto e imparziale, provasse
assolutamente e senza confronto maggior diletto, e sentimento di bellezza,
leggendo l'iliade, che leggendo la nuova poesia. Tanto piccola parte del
bello consiste in cose e qualità intrinseche ed inerenti al soggetto, e
indipendenti dalle circostanze, e invariabili; e tanto piccola parte del diletto
che reca il bello, deriva da ragioni costanti, essenziali al soggetto, e comuni
a tutti i soggetti della stessa natura, e a tutti gl'individui e tempi che ne
possono godere. (10. Ott. 1821.).
[1900,2] Non solo l'eleganza, ma la nobiltà la grandezza,
tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso,
consiste, se ben l'osservi, in un modo di parlare indefinito, o non ben
definito, o sempre
1901 meno definito del parlar
prosaico o volgare. Questo è l'effetto dell'esser diviso dal volgo, e questo è
anche il mezzo e il modo di esserlo. Tutto ciò ch'è precisamente definito, potrà
bene aver luogo {talvolta} nel linguaggio poetico,
giacchè non bisogna considerar la sua natura che nell'insieme, ma certo
propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico. Lo stesso effetto e la
stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime,
elevata, magnifica, grandiloquente. La {vera} nobiltà
dello stile prosaico, consiste essa pure {costantemente} in non so che d'indefinito. Tale suol essere la prosa
degli antichi, greci e latini. E v'è non pertanto assai notabile diversità fra
l'indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec.
[1913,2] Ciascuno è in grado di giudicar brevissimamente da
se stesso, se il bello o il brutto possa mai essere assoluto. Consideriamo
astrattamente la bruttezza di un uomo il più brutto del mondo. Che ragione ha
ella in se per esser bruttezza? Se tutti o la maggior parte degli uomini fossero
così fatti, non sarebb'ella bellezza? Così discorro d'ogni altro genere di bello
o di brutto. Come quello ch'è schifoso per noi, non è schifoso per se stesso, e
ad altro genere di esseri, o di animali, può riuscire e riesce
1914 tutto il contrario; come nessun sapore nè odore
ec. è spiacevole o piacevole per se e per essenza, ma accidentalmente; così
nessuna bellezza o bruttezza è tale per se, ma rispetto a noi, ed accidentale, e
non inerente in alcun modo all'essenza del subbietto. (14. Ott.
1821.).
[1914,1] Le persone che nella fanciullezza ci hanno trattati
bene, sono state solite a prestarci dei servigi, ci hanno fatto buona cera, ci
hanno divertiti, ci hanno cagionato dei piaceri colla loro presenza, ci hanno
regalati ec. non ci sono parse mai brutte mentre eravamo in quell'età, per
bruttissime che fossero; anzi tutto l'opposto. E coll'andar del tempo se abbiamo
rettificata quest'idea, non l'abbiamo quasi mai fatto interamente, massime in
ordine al tempo della nostra fanciullezza. Effetto ordinarissimo, che
ciascheduno può notare in se, e raccontare, e sentirselo raccontare, come ho
sentito io le mille volte, con un certo stupore di chi lo raccontava. (14.
Ott. 1821.).
[1915,1]
1915 Una cagione del piacere che produce la semplicità
nelle opere d'arte, o di scrittura, o in tutto ciò che spetta al bello; cagione
universale, e indipendente dall'assuefazione quanto al totale dell'effetto, ed
inerente alla natura del bello semplice; si è il contrasto fra l'artefatto e
l'inartefatto, o la perfetta apparenza dell'inartefatto. Contrasto il quale può
essere 1. tra le altre bellezze e qualità dell'opera, che stante la loro
perfezione, non paiono poter essere inartefatte, e la semplicità o naturalezza
che tutte le veste e le comprende, la quale è, o pare del tutto inartefatta: 2.
fra la stessa natura della semplicità e naturalezza che per se stessa par che
includa lo spontaneo e non artefatto, e il sapere o accorgersi bene (com'è
naturale) ch'essa, malgrado questa perfetta apparenza, è non per tanto
artefatta, e deriva dallo studio. Contrasto il quale produce la meraviglia che
sempre deriva dallo straordinario,
1916 e dall'unione di cose o qualità che paiono
incompatibili ec. Siccom'è il ricercato colla sembianza del non ricercato.
Sottilissime, minutissime, sfuggevolissime sono le cause e la natura de' più
grandi piaceri umani. E la maggior parte di essi si trova in ultima analisi
derivare da quello che non è ordinario, e da ciò appunto, ch'esso non è
ordinario. ec. (14. Ott. 1821.). {+La maraviglia principal fonte di piacere nelle arti
belle, poesia, ec. da che cosa deriva, ed a qual teoria spetta, se non a
quella dello straordinario?}
[1916,1] Molte parole che in una lingua sono triviali e
volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono
ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e
nobilissime ec. trasportandole in un'altra lingua, a causa del pellegrino.
Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell'italiano, voci o
frasi latine. Sarebbe ben poco accorto chi trovandole volgari e dozzinali in
latino, le credesse per ciò tali in italiano. Se in latino sono comuni e plebee,
in italiano possono essere del tutto divise dal volgo e nobilissime.
Elegantemente il Petrarca nel Proemio:
1917
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
[1917,2] Moltissime volte o l'eleganza o la nobiltà (quanto
alla lingua) deriva
1918 dall'uso metaforico delle
parole o frasi, quando anche, come spessissimo e necessariamente accade, il
metaforico appena o punto si ravvisi. Moltissime volte per lo contrario deriva
dalla proprietà delle stesse parole o frasi, quando elle non sono usitate nel
senso proprio, o quando non sono comunemente usitate in nessun modo, o essendo
usitate nella prosa non lo sono nella poesia, o viceversa, o in un genere di
scrittura sì, in altra no, ec. (La precisione sola non può mai produrre nè
eleganza nè nobiltà, nè altro che precisione e angolosità di stile.). {{V. p. 1925. fine.}}
[1921,1] Si può dire che il dilicato in ordine alle forme
{ec.} non consiste in altro che in una
proporzionata e rispettiva piccolezza del tutto o delle parti. E viceversa il
grossolano, o ciò ch'è di mezzo fra il grossolano e il dilicato. La qual
proporzione, la qual piccolezza è determinata dall'assuefazione. La piccolezza
del piede delle Chinesi a noi parrebbe sproporzionata. La natura non entra qui
(come non entra altrove) o non basta a tali determinazioni. La più lunga vita
della donna più grande nei nostri vestiarii d'oggidì è più corta della più corta
vita dell'uomo il più piccolo, o almeno il più mediocre ec. ec.
[1927,1] Molti leggono o vedono le buone e classiche opere di
poesia, di letteratura, d'arti belle ec. che giornalmente vengono alla luce, ma
nessuno le studia, finchè non sono divenute antiche; e studiandole, non vi
proverebbe quel piacere che prova nelle antiche, non vi troverebbe in nessun
modo quelle bellezze ec. Che cosa è questa se non opinione e prevenzione sul
bello? (16. Ott. 1821.).
[1930,2] L'{effetto della}
significazione della fisonomia umana, riconosce anch'esso per sua prima cagione
ed origine l'esperienza e l'assuefazione. Il bambino non sa nulla che cosa
significhi
1931 la più viva e marcata fisonomia, e
quindi in ordine alla di lei significazione, non può provarne verun effetto nè
piacevole nè dispiacevole. Col tempo, e tanto più presto quanto egli è più
disposto naturalmente ad assuefarsi, e disposto o assuefatto ad attendere, e
quindi a confrontare, e a legare i rapporti, egli conosce che l'uomo dabbene, o
l'uomo che gli fa carezze ec. ha, o piglia la tale o tal aria di fisonomia ec. e
appoco appoco si forma le idee delle varie corrispondenze che sono tra il di
fuori e il di dentro degli uomini. Ma vi s'inganna assai più degli uomini,
quantunque, anzi perciò appunto ch'egli è più suscettibile d'impressione nelle
cose sensibili ec. ec. ec.
[1932,1] Un cieco {+(uomo o animale)} è quasi senza espressione (cioè senza nessuna
significazione viva) di fisonomia, nè costante nè momentanea. (16. Ott.
1821.).
[1934,1] Dico che l'effetto della musica spetta
principalmente al suono. Voglio intender questo. Il suono (o canto) senz'armonia
e melodia non ha forza bastante nè durevole anzi non altro che momentanea
sull'animo umano. Ma viceversa l'armonia o melodia senza il suono o canto, e
senza quel tal suono che possa esser musicale, non fa nessun effetto. La musica
dunque consta inseparabilmente di suoni e di armonia, e l'uno senza l'altro non
è musica. Il suono in tanto è musicale in quanto armonico, l'armonia, in quanto
applicata al suono. Sin qui le partite sarebbero uguali. Ma io attribuisco
l'effetto principale al suono perch'esso è propriamente quella
1935 sensazione a cui la natura ha dato quella
miracolosa forza sull'animo umano (come l'ha data agli odori, alla luce, ai
colori); e sebbene egli ha bisogno dell'armonia, nondimeno al primo istante, il
puro suono basta ad aprire e scuotere l'animo umano. Non così la più bella
armonia scompagnata dal suono. Di più se il suono non è gradevole, cioè non è
{di} quelli a cui la natura diede la detta forza,
unito ancora colla più bella armonia, non fa nessun effetto; laddove uno dei
detti suoni gradevoli ec. unito ad un'armonia di poco conto, fa effetti
notabilissimi.
[1937,1] Quando si comincia a gustare una nuova lingua, le
cose che più ci piacciono e ci rendono sapor di eleganza, sono quelle proprietà,
quelle facoltà, modi, forme, metafore, usi di parole o di locuzioni, che si
allontanano dal costume e dalla natura della nostra lingua, senza però esserle
contrarie, e senza discostarsene di troppo. {(Così anche nel pronunziare o nel
sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei
suoni che non sono propri della nostra, o del nostro costume, nel qual
proposito v. la p. 1965.
fine.} (Ecco appunto la natura della grazia: lo
straordinario fino a un certo segno, e in modo ch'egli faccia colpo senza choquer le nostre assuefazioni ec.) {+Questo ci accade nel leggere, nel parlare
nello scrivere quella tal lingua. (In tutti tre i casi però può aver luogo
un'altra sorgente di piacere, cioè l'ambizione o la compiacenza di sapere
intendere o adoperare quelle tali frasi, di parer forestiere a se stesso, di
aver fatto progressi, vinto le difficoltà ec.)} E ciò accade quando
anche in quella lingua o in quel caso, quelle tali forme non sieno per verità
eleganti. E dove noi vediamo una decisa e per noi eccessiva conformità colla
nostra lingua, quivi noi proviamo un senso
1938 di
trivialità ed iẽleganza[ineleganza], quando
anche ella sia tutto l'opposto: come alla prima giunta ci accade
nell'elegantissimo Celso, il quale ha
molti modi ed si similissimi all'indole italiana: e così spesso ci accade negli
scrittori latini antichi, o moderni massimamente (perchè questi non hanno in
favor loro la prevenzione, e la certezza che dicono bene.) (17. Ott.
1821.). {{V. p.
1965.}}
[1945,1] Da tutto ciò si rilevi come l'armonia cioè il bello
sia pura opera e creatura
dell'assuefazione tanto che se questa non esiste non esiste neppur l'idea
dell'armonia, neanche dov'ella parrebbe più naturale. (18. Ott.
1821.).
[1982,2] Quello che ho detto altrove pp. 1744-47
pp.
1927-30 degli effetti della luce, del suono, e d'altre tali sensazioni
circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel
naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica,
dalla poesia
1983 ec. Il bello delle quali arti, in
grandissima parte, e più di quello che si crede o si osserva, consiste nella
scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare.
[1987,1] Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono
piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e
tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà
ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di
qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze
d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec.
E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa,
e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza
lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri
1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).
[1991,1] Colui che imita la maniera di parlare, di gestire,
ec. ec. usata da una persona ignota a colei a cui egli l'imita e la descrive,
quando anche l'imitazione sia vivissima, ingegnosissima ec. non produce quasi
nessun {effetto} nè piacere; laddove un'imitazione
assai men viva della stessa cosa, fatta a chi ne conosca bene il soggetto,
riuscirà piacevolissima. Questo serva di regola ai poeti, ai pittori, {ai comici} ec. ec. che esauriscono
1992 la loro vena imitativa (sia pur felicissima) nell'imitar cose
ignote o poco note o niente familiari a' lettori agli spettatori, o al più de'
medesimi. (26. Ott. 1821.).
[2017,1]
2017 La differenza tra il diletto che ci reca il canto,
e quello del suono, e la superiorità di quello su questo, è pure affatto
indipendente dall'armonia. (30. Ott. 1821.).
[2037,2] La semplicità bene spesso non è altro
2038 che quella cosa, quella qualità, quella forma,
quella maniera alla quale noi siamo assuefatti, sia naturale o no. Altra cosa,
forma, ec. benchè assai più semplice in se, o più naturale ec. se non ci par
semplice, perchè ripugna, o è lontana dalle nostre assuefazioni.
[2075,1] Molte volte riescono eleganti delle parole
corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre
incorrotte o meno corrotte, e meno popolari. Per es. commessi in vece di commisi, potrà riuscire
più elegante in una scrittura, benchè sia una pura corruzione di commisi che viene dirittamente dal commisi latino. Ma questa corruzione sebben popolare,
essendo antica, ed avendo cessato oggi di essere in uso frequente, o presso il
popolo, o presso gli scrittori, e trovandosi ne' buoni scrittori antichi, essa
riesce, in una scrittura, elegante perchè fuori dell'ordinario, e più elegante
di commisi (ch'è incorrotto) perciò appunto che questo
è in uso commune, e che nell'uso la parola più antica; e non corrotta ha
prevaluto alla corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere più
antica e meno ordinaria della stessa antica. E quante volte le eleganze non
derivano e non sono altro
2076 che pure corruzioni di
voci, frasi ec. ec. ec. E chi perciò le condannasse, o stimasse più eleganti le
corrispondenti voci o frasi incorrotte, e più regolari, più corrispondenti
all'etimologia ec. non saprebbe che cosa sia eleganza per sua natura. ec.
(9. Nov. 1821.).
[2118,1] Piace l'essere spettatore di cose vigorose ec. ec.
non solo relative agli uomini ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine,
il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva
porta seco nell'uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa
dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino,
al quale un fiume vicino soleva recare grandi danni, dire che nondimeno era un piacere la vista della piena,
quando s'avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo
strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini,
benchè brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella
pittura, nell'eloquenza ec. (18. Nov. 1821.).
[2130,2] Pare sproposito, e pure è certo che una lingua è
tanto più atta alla più squisita eleganza e nobiltà del parlare il più elevato,
e dello stile più sublime, quanto la sua indole è più popolare, quanto ella è
più modellata sulla favella domestica e familiare
2131
e volgare. Lo prova l'esempio della lingua greca e italiana e il contrario
esempio della Francese. La ragione è, che sola una tal lingua è suscettibile di
eleganza, la quale non deriva se non dall'uso peregrino e ardito e figurato e
non logico, delle parole e locuzioni. Ora quest'uso è tutto proprio della
favella popolare, proprio per natura, proprio in tutti i climi e tempi, ma
soprattutto ne' tempi antichi, o in quelle nazioni che più tengono dell'antico,
e ne' climi meridionali. Quindi è che lo stesso esser popolare per indole, dà ad
una lingua la facoltà e la facilità di dividersi totalmente dal volgo e dalla
favella parlata, e di non esser popolare, e di variar tuono a piacer suo, e di
essere energica, nobile, sublime, ricca, bella, tenera ogni
volte[volta] che le piace. Insomma l'indole
popolare di una lingua rinchiude tutte le qualità delle quali una lingua umana
possa esser capace (siccome la natura rinchiude tutte le qualità e facoltà di
cui l'
2132 uomo o il vivente è suscettibile, ossia le
disposizioni a tutte le facoltà possibili); rinchiude il poetico come il logico
e il matematico ec. (siccome la natura rinchiude la ragione): laddove una lingua
d'indole modellata sulla conversazione civile, o sopra qualunque gusto,
andamento ec. linguaggio ec. di convenzione, non rinchiude se non quel tale
linguaggio e non più (siccome la ragione non rinchiude la natura, nè vi dispone
l'uomo, anzi la esclude precisamente), secondo che vediamo infatti nella lingua
latina, e molto più nella francese, proporzionatamente alle circostanze che asservissent e legano quest'ultima al suo modello ec.
molto più che la latina ec. (20. Nov. 1821.).
[2184,1] Non solo l'uomo è opera delle circostanze, in quanto
queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec. ma anche in quanto al
genere, al modo, al gusto di quella tal professione a cui l'assuefazion sola e
le circostanze l'hanno determinato. P. e. io finchè non lessi se non autori
francesi, l'assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale
fosse quello solo, e che là mi conducesse l'inclinazione. Me ne disingannai,
passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il
gusto degli autori ch'io leggeva, variava l'opinione ch'io mi formava circa la
mia propria
2185 inclinazione naturale. E questo anche
in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o
al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver
cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che
simile a quello del Petrarca. Tali
infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi
meno simili, perchè da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi
formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli,
le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si
possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire
2186
originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà
acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di acquisita ripugna
dirittamente al significato e valore del suo nome.) (28. Nov.
1821.).
[2257,2] L'altezza di un edifizio o di una fabbrica qualunque
sì di fuori che di dentro, di un monte ec. è piacevole sempre a vedere, tanto
che si perdona in favor suo anche la sproporzione. Come in una guglia altissima
e sottilissima. Anzi quella stessa sproporzione piace, perchè dà risalto
all'altezza, e ne accresce l'apparenza e l'impressione e la percezione e il
sentimento e il concetto. Ad uno il quale udiva che l'altezza straordinaria di
un certo tempio era ripresa come sproporzionata alla grandezza ec. sentii dire
che se questo era un difetto, era bel difetto, ed appagava e ricreava
2258 l'animo dello spettatore. La causa naturale ed
intrinseca {e metafisica} di questi effetti l'intendi
già bene. (16. Dic. 1821.).
[2361,1] Che vuol dire che l'uomo ama tanto l'imitazione e
l'espressione ec. delle passioni? e più delle più vive? e più l'imitazione la
più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, {ec.} per bella, efficace, elegante, e pienissimamente
imitativa ch'ella sia, se non esprime passione, {+se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente
qualcuna troppo poco viva)} è sempre posposta a quelle che
l'esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non
possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute le infime fra le
belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le
prime per la ragione
2362 contraria. Che vuol dir ciò?
non è dunque la sola verità dell'imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti,
e di essa, che l'uomo desidera, ma la forza, l'energia, che lo metta in
attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L'uomo odia l'inattività, e di
questa vuol esser liberato dalle arti belle. {{Però le
pitture di paesi, gl'idilli ec. ec. saranno sempre d'assai poco effetto; e
così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza
passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e
proporzionatamente della musica. (26. Gen. 1822.).}}
[2415,3] Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima
analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec. del suono delle parole?
Quest'è una bellezza affatto esterna, e della quale poco o nulla si può
convenire, essendo diversissime in questo genere le opinioni e i gusti, secondo
le nazioni e i secoli. Per noi è bruttissimo il suono delle parole orientali, e
per gli orientali altrettanto sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa
intendiamo noi dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che
sentimento, che gusto
2416 ne proviamo noi, se non, per
dir poco, incertissimo, confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia
della lingua nostra, qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed
è sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non avremmo
alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca,
o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e
di modi non si dà se non in una lingua ardita, perchè di forme esatte e
matematiche, tutte le lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè
più nè meno: e questa ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima
per natura sua: giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova
alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa è una qualità quasi
estrinseca, e senza quasi accidentale alla lingua, la quale senza punto punto
alterarsi, o scomporsi in niun
2417 modo può essere ed
è, oggi più abbondante di parole, domani meno, secondo le circostanze nazionali,
commerciali, politiche, scientifiche ec. Infatti la lingua francese è in verità
ricchissima di parole, massime in filosofia, scienze, conversazione,
manifatture, e in ogni uso e materia di società, di commercio ec. ec. e non per
questo è bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La vera e
non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si può
perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una bellezza intrinseca, e
spetta all'indole della lingua; e questa non può consistere in altro che
nell'ardire. Or questo ardire che cos'è, fuorchè la libertà di non essere esatta
e matematica? Giacchè quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne
sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero
uniformi affatto nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà
se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua
non esatta, e non obbligata
2418 alle regole
dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso.
Osservate tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina,
italiana, spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che
ardire, e questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate
anche gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e
paragonateli con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma
ec. chiamata bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non
sia lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè
senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo
stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche tutte le prose
francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica,
2419 anzi contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita,
riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e
poeticissima.)
[2512,2] Dal che si deve abbatter l'errore di quelli che
pretendono che v'abbia principii fissi ed eterni dell'eleganza. {V.
la pag. 2521. sulla
fine.} Non v'ha principio fisso dell'eleganza, se non
questo (o
2513 altro simile) che non si dà eleganza
senza pellegrino. Come non v'ha principio eterno del bello se non che il bello è
convenienza. Ma come è mutabile l'idea della convenienza, così è variabile il
pellegrino, e quindi è variabile l'eleganza reale, effettiva {e concreta,} benchè l'eleganza astratta sia invariabile. Nè purità nè
altra tal qualità delle parole o frasi, sono principii certi ed eterni
dell'eleganza d'esse voci o frasi individue. Ineleganti una volta, divengono poi
eleganti, e poi di nuovo ineleganti, secondo ch'esse sono o non sono pellegrine,
giusta quelle tali condizioni del pellegrino, stabilite di sopra.
[2521,1] Tutte le sopraddette osservazioni, e particolarmente
quelle della pagina 2512. fine-13.
si debbono applicare alla teoria della
grazia derivante da quello ch'è fuor dell'uso. Le cagioni
dell'eleganza delle parole o modi sono eterne, ed eternamente le stesse. Ma
niuna parola o frase ec. {+di niuna
lingua,} è perpetuamente elegante,
2522 per
elegantissima che sia o che sia stata una volta, nè viceversa triviale ec:
neanche durando la stessa indole, genio, spirito, carattere, forma ec. di quella
tal lingua. E non solo niuna parola o modo, ma niun genere o classe di parole o
modi.
[2545,1] Gli uomini semplici e naturali sono molto più
dilettati e trovano molto più grazioso il colto, lo studiato e anche l'affettato
che il semplice e il naturale. Per lo contrario non v'è qualità nè cosa più
graziosa per gli uomini civili e colti che il semplice e il naturale, voci che
nelle nostre lingue e ne' nostri discorsi sono bene spesso sinonime di grazioso,
e confuse con questa, come si confonde la grazia colla naturalezza e semplicità,
credendo che sieno essenzialmente, e per natura, e per se stesse,
2546 qualità graziose. Nel che c'inganniamo. Grazioso
non è altro che lo straordinario in quanto straordinario, appartenente al bello,
dentro i termini della convenienza. Il troppo semplice non è grazioso. Troppo
semplice sarà una cosa per li francesi, e non lo sarà per noi. Lo sarà anche per
noi, e contuttoquesto[con tutto questo] sarà
ancora al di qua del naturale. (Tanto siamo lontani dalla natura, e tanto ella
ci riesce straordinaria). Viceversa dico del civile rispetto ai selvaggi,
naturali, incolti ec. Del resto possiamo vedere anche nelle nostre contadine che
sono molto poco allettate dal semplice e dal naturale, o per lo meno sono tanto
allettate dal nostro modo artefatto, quanto noi dalla loro naturalezza, o reale,
o dipinta ne' poemi ec. (4. Luglio 1822.).
[2546,1] Le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da
Omero βοῶπις (βοώπιδος)
2547 cioè ch'ha occhi di bue.
La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell'uomo.
Nondimeno i greci intendentissimi del bello, non temevano di usar questa
esagerazione in lode delle bellezze donnesche, e di attribuire {e appropriar} questo titolo, come titolo di bellezza,
indipendentemente anche dal resto, e come contenente una bellezza in se,
contuttochè contenga una sproporzione. E in fatti non solo è bellezza per tutti
gli uomini e per tutte le donne (che non sieno, come sono molti, di gusto
barbaro) la grandezza degli occhi, ma anche un certo eccesso di questa
grandezza, se anche si nota come straordinario, e colpisce, e desta il senso
della sconvenienza, non lascia perciò di piacere, e non si chiama bruttezza. E
notate che non così accade dell'altre parti umane alle quali conviene esser
grandi (lascio l'osceno che appartiene ad
2548 altre
ragioni di piacere, diverse dal bello): nè i poeti greci, nè verun altro poeta o
scrittore di buon gusto, ha mai creduto che l'esagerazione della grandezza di
tali altre parti fosse una lode per esse, e un titolo di bellezza, come hanno
fatto relativamente agli occhi. Dalle quali cose deducete
[2568,1] Tutto è arte, e tutto fa l'arte fra gli uomini.
Galanteria, commercio civile, cura de' propri negozi o degli altrui, carriere
pubbliche, amministrazione politica interiore ed esteriore, letteratura; in
tutte queste
2569 cose, e s'altre ve ne sono, riesce
meglio chi v'adopra più arte. In letteratura, (lasciando stare quel che spetta
alla politica letteraria, e al modo di governarsi col mondo letterato) colui che
scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello che trionfa, e che meglio
arriva all'immortalità, sieno pure i suoi pensieri di poco conto, e sieno pure
importantissimi e originalissimi quelli d'un altro che non abbia sufficiente
arte nello scrivere: il quale non riuscirà mai a farsi nome, e ad esser letto
con piacere, e nemmeno a far valutare, e pigliare in considerazione e studio i
suoi pensieri. La natura ha certamente la sua parte, e la sua gran forza; ma
quanta sia la parte e la forza della natura in tutte queste cose,
rispettivamente a quella dell'arte, mi pare che dopo le gran dispute che se ne
son fatte, si possa determinare in questo modo, e precisare
2570 in questi termini. Supposto in due persone ugual grado d'arte,
quella ch'è superiore per natura, riesce certamente meglio dell'{altra} nelle sue imprese. Datemi due persone che
sappiano ugualmente scrivere. Quella che ha più genio, sicuramente trionfa nel
giudizio de' posteri e della verità. Datemi due galanti egualmente bravi nel
mestier loro. Quello ch'è più bello {+(in
parità d'altre circostanze, come ricchezza, fortuna d'ogni genere, comodità
ed occasioni particolari ec.)} soverchia sicuramente l'altro. Ma
ponete un uomo bellissimo senz'arte di trattar le donne; un gran genio senza
scienza o pratica dello scrivere; e dall'altra parte un bruttissimo bene
ammaestrato e pratico della galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed
esercitato nella maniera d'esporre i propri pensieri, questi due si godranno le
donne e la gloria, e quegli altri due staranno indubitatamente a vedere. Dal che
si deduce che in ultima
2571 analisi la forza dell'arte
nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura. Lucano era forse maggior genio di Virgilio, nè perciò resta che sia stato
maggior poeta, e riuscito meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo stimi
nemmeno paragonabile a Virgilio.
[2592,2] Le stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men
belle, secondo che sono più o meno lucide. Così il sole e la luna secondo che
son chiari e nitidi. Questa così detta bellezza non appartiene alla speculazione
del bello, e vuol dir solamente che il lucido, per natura, è dilettevole
all'occhio nostro, e rallegra l'animo ec. ec. (3. Agosto.
1822.).
[2596,1]
2596 Quanta sia l'influenza dell'opinione e
dell'assuefazione anche sui sensi, l'ho notato altrove p. 1733
coll'esempio del gusto, che pur sembra uno de' sensi più difficili ad essere
influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi
ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon
sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch'essi s'avessero) m'era lodato
per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose,
ch'effettivamente secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi
piacciono, ma mi mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti
cibi s'è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente
mia s'è avvezzata a giudicar da se, e s'è venuta rendendo indipendente dal
giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la
sensazione. La qual assuefazione ch'è propria dell'uomo, e ch'è generalissima,
potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste
minuzie, e determina il giudizio
2597 del palato sulle
sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva
essere prima della detta assuefazione. In somma tutto nell'uomo ha bisogno di
formarsi; anche il palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il
giudizio de' fanciulli sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente
al gusto, è incertissimo, {confusissimo} e
imperfettissimo: e ch'essi in moltissimi, anzi nel più de' casi non provano
punto nè il piacere che gli {uomini fatti} provano nel
gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio
i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di
cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch'essi ne provano)
è poco meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa
dell'inesercizio del palato.
[2636,1] Non c'è regola nè idea nè teoria di gusto universale
{ed eterno.} Qual potrebb'ella essere, se non la
natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può immaginare e intendere e
concepire da noi, fuori della natura?) ma qual natura, se non l'umana? Poichè le
cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del cattivo gusto, non sono
considerate se non per rispetto all'uomo. Or non è ella cosa manifestissima, che
la natura dell'uomo si diversifica moltissimo secondo i climi, {secoli,}
costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze fisiche, morali,
politiche, ec. e queste, individuali, nazionali ec. ec.? Resta dunque per tutta
idea e teoria di gusto
2637 universale {ed eterno,} un idea ed una teoria, che comprenda
solamente, e si fondi, e si formi di quei principii che, relativamente al gusto,
si trovano esser comuni a tutti gli uomini, e tenere alla primitiva e immutabile
natura umana. Ma questi principii, dico io che sono pochissimi, ed
applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi di numerosissime e diversissime
conseguenze (siccome lo sono tutti i principii naturali, e veramente elementari,
perchè la natura è semplicissima, pochi principii ha posto, e questi,
infinitamente e diversissimamente {e anche contrariamente} modificabili): {
Contrariamente. Non si trovano
forse mille contrarietà fra le indoli, opinioni, costumi, di diversi tempi,
nazioni, climi, individui, popoli civili fra loro, e rispetto ai non civili,
e questi fra se medesimi, ec.? Pur tutti hanno i medesimi principii
elementari costituenti la natura umana.} dal che segue che questa idea
e questa teoria d'un gusto che sia veramente universale {ed
eterno,} si riduce a pochissime regole, ed è infinitamente meno
circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e lascia luogo a
infiniti
2638 gusti diversissimi ed anche contrarii fra
loro (che noi riproviamo, e perchè ripugnano al gusto nostro o individuale o
nazionale, {e questo forse momentaneo,} li crediamo, al
nostro solito, contrarii all'universale ed eterno): anzi non solo lascia loro
luogo, ma li produce, non meno che quello ch'a noi pare il solo vero buon gusto
ec. (13. Ott. 1822.).
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2661,2]
E pensatamente io
chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion
della lingua, ma dal più ordinario modo de' parlatori presenti.
Imperocchè ciò che fu figura in un tempo,
2662
non riman poi figura quando è sì accomunato dall'uso, che divien la più
trivial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi
dall'arbitrio degli uomini, tanto nell'introdursi, quanto
nell'alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori, come alcun
pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria
dell'Uso ha prescritte.
*
Trattato dello stile e del dialogo
del Padre Sforza Pallavicino
della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p.
22. (26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.)
[2682,1]
2682 Grazia dal contrasto. {Conte}
Baldessar Castiglione, Il Libro del Cortegiano. lib. 1.
Milano, dalla Società tipogr. de' Classici
italiani, 1803. vol. 1. p. 43-4. Ma avendo io già più
volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle
stelle l'hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer
circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che
alcuna altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e
pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola,
usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte, e
dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza
pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè delle cose rare, e ben fatte ognun
sa
*
{+(p. 44. dell'edizione)}
la
difficultà, onde in
esse
la facilità
genera grandissima maraviglia; e per lo
contrario, lo sforzare, e, come si dice, tirar per i capegli, dà somma
disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si
sia.
*
(Roma 14. Marzo. 1823. secondo Venerdì di
Marzo.).
[2725,1] Per quanto voglia farsi, non si speri mai che le
opere degli scienziati si scrivano in bella lingua, elegantemente e in buono
stile {(con arte di stile.)}
Chiunque si è veramente formato un buono stile, sa che immensa fatica gli è
costato l'acquisto di quest'abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo
studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò,
quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi
inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima
assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello
scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e
finalmente l'arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta
difficoltà
2726 è giunto a riconoscere e sentire ne'
grandi maestri, {{arte}} difficilissima ad acquistare, e
che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensì
la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza
l'arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la
loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi,
come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far questo
si richiede un'arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l'uomo, e
tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli scienziati si
assoggettino a questi studi e fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo
tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro
assolutamente il tempo necessario per un'arte che domanda più tempo d'ogni
altra? Oltre di ciò i più perfetti possessori di quest'arte, dopo le
2727 lunghissime fatiche spese per acquistarla, non
sono mai padroni di metterla in opera senza che lo stesso adoperarla riesca loro
faticosissimo e lunghissimo, perchè certo neppure i grandi maestri scrivono bene
senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime
ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale
è tanto indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l'arte di bene
scrivere?
[2834,1] Dovunque non cade bellezza, non cade grazia. Dico
relativamente agli uomini, perchè bellezza e bruttezza cade in qualsivoglia
cosa, ma gli uomini non ne giudicano, e non ne ricevono il senso se non in
certe. E in queste sole, dov'essi possono ricevere il senso della bellezza,
possono anche ricever quello della grazia e concepirla. E viceversa similmente,
dovunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che l'una non possa esser senza
l'altra. Ma quel genere ch'è capace dell'una è capace dell'altra. E per
bellezza, intendo quella ch'è propriamente e filosoficamente
2835 tale, cioè quella ch'è convenienza, {non
l'altre impropriamente chiamate bellezze.}
(27. Giugno 1823.)
[2831,1] Grazia dallo straordinario e dal contrasto. Spesse
volte la grazia {o} delle forme o delle maniere deriva
da una bellezza e convenienza nelle cui parti non esiste veramente nessun
contrasto, ma che però risulta da certe parti che non sogliono armonizzare e
convenire insieme, benchè in questa tal bellezza e in questo tal caso
convengano; ovvero da parti che non sogliono trovarsi riunite insieme, benchè
trovandosi, sempre armonizzino: onde essa bellezza è diversa dalle ordinarie,
benchè sia vera bellezza, cioè intera convenienza ed armonia. In tal caso il
contrasto
2832 è estrinseco ed accidentale, non
intrinseco: in tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza, ma non
dalla bellezza in quanto bellezza, bensì in quanto bellezza non ordinaria, e di
genere diversa dalle altre: così che la grazia anche in questo caso deriva dal
contrasto, non delle parti componenti il bello, ma del tutto, cioè di questo tal
bello, col bello ordinario; e dalla sorpresa che l'uomo prova vedendo {o sentendo} una bellezza diversa da quella ch'egli suole
considerar come tale, il che produce in lui un contrasto colle sue idee. Questo
caso da cui nasce la grazia, non è raro. Tutte quelle fisonomie, o quelle forme
di persona, perfettamente armonizzanti, e con tutto ciò non ordinarie, o nelle
quali non si suol trovare armonia, o in somma di genere diverso {dal più delle} fisonomie e forme belle, sono per qualche
parte graziose. E il caso è più frequente e più facile nelle maniere, le quali
ammettono più varietà che le forme materiali e naturali, e possono armonizzare
in molti più modi che le dette forme.
[2960,1] Supponete un cieco nato al quale una felice
operazione, nella sua età già matura o adulta, doni improvvisamente la vista.
Domandategli o considerate i suoi giudizi (dico giudizi e non sensazioni, le
quali non appartengono alla considerazione del bello esattamente e
filosoficamente inteso) circa il bello materiale o il brutto materiale degli
oggetti visibili che si presentano a' suoi occhi. E voi vedrete se questi
giudizi sono conformi al giudizio che generalmente si suol fare di quegli
oggetti sotto il rapporto del bello; o se piuttosto essi non sono difformissimi
o contrarissimi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delicatezze, ma nelle
parti e nelle cose più sostanziali. Di ciò non mancano esperienze
2961 effettive e prove di fatto, perchè la circostanza
ch'io ho supposta non manca di esempi reali.
[2962,1] Il fanciullo, il cieco nato che abbia
improvvisamente acquistato la vista, e tutti gli uomini di qualunque nazione,
tempo, costume, gusto, opinione, considera la gioventù come bella in se più
della vecchiezza. La gioventù quanto a se par bella a tutti assolutamente. Essa
è per tutti una qualità bella {+(sì {considerata} negli uomini che negli animali per la
più parte, e così nelle piante, e nel più delle specie che ne sono
partecipi)} ec. Questo consenso universale non prova punto che v'abbia
una qualità essenzialmente e assolutamente bella per se medesima, o necessaria
alla composizione del bello in nessun
2963 genere di
cose (giacchè la convenienza non è una qualità che componga il bello, una parte
che entri nella composizione del bello; ma il bello consiste in essa, essa è il
bello, e viceversa il bello è convenienza e non altro).
[3047,1] La forza, l'originalità, l'abbondanza, la sublimità,
ed anche la nobiltà dello stile possono, certo in gran parte, venire dalla
natura, dall'ingegno dall'educazione, o col favore di queste acquistarsene {{in breve}} l'abito, ed acquistato, senza grandissima
fatica metterlo in opera. La chiarezza e (massime a' dì nostri) la semplicità
(intendo quella ch'è quasi uno colla naturalezza {e il
contrario dell'affettazione sensibile,} di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia
materia e stile e composizione, come ho spiegato altrove pp. 1411. sgg. ), la chiarezza e la
semplicità (e quindi eziandio la grazia che senza di queste non può stare, e che
in esse per gran parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la
semplicità, quei pregi fondamentali d'ogni qualunque scrittura, quelle qualità
indispensabili anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a nulla
valgono, e colle quali niuna scrittura, benchè niun'altra dote abbia, è mai
dispregevole, sono tutta e per tutto opera {{dono ed
effetto}} dell'
3048 arte. Le qualità dove
l'arte dee meno apparire, che paiono le più naturali, che debbono infatti parere
le più spontanee, che paiono le più facili, che debbono altresì parer conseguite
con somma facilità, l'una delle quali si può dir che appunto consista nel
nascondere intieramente l'arte, e nella niuna apparenza d'artifizioso e di
travagliato; esse sono appunto le figlie dell'arte sola, quelle che non si
conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne l'abito, le
ultime che si conseguiscano, e tali che acquistatone l'abito, non si può
tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza
dello scrittore nel comporre, toglie al suo scrivere, in quanto ella si estende,
la semplicità e la chiarezza, perchè queste non sono mai altro che il frutto
dell'arte, siccome abituale, così ancora attuale; perchè la natura non le
insegna mai, non le dona ad alcuno; perchè non è possibile
ch'ella[elle] vengano mai da se, chi non le
cerca, nè che veruna parte
3049 di veruna scrittura
riesca mai chiara nè semplice per altro che per espresso {artifizio} e diligenza posta dallo scrittore a farla riuscir tale. E
togliendo immancabilmente la chiarezza e la semplicità, ogni minima negligenza
dello scrittore inevitabilmente danneggia, e in quella tal parte distrugge sì la
bellezza sì la bontà di qualsivoglia scrittura. Perocchè la semplicità e la
chiarezza sono {{parti}} così fondamentali ed essenziali
della bellezza e bontà degli scritti, ch'elle debbono esser continue, nè mai per
niuna ragione (se non per ischerzo o cosa tale) elle non debbono essere
intermesse, nè mancare a veruna, benchè piccola, parte del componimento. La
forza, la sublimità, l'abbondanza o la brevità e rapidità, lo splendore, la
nobiltà medesima, si possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella
scrittura; elle possono, anzi debbono avere quando il più quando il meno, sì
dentro una medesima, come in diverse composizioni e generi; elle possono esser
differenti da se medesime, secondo le scritture, e le parti e circostanze
3050 e occasioni di queste, anzi elle {nè deggiono nè} possono altrimenti. Ma la chiarezza e la
semplicità non denno aver mai nè il più nè il meno; in qualsivoglia genere di
scrittura, in qualsivoglia stile, in qualsivoglia parte di qualsiasi
componimento, elle, non solo non hanno a mancar mai pur un attimo, ma denno
sempre e dovunque e appresso ogni scrittore esser le medesime in quanto a se
(benchè con diversi mezzi si possono proccurare, e dar loro diversi aspetti e
diverse circostanze), sempre della medesima quantità, per così dire, e sempre
uguali a se stesse nell'esser di chiarezza e semplicità, e nell'intensione di
questo essere. (26. Luglio. 1823. dì di Sant'Anna.).
[3050,1] È ben difficile scrivere in fretta con chiarezza e
semplicità; più difficile che con efficacia veemenza, copia, ed anche con
magnificenza di stile. Nondimeno la fretta può stare colla diligenza. La
semplicità e chiarezza {se} può star colla fretta, non
può certo star colla negligenza. È bellissima nelle scritture un'apparenza di
trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono, una quasi noncuranza.
3051 Questa è una delle specie della semplicità. Anzi
la semplicità più o meno è sempre un'apparenza di sprezzatura (benchè per le
diverse qualità ch'ella può avere, non sempre ella produca nel lettore il
sentimento di questa sprezzatura come principale e caratteristico) perocch'ella
{sempre} consiste nel nascondere affatto l'arte, la
fatica, e la ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai dalla vera
trascuratezza, anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e
studio. Quando la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger lo
scritto, è quello dello stento, della fatica, dell'arte, della ricercatezza,
della difficoltà. Perocchè la facilità che si dee sentir nelle scritture è la
qualità più difficile ad esser loro comunicata. Nè senza stento grandissimo si
consegue nè l'abito nè l'atto di comunicarla loro. (27. Luglio.
1823.).
[3084,1] La delicatezza, p. e. la delicatezza delle forme del
corpo umano, è per noi una parte o qualità essenziale e indispensabile del bello
ideale rispetto all'uomo, {Puoi vedere la
pag. 3248-50.} sì
quanto al vivo, sì quanto alla imitazione che ne fa qualsivoglia
3085 arte, la poesia ec. Ora egli è tutto il contrario
in natura. Perciocchè la delicatezza, non solo relativamente, cioè quella tal
delicatezza che la nostra imaginazione e il nostro concetto del bello esige
nelle forme umane, e quel tal grado e misura ch'esso concetto n'esige, ma la
delicatezza assolutamente, è per natura, brutta nelle forme umane, cioè
sconveniente a esse forme. Giacchè l'uomo per natura doveva essere, e l'uomo
naturale è tutto il contrario che delicato di forme. Anzi rozzissimo e
robustissimo, come quello che dalla necessità di provvedere a' suoi bisogni
giornalmente, è costretto alla continua fatica, e dal sole e dalle intemperie
degli elementi è abbronzato e irruvidito. E la delicatezza gli nuocerebbe; onde
s'egli pur {accidentalmente} sortisce una persona
delicata dalla nascita, questo è un male e un difetto fisico per lui, e quindi
una sconvenienza e bruttezza fisica,
3086 come lo sono
tanti altri difetti corporali che sì l'uomo naturale come il civile (e così gli
altri animali e vegetabili) si porta dalla nascita, non per legge e per regola
generale della natura umana, ma per circostanze irregolari e per accidente
individuale o familiare o nazionale ec. Per le quali cose è certissimo che
nell'idea che l'uomo naturale si forma della bellezza fisica della sua specie,
non entra per nulla la delicatezza, la quale per tutte le nazioni civili in
tutti i secoli fu ed è indispensabile parte di tale idea. Anzi per lo contrario
è certissimo che la delicatezza per l'uomo naturale entra nell'idea della
bruttezza umana fisica. Che se l'uomo naturale non esigerà nelle forme feminili
tanta rozzezza quanta nelle maschili, non sarà già ch'egli vi esiga la
delicatezza, nè anche ch'egli concepisca per niun modo la delicatezza come bella
nel sesso femminile; anzi per lo contrario egli esigerà
3087 nelle forme donnesche tanta robustezza quanta è compatibile colla
natura di quel sesso, e tanto più belle stimerà quelle forme quanto più
mostreranno di robustezza senza uscir della proporzione del sesso. E se la
robustezza uscirà di tal proporzione, ei la condannerà, non come opposta alla
delicatezza, quasi che la delicatezza fosse parte del bello, ma senza niuna
relazione alla delicatezza, la condannerà come sproporzionata e fuor
dell'ordinario in quel sesso. Laddove per lo contrario le nazioni civili esigono
nelle forme donnesche tanta delicatezza quanta possa non uscir della
proporzione, e piuttosto ne lodano l'eccesso che il difetto. E quando ne
condannano l'eccesso, lo condannano solo in quanto eccesso, non in quanto di
delicatezza, {+nè in quanto opposto alla
grossezza e rozzezza}; laddove l'uomo naturale condannando la
soverchia robustezza non la condanna come robustezza, ma come soverchia secondo
le proporzioni ch'egli osserva nel generale.
[3090,1] Come le forme dell'uomo naturale da quelle dell'uomo
civile, così quelle di una nazione selvaggia differiscono da quelle di un'altra,
quelle di una nazione civile da quelle di un'altra; quelle di un secolo da
quelle di un altro, per varietà di circostanze fisiche naturali o provenienti
dall'uomo stesso; e (per non andar fino alle famiglie e agl'individui) è cosa
osservata {e naturale} che {gli
uomini dediti alle} varie professioni materiali (senza parlar delle
morali, che influiscono sulla fisonomia, dei caratteri e costumi acquisiti,
3091 che pur sommamente v'influiscono, e la
diversificano in uno stesso individuo in diversi tempi) ricevono dall'esercizio
di quelle professioni certe differenze di forme, ciascuno secondo la qualità del
mestiere ch'esercita {+e secondo le parti
del corpo che in esso mestiere più s'adoprano o più restano
inoperose,} così notabili che l'attento osservatore, e in molti casi
senza grande osservazione, può facilmente riconoscere il mestiere di una tal
persona sconosciuta ch'ei vegga per la prima volta, solamente notando certe
particolarità delle sue forme. Così si può riconoscere l'agricoltore, il
legnaiuolo, il calzolaio, anche senz'altre circostanze che lo scuoprano.
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}
[3191,2] All'amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle
sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel
discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a
loro una idea vivace, o per la vivacità dell'azione o del soggetto qualunque
ch'elle significano (come spaccare), o perchè
vivamente rappresentano all'immaginativa questa
3192
medesima azione o soggetto, qualunque siasi la cagione perch'esse vivamente lo
rappresentino (come spaccare più vivamente rappresenta
l'azione significata, e desta un'idea più viva che fendere per varie ragioni che ora non accade specificare, e lungo
sarebbe il farlo), o perchè di un'azione o di un soggetto non vivace, ne destano
però una viva e presente idea. (18. Agosto. 1823.).
[3206,1] Dimostrato che nell'idea del bello non convengono nè
gli uomini naturali fra loro, nè gli spiriti incorrotti e semplici come quelli
de' fanciulli, e quindi ch'essa idea non si trova una in natura; e che
d'altronde gli uomini colti, savi, esercitati, profondi;
3207 gli artisti medesimi e i poeti ec. disconvengono circa il bello,
ed anche in cose essenziali, più o meno, secondo la differenza delle nazioni,
climi, opinioni, assuefazioni, costumi, generi di vita, secoli; disconvengono,
dico, eziandio bene spesso dove credono di convenire (perocchè tra loro non
s'intendono); disconvengono tra loro, e dai fanciulli, e dagli uomini o naturali
o ignoranti; e che tali differenze circa l'idea del bello, si trovano fra
individuo e individuo in una stessa nazione, si trovano in un medesimo individuo
in diverse età e circostanze, si trovano, e costantemente, fra nazione e
nazione, clima e clima, secolo e secolo, civili e non civili; si trovano fra
barbari e barbari, dotti e dotti, ignoranti e ignoranti, selvaggi e selvaggi,
colti e colti, {+più e men barbari, più e
men civili,} fanciulli e fanciulli, adulti e adulti, intendenti e
intendenti, artisti ed artisti, speculatori e speculatori, filosofi e filosofi;
dimostrato, dico, tutto questo, come ho già fatto in molti luoghi pp. 1183. sgg.
pp.
1367-68
pp.
1413. sgg., viene a esser provato che il bello ideale, unico, eterno,
immutabile, universale, è una chimera, poichè nè la natura l'insegna o lo
mostra, nè i filosofi o gli artisti l'hanno mai scoperto o lo scuoprono, a forza
di osservazioni
3208 e di cognizioni, come si sono
scoperte e si scuoprono le altre idee stabili e invariabili appartenenti alle
scienze del vero ec. ec. (20. Agosto. 1823.).
[3208,1] Che quello che nella musica è melodia, cioè
l'armonia successiva de' tuoni, o vogliamo dire l'armonia nella successione de'
tuoni, sia determinata, come qualsivoglia altra armonia ovver convenienza
dall'assuefazione, o da leggi arbitrarie; osservisi che le melodie musicali non
dilettano i non intendenti, se non quanto la successione o successiva
collegazione de' tuoni in esse, è tale, che il nostro orecchio vi sia
assuefatto; cioè in quanto esse melodie o sono del tutto popolari, sicchè il
popolo, udendone il principio, ne indovina il mezzo e il fine e tutto
l'andamento, o s'accostano al popolare, o hanno alcuna parte popolare che al
popolare si accosti. Nè altro è nelle melodie musicali il popolare, se non se
una successione di tuoni alla quale gli orecchi del popolo, o degli uditori
generalmente, siano per qualche modo assuefatti. E non per altra cagione riesce
universalmente grata la musica di Rossini, se non perchè
3209 le sue melodie o
sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più
di quelle degli altri compositori si accostano a quelle successioni di tuoni che
il popolo generalmente conosce ed alle quali {esso} è
assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più
simili che dagli altri compositori non s'usa, al popolare. E siccome le
assuefazioni del popolo e dei non intendenti di musica, circa le varie
successioni de' tuoni, non hanno regola determinata {e sono
diverse in diversi luoghi e tempi,} quindi accade che tali melodie
popolari o simili al popolare, altrove piacciano più, altrove meno, ad altri
più, ad altri meno, secondo ch'elle agli uditori riescono o troppo note e
usitate; o troppo poco; o quanto conviene, colla competente novità che lasci
però luogo all'assuefazione di far sentire in quelle successioni di tuoni la
melodia, la qual dall'assuefazione degli orecchi è determinata. Onde una
medesima melodia musicale piacerà più ad uno che ad altro individuo, più in
3210 una che in altra città, piacerà universalmente in
italia, o piacerà al popolo e non agl'intendenti, e
trasportata in Francia o in
Germania, non piacerà punto ad alcuno, o piacerà
agl'intendenti e non al popolo; secondo che le assuefazioni di ciascheduno
orecchio {+circa le successioni de'
tuoni,} saranno più o meno o nulla conformi o affini agli elementi
{o membri (μέλη)} che comporranno essa melodia,
ovvero a quello che si chiama il motivo.
[3247,1]
3247 È cosa nota che le favelle degli uomini variano
secondo i climi. Cosa osservata dev'essere altresì che le differenze de'
caratteri delle favelle corrispondono alle differenze de' caratteri delle
pronunzie ossia del suono di ciascuna favella generalmente considerato: onde una
lingua di suono aspro ha un carattere e un genio austero, una lingua di suono
dolce ha un carattere e un genio molle e delicato; una lingua ancora rozza ha e
pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi, raddolcendosi e ripulendosi il
carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi, divenendo regolare, e
perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e raddolcisce e mitigasi e si
ammollisce eziandio la generale pronunzia ed il suono. Dev'esser parimente
osservato, che siccome il carattere della lingua al carattere della pronunzia,
così i caratteri delle pronunzie corrispondono alle nature dei climi, e quindi
alle qualità fisiche degli uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità
morali che dalle fisiche procedono e lor corrispondono. Onde ne' climi
settentrionali, dove gli uomini indurati dal freddo, da' patimenti, e dalle
fatiche di provvedere a' propri bisogni in terre
3248
naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo, e fortificati ancora dalla fredda
temperatura dell'aria, sono più che altrove robusti di corpo, e coraggiosi
d'animo, e pronti di mano, le pronunzie sono più che altrove forti ed energiche,
e richiedono un grande spirito, siccome è quella della lingua tedesca piena
d'aspirazioni, e che a pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant'altri
può avere in petto, onde a noi italiani, udendola da' nazionali, par ch'e'
facciano grande fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo
contrario accade nelle lingue de' climi meridionali, dove gli uomini sono per
natura molli e inchinati alla pigrizia e all'oziosità, e d'animo dolce, e vago
de' piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond'egli è proprio
carattere della pronunzia non meno che della lingua p. e. tedesca, la forza, e
dell'italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue queste proprietà
rispettive dell'una lingua all'altra, ne segue che anche assolutamente, e
considerando ciascuna lingua da {se} nella lingua p. e.
italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza,
3249
onde lo scrittore {o il parlatore} italiano appo cui la
lingua {+(sia nello stile, sia nella
combinazione delle voci, sia nella pronunzia)} è più delicata e più
dolce che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità non passino i
confini che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia per rispetto
alla stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia trattata), più si loda
che gli altri {italiani}, appunto perocchè la lingua
italiana nella dolcezza e delicatezza avanza l'altre lingue. Ma per lo contrario
fra' tedeschi dovrà maggiormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui la
lingua riesca più forte che appo gli altri tedeschi, perocchè la lingua tedesca
supera l'altre nella forza, e suo carattere è la forza, non la dolcezza: nè la
dolcezza è pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa,
considerandola rispetto alle {altre} lingue, è qualità
non pregio, e nello scrittore o parlatore italiano è pregio, non in quanto
dolcezza, ma in quanto propria e caratteristica della lingua italiana. Così
civilizzandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di
corpo, divenne altresì pregio negl'individui umani la maggior
3250 delicatezza delle forme, non perchè la delicatezza sia pregio per
se; che anzi la rispettiva delicatezza delle forme era certamente biasimo, e
tenuto per difetto, o per {causa di} minor pregio {d'esse forme,} appo gli uomini primitivi; ma solo perchè
la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della natura, e contro il vero ben
essere e il destino dell'umana vita, è fatta propria e caratteristica delle
nazioni e persone civili. {#1. Puoi vedere le pagg. 3084-90.}
Laonde ben s'ingannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Staël
nell'Alemagna) che cercarono di
raddolcire la loro lingua, credendo farsi {tanto più}
pregevoli degli altri {tedeschi} quanto più dolcemente
di loro la parlassero e scrivessero, e che la dolcezza, proccurandola alla
lingua tedesca, le avesse ad esser pregio, contro la natura, e contro il
carattere della lingua, il quale è la forza, e tanta forza richiede nello
scrittore e nel parlatore, quanta possa non varcare i confini prescritti dalla
qualità d'essa lingua, e da quella delle particolari materie in essa trattate;
ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come vizio nella lingua
tedesca e non pregio, perchè opposta alla sua natura.
[3313,1] Circa quello che ho detto altrove della melodia pp.
3208. sgg., basti il tenere che il principio, l'origine prima, il
fondamento, ossia la ragione originale del perchè qualsivoglia successione
melodiosa di tuoni, sia melodiosa, cioè armonica successivamente; o vogliamo
dire la prima fonte {e ragione} della convenienza
scambievole de' tuoni nella successione, {non fu} e non
è quasi altro che l'assuefazion solamente, la quale bensì è suscettibile di
ampliazione, di modificazioni infinite e variazioni, di applicazioni
diversissime, di diversissime combinazioni delle sue parti; cose tutte che hanno
infatti avuto ed hanno continuamente luogo nella musica e nelle composizioni del
Musico, il cui uffizio non è originariamente {e
principalmente} altro che il far buon uso delle assuefazioni generali
circa l'armonia, cioè la convenienza, successiva o simultanea delle note delle
corde, {degli stromenti, voci ec.} ec. servata la
proporzione {{scambievole}} degl'intervalli, ossia del
tempo. Ben può il Musico modificare in assaissime guise queste assuefazioni, ma
dee però sempre riconoscerle
3314 e seguirle e in loro
mirare, come fondamento e ragione dell'arte sua. (31. Agosto. Domenica.
1823.).
[3364,1]
3364 Il subito passaggio dal grave, serio, lento,
malinconico, {passionato, raccolto} e, come si dice,
dall'adagio (s'io non m'inganno) all'allegro, all'accelerato, {+al dissipato, all'étourdi ec.} ec. tanto usitato nella nostra musica, anzi
proprio di quasi tutte le nostre arie ec., non solo non ha fondamento alcuno
nella natura, ma anzi è generalmente contrarissimo alla natura, nella quale
niente v'ha di subitaneo, e molto manco il passaggio da' contrarii ne'
contrarii. {+Oltre che, astraendo pure
dal subitaneo, l'allegro nuoce al passionato, spegne o raffredda la passione
negli animi degli uditori, contrasta bruttamente con quello che precedette;
l'effetto dell'una parte della melodia nuoce, contrasta, distrugge quello
dell'altra; è inverisimile che un malinconico parli in tuono allegro, un
passionato in tuono dissipato, e si abbandoni al gaio, allo scherzevole,
all'insouciant, al pazzeggiare ec. ec.}
Nondimeno l'assuefazione che chiunque ha udito musica, deve tra noi aver fatto a
questi tali passaggi, ce li fa parer convenientissimi, ce li fa aspettare come
naturali, come richiesti dalla melodia ec. precedente, come dovuti, come proprii
assolutamente della composizione musicale; fa che il nostro orecchio li
richiegga come spontaneamente e naturalmente (e così è infatti, perchè
l'assuefazione è seconda natura); anzi, mancando {essi,} ci fa considerar questa mancanza come sconvenienza; fa che il
nostro orecchio desideri alcuna cosa, non resti soddisfatto, anzi resti come choqué e révolté della
mancanza, deluso spiacevolmente dell'aspettativa; insomma fa che tal mancamento
3365 produca il senso e il giudizio
dell'imperfetto, del mutilo, del disavvenevole, e quindi del disaggradevole, e
quindi del brutto musicale. (5. Sett. 1823.) Dunque l'idea del
contrario del brutto, cioè del bello e della convenienza musicale, dipende ed è
determinata dall'assuefazione, tanto che se questa è, non solo non naturale, ma
contraria alla natura, anche quel bello e quella convenienza, cioè l'idea che
noi n'abbiamo è, non solo oltre natura, e non fondata sulla natura, {nè prodotta dalla natura,} ma contro natura. (6.
Sett. 1823.). {Il detto
passaggio è direttamente contrario all'imitazione, che dev'essere
l'immediato scopo e l'ufficio della musica, come dell'altre belle arti e
della poesia, che dovrebb'essere inseparabile dalla musica (e così
viceversa), e tutt'una cosa con essa ec. Di ciò dico altrove p. 3228.}
[3421,1] Che i miracoli della musica, la sua natural forza sui
nostri affetti, il piacere ch'ella
3422 naturalmente ci
reca, la sua virtù di svegliar l'entusiasmo e l'immaginazione, ec. consista e
sia propria principalmente del suono o della voce, in quanto suono o voce grata,
e dell'armonia de' suoni e delle voci, in quanto mescolanza di suoni e voci
naturalmente grata agli orecchi; e non già della melodia; e che conseguentemente
il principale della musica e la considerazione de' suoi effetti non appartenga
alla teoria del bello proprio, più di quello che v'appartenga la considerazione
degli odori, sapori, colori assoluti ec., perocchè il diletto della musica,
quanto alla principale e più essenziale sua parte, non risulta dalla
convenienza; veggasi in questo, che non v'ha così misera melodia che
perfettamente eseguita da un istrumento o da una voce gratissima non diletti
assaissimo; nè v'ha per lo contrario così bella melodia ch'eseguita p. e. con
bacchette su d'una tavola, {+o su di più
tavole che rispondano a' diversi tuoni,} o in qualsivoglia istrumento
o voce ingratissima o niente grata, rechi quasi diletto alcuno, e ciò quando
anche ella sia eseguita perfettamente rispetto a
3423
se stessa. E ben gli uomini si sono potuti accorgere delle suenunciate verità in
questi ultimi tempi, ne' quali, per quello che se n'è detto, la sorprendente
voce della Catalani ha rinnovato quasi
negli uditori i miracolosi effetti della musica antica. Certo questi effetti non
nascevano nè principalmente nè essenzialmente nè quasi in parte alcuna dalle
melodie. Le quali, oltre che da mille altri potevano esser cantate, si sa poi
ch'erano delle più triviali ed insipide. Tutto il diletto era dunque originato
dalla voce della cantante, cioè dalle qualità d'essa voce che piacciono
naturalmente agli orecchi umani, tutte indipendenti dalla convenienza:
straordinaria dolcezza, flessibilità, rapidità, estensione ec. {+1. voce canora, sonora, chiara, pura,
penetrante, oscillante, tintinnante, simile alle corde o ad altro istrumento
musicale artefatto ec. ec.}
[3427,1] Delicatezza considerata presso le nazioni civili
come parte assolutamente del bello. Statue greche umane. L'Apollo, il Mercurio (già Antinoo), il
Meleagro ec. - In tutte queste le
forme hanno della donna - Tale si è il carattere delle statue greche, {+quanto alle forme umane,} e delle
sculture e scuole di là provenute antiche e moderne. - Tra le statue di
roma, tu ravvisi subito una fattura greca al donnesco
delle forme - {+Così Canova -} Il bello delle forme umane consiste
dunque nell'inclinare e partecipare al donnesco - Possiamo noi {credere} che le forme umane, secondo natura, le più
perfette, fossero o sieno di questa sorta? che di questa sorta sia il bello
umano concepito da' primitivi selvaggi ec.? e non anzi l'opposto? che
l'intenzione della natura sia tale riguardo all'uomo, cioè ch'essendo perfetto,
(e ciò vuol dire quale ei dev'essere), abbia del donnesco, e non ne sia anzi
remotissimo? - Chi s'è mai avvisato tra' civili di pigliar le forme d'Ercole per modello di bellezza d'uomo?
ma nol sarebbero esse veramente
3428 in natura? e
tuttavia l'idea e la statua d'Ercole
non è il preciso contrario dell'idea e della statua d'Apollo? certo che sì, quanto alla forma virile e
matura ec. (12. Sett. 1823.).
[3491,1]
3491
Θαυμαστὸν οὐδέν ἐστι μὲ
ταῦθ᾽ οὕτω λέγειν
*
, (Isacco
Casaub. scrive οὐδὲν ἐστί με) Καὶ ἀνδάνειν
αὐτοῖσιν αὐτοὺς καὶ δοκεῖν Καλῶς πεϕυκέναι καὶ γὰρ ἁ κύων κυνὶ Κάλλιστον
εἶμεν ϕαίνεται, καὶ βοῦς βοΐ, ῎Oνος δὲ ὄνῳ κάλλιστον, ὗς δὲ ὑΐ
*
(il medesimo legge ῎Ονος δ᾽ ὄνῳ κάλλιστόν ἐστιν, ὗς δ᾽
ὑΐ
*
). Epicarmo comico
dell'antica commedia, Coo di patria, ma vissuto in
Sicilia, contemporaneo di Gerone tiranno. Frammento recato da Alcimo appresso Diog. Laerz. in Plat. l. 3. segm. 16. p. 175. ed. Amstel.
1692. Wetsten. (21.
Sett. Festa di Maria
SS. Addolorata. 1823.).
[3553,2] Ho notato altrove p. 108 che la
debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del
subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di
vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non
distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:
3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo
l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea
{+(come ne' fanciulli e nelle
donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però
l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di
quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli
uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora
l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone,
naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo
posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed
essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza
dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le
creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza
essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri
ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da
esso riceve diletto. {La debolezza
ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere
ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in
quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in
parte.} Senza ciò i fanciulli,
3555 massime
dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo
degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli
adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio
mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi}
un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi
di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura
esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente
egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi
siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri).
Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto
della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira
naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor
proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa
sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima
di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi
bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi
3556 delle donne, nelle quali indipendentemente
dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così
di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini,
gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor
debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a
risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad
altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di
compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son
maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè
non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno
qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo
ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso
questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che
cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la
piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p.
200
pp.
1880-81
{#1. nè la sola sveltezza che in questi
piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e
che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec.
secondo il detto altrove p. 221
pp. 1716-17
p. 1999
pp. 2336-37 da me
sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la
3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30.
Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}
[3712,1] Tutte le qualità e cagioni che producono la grazia
nelle persone o portamenti o azioni ec. umane, sono più efficaci, e gli effetti
loro più notabili negli osservatori ec. di sesso diverso. I quali concepiscono
quella tal grazia per molto maggiore ch'essa medesima non apparisce agli
osservatori del sesso stesso. Ma tal differenza d'idee non ha punto che fare
colla natura nè della grazia in genere, nè
3713 di
quella tale in ispecie. E quel grand'effetto non è della grazia, ma della
diversità del sesso aiutata dalla grazia, o viceversa della grazia aiutata ec.
in quanto aiutata ec. Tutto ciò dicasi ancora della bellezza ec. (17. Ott.
1823.).
[3760,1] Niente d'assoluto. Qual cosa par più assoluta e
generale, almen fra gli uomini, di quello che la corruzione sia nauseosa? Or le
sorbe e le nespole, perocchè nello stato che per loro è vera maturità e
perfezione, per noi non son buone a mangiare; bensì nello stato che per loro è
vera, non pur vecchiezza, ma morte e corruzione; perciò mezze e corrotte si
mangiano. - Lo schifoso è interamente relativo. La lumaca non fa schifo a se
stessa. Non è schifoso a noi quello che in noi, o da noi uscito o prodotto ec. è
schifoso agli altri. Il porco si diletta di ravvolgersi nel fango e lordure ec.
E quanti uomini trattano e amano, e mangiano e gustano ec.
3761 cose che agli altri (a tutti o a più o ad alcuni, nella stessa
nazione o in diverse) riescono schifosissime. - La sorba, la nespola, secondo
noi, è perfetta quando è corrotta, misurando noi {la}
perfezione di queste, come d'infinite altre cose, dall'uso nostro ec. Ma chi non
vede che questa perfezione è al tutto relativa? {e relativa a
noi soli, anzi al solo uso del nostro palato e stomaco, ed in quanto la
sorba è atta a divenirci una volta cibo, cosa a lei affatto accidentale ed
estrinseca?} E che la sorba non ne è perciò meno corrotta e
degenerata? nè, per se stessa e per sua natura, meno perfetta allor quando ec. e
non in altro tempo ec. (23. Ott. 1823.).
[3893,3] Gli Americani consideravano per mostruosità la barba
{negli europei} perocchè quei popoli naturalmente
erano sbarbati, come i mori e altri popoli d'Affrica ec.
Si applichi alle osservazioni sul bello pp. 6-9
pp. 1318-21
p.
1367
pp. 1404-20
pp.
1538-39
pp.
1603-605
pp.
1913-14. Solìs, Hist. de Mexico; De
Cieça
Chron. del Peru, ec. (19.
Nov. 1823.).
[3984,2] Bello non assoluto. Diversissime usanze, opinioni,
gusti ec. circa le chiome, sì sopra l'acconciamento loro, come sopra il portarle
o no, raderle, lasciare crescerle fino a terra, fino agli omeri, fino al collo,
tagliarli[tagliarle] all'intorno della testa
ec. ec. presso gli antichi e i moderni e le varie nazioni, selvagge, barbare,
civili ec. ec. ec. in vari tempi ec. anche egualmente colti e di buon gusto ec.
ec. (15. Dec. 1823.).
[3988,1]
3988 Bello non assoluto. I greci e i romani (erano
nazioni di buon gusto?) pregiavano, almeno nelle donne, la fronte bassa, e
l'alta stimavano difettosa, per modo che le donne se la coprivano ec. V. le note
del De Rogati alla sua traduzione di
Anacr.
od. 29.
sopra Batillo. Sul coprire o mostrar
la fronte il che {+e la quale} ha tanta parte nel differenziare
le fisonomie, nè gli antichi nè i moderni, nè la moda oggidì è mai
d'accordo con se stessa. Non è dubbio che quella nazione di cui parla Ippocrate (v. la p. 3960.[3961]),
avvezza a non vedere che teste lunghe, benchè tali essi ed esse a dispetto della
natura, pur contuttociò naturalmente avrebbe e avrà sentita una mostruosità e bruttezza notabilissima e,
secondo lei, incontrastabile ogni volta che avrà veduto teste, non dico piatte,
ma discrete ec. Così dite degli altri barbari di cui p. 3962. E così di cento mila altri usi contro
natura, selvaggi o civili, antichi {(greci, romani ec.)} o moderni ec. spettanti alla conformazione o
reale o apparente (come quella de' guardinfanti ec.) del corpo umano. p. 1078
(16. Dec. 1823.).
[4020,2] Della differenza naturale e artificiale del gusto e
del bello presso le varie nazioni e tempi, nelle arti, letterature, fattezze del
corpo ec. ec. vedi il primo capitolo del
Saggio sull'epica poesia del Voltaire ne' suoi opuscoli tradotti e
stampati in Venezia appresso il Milocco colla data di
Londra nel 1760 (volumi 3), volume 2.o
principio.
(21. Gen. 1824.).
[4085,1] Come la fisonomia degli uomini, e animali sia
determinata dagli occhi, secondo il detto altrove pp. 1576-79
pp.
2102-103, osserva che se tu disegni un volto umano o animalesco e non
vi poni gli occhi, tu non vedi punto che fisonomia abbia quel volto, e appena
senti (se ben conosci) che sia un volto. {+Così i ritratti levati dall'ombra in profilo non paiono
ritratti finchè non vi si aggiunga convenientemente quello che dall'ombra
non si può ricavare, dico l'occhio.} Al contrario se ponendovi gli
occhi, lasci qualche altro membro, tu senti benissimo che quello è un volto e ne
comprendi la fisonomia; solamente ti parrà mostruosa, ma sempre ti riuscirà un
volto e una fisonomia. E così dico a proporzione, del disegnare o accennar gli
occhi più o meno imperfettamente, paragonando l'effetto di questa imperfezione
in ordine al determinar la fisonomia, coll'effetto di una simile imperfezione in
altra qualunque parte del volto. (30. Aprile 1824.).
[4113,3] Del bello esterno come sia relativo vedi un luogo
insigne di Cicerone
De Natura Deorum I. 27-29. (19.
Luglio. 1824.).
[4119,9] Della stolta opinione che negli animali la natura
sia stata più larga di bellezza a' maschi che alle femmine, come è ragione, ma
negli uomini per lo contrario, il che è assurdo, e nasce questa opinione dalla
idea del bello assoluto, e dal credere che assolutamente sia bellezza maggiore
quella che a noi per cagioni relative par tale, onde il donnesco è chiamato il
bel sesso, laddove se le sole donne giudicassero, o chi non fosse donna nè uomo,
chiamerebbe senza dubbio bello il sesso degli uomini maschi, come negli altri
animali, vedi il Tasso
Dial. del Padre di
famiglia, opp.
Venezia 1735. ec. vol. 7. p. 379. che è prima del
mezzo del Dialogo. (15. Sett. 1824.).
[4234,5] La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che
tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito
di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera {e pura} poesia in tutta la sua estensione; proprio
d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e
colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia; espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo
questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico, o
vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha
assunta
4235 principalmente e scelta la narrazione,
poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch'esso sulla lira o con
musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno
in onor degli {eroi o delle nazioni o eserciti;}
solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio d'ogni nazione anche
incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in
gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto dell'epico e del lirico,
che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente
dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia
guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività
dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma
non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo
e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà,
non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più
che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le
parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben
fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con
regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto, n'esclude affatto
l'armonia; giacchè il pregio {e il diletto} di tali
imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di
modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è
amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che
non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i
soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze,
i difetti. E tali imitazioni {naturali} poi, non sono
mai d'un avvenimento, ma d'un'azione semplicissima, voglio dir d'un atto, senza
parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo
rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura,
è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio
delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato
4236 di persone oziose, che
vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come
tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non
ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e
onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma
non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima
figlia, e l'epica, che è sua vera nepote. - Gli altri che si chiamano generi di
poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti
per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L'elegiaco è nome di metro.
Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti
lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci {lirici,} massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto
lirici, detti θρῆνοι, {+quali furon
quelli di Simonide, assai
celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μονῳδίαι, come quelle che di
Saffo ricorda
Suida.} Il satirico è in parte lirico, se
passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera
poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che
il linguaggio, {il modo} e i gesti per dir così. {ec.}
(Recanati. 15. Dic. 1826.).
[4238,4] Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime
e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli)
non cercavano l'oscuro per
4239 tutto, eziandio nel
chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi
secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano
spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non
sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e
manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano
misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della
natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla
intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove,
altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere
delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi
in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic.
1826.).
Related Themes
Della natura degli uomini e delle cose. (pnr) (98)
Grazia. (1827) (16)
Fanciulli. (1827) (16)
Gusti diversi. Buon gusto, cattivo gusto, ec. (1827) (14)
Musica. (1827) (12)
Eleganza nelle scritture. (1827) (15)
Piacere (Teoria del). (1827) (15)
Fisonomia. Occhi. (1827) (12)
Lingue. (pnr) (14)
Naturalezza. (1827) (11)
alla vivacità, alla vita. (1827) (7)
Francesi. (1827) (6)
Delicatezza delle forme. (1827) (6)
Memorie della mia vita. (pnr) (8)
. (1827) (7)
Semplicità. (1827) (10)
Proporzione. (1827) (9)
Romanticismo. (1827) (8)
Epiteti in . (1827) (2)
Pederastia. (1827) (1)
Doveri morali. (1827) (1)
Macchiavellismo di società. (1827) (2)
Canto e Suono. (1827) (2)
Civiltà. Incivilimento. (1827) (2)
Opinioni (diversità delle). (1827) (4)
Memoria. (1827) (1)
Educazione. Insegnamento. (1827) (4)
Carattere, lingua ec. ec. (1827) (5)
Verso. Versificazione. (1827) (1)
Sapori. Diversi giudizi intorno ad essi. (1827) (2)
Cinquecentisti. Trecentisti, ec. (1827) (2)
Religione. Culto. (1827) (1)
Toscano (Volgare). (1827) (1)
172. La musica imita il sentimento in persona. Paragonata alla poesia ed all'architettura. Passo della in proposito. (varia_filosofia) (1)
Simmetria. (1827) (2)
Varietà. (1827) (1)
Debolezza, amabile. (1827) (2)
, e il suo libro (1827) (2)
Libri belli, e libri utili. (1827) (3)
Paradossi. (danno) (1)
Piacere e Utilità. Utile e dilettevole. (1827) (1)
Idee innate. (1827) (1)
Rima. (1827) (1)
Imitazione poetica ec. (1827) (4)
Ritratti. (1827) (2)
Amore. (1827) (1)
Mondo e immondo, relativo. (1827) (3)
Spagnuoli. (1827) (1)
Piacere dell'eleganza. (1827) (1)
Piacere della purità della lingua. (1827) (1)
Purità della lingua. (1827) (1)
Uomo, perchè si creda il supremo degli enti. (1827) (1)
Loro lingua, letteratura ec. (1827) (1)
Vago. Piacere del vago o indefinito. (1827) (4)
Scientifici (libri o discorsi). (1827) (1)
Sua difficoltà. (1827) (1)
non si possono avere se non per arte. (1827) (2)
Interesse in poesia ec. (1827) (1)
Caratteri meridionali e settentrionali. (1827) (1)
nella Musica. (1827) (1)
Armonie della Natura. (1827) (1)
Compassione. (1827) (1)
Affettazione. (1827) (1)
Compassione verso le bestie. (1827) (1)
Egoismo. (1827) (1)
non dispiacevole ne' deboli. (1827) (1)
Apologhi. (1827) (1)
Commedia. (1827) (1)
Poesia. (1827) (1)
Cristianesimo, ha peggiorato i costumi. (1827) (1)
Mitologia greca. (1827) (1)
Donne. (1827) (1)
Gloria letteraria. (danno) (2)
Storia ebraica, troiana, greca e romana. (1827) (1)
Maraviglia (1827) (1)
Metafore. (1827) (1)
Proprietà delle parole. (1827) (1)
Rimembranze. (1827) (2)
Familiarità nella scrittura. (1827) (1)
Originalità. (1827) (1)
Altezza, piacevole. (1827) (1)
Drammatica. (1827) (3)
Idilli. (1827) (1)
Lirica. (1827) (2)
Poesia descrittiva. (1827) (1)
Ricchezza delle lingue. (1827) (1)
Ragione dell'epiteto βοῶπις . (1827) (1)
Che parte abbia la natura rispetto all'arte nella riuscita degli uomini in qualsivoglia cosa. (danno) (1)
Qualità umane che si credono cattive. (1827) (1)
Epopea. (1827) (4)
13. Se il prototipo del bello sia in natura. (varia_filosofia) (1)